Carissime Gaia, Sanlu e Luna! Grazie per avere letto e commentato
SIETE FANTASTICHE: pur essendo state molto diplomatiche, in maniera delicatissima, avete fatto trapelare una comprensibile mancanza di entusiasmo per questo capitolo e anche il pensiero che io abbia un tantino esagerato! ahahahahahaah VI LOVVO!!! ahahahahahaah Beh, è quello che penso anche io! Credo di avere un tantino esagerato, ma un tantino TROPPO! E va bene lo sfogo contro Terence, va bene anche lo sfogo contro Albert, ma Suor Maria che suona il tamburello tra le corsie dei malati non si può tollerare... ahahahahaahhahah per non parlare del ritorno di Anthony! Ahahahahahaha... Siete grandiose perché, tra le righe, la vostra "preoccupazione" per queste scelte folli si evince.
Bene è giunto il momento della verità: questo capitolo ehm... ecco.... è uno scherzetto! Uno scherzetto che ho fatto alle mie colleghe del RR e che ho voluto riproporre anche qui... spero vi abbia fatto sorridere. E... perdonatemi se potete!!!
Baci a iosa per voi:
Comunque visto che avete apprezzato lo sfogo quello lo lascio! E adesso eccovi il capitolo VERO! CAPITOLO SESTO (Quello VERO!)
di sciara
Aveva contato, uno dopo l’altro, tutti i passi che l’avevano condotta dall’uscio di casa all’ingresso della Royal St Paul School, la scuola che li aveva visti crescere. Ogni passo era un ricordo, ogni passo era una riflessione, ogni passo una domanda, una sensazione, un’aspettativa, un desiderio, un rimpianto.
Un estraneo avrebbe potuto giudicare freddo e distaccato il saluto senza parole che Patty aveva riservato a Candy, nonostante fosse passato molto tempo dall’ultima volta insieme. Patty la strinse forte, senza dire una parola, senza l’accenno di un sorriso. Ma Candy non aveva bisogno di parole per capire che in quell’abbraccio c’era tutto, per capire che Patty stava raccogliendo tutte le sue energie per prepararsi all’incontro che aveva mille volte sognato e mai osato sperare.
Da qualche tempo non lo sentiva né lontano né vicino e tuttavia si svegliava ancora col suo nome in bocca. Ricordava perfettamente la sua faccia, la sua voce, il suo sorriso, quel sorriso ormai lo aveva scolpito dentro al cuore. Ma la sua scala dei valori era improvvisamente impazzita e adesso non sapeva più che valore e che senso avesse ricordare.
Davanti alla porta che la separava da lui, Patty esitò. Forse era ansia, forse eccitazione, forse gioia, forse rabbia, forse era semplicemente paura. Paura! Era strano per Patty associare Stear a questo sentimento, eppure Patty aveva paura. Per l’ennesima volta Stear metteva a soqquadro la sua vita. Aveva imparato da poco ad affrontare a testa alta la sua disperazione, a lottare contro il disfattismo che aveva pilotato ogni suo pensiero, a cercare un modo diverso di vivere la vita, a dare un colore all’abisso nero dal quale era lentamente e dolorosamente riemersa. Quando il mondo ti crolla addosso non c’è luogo né pensiero né parola né azione che possa attutirne l’impatto. Solo il tempo può insegnare, non a dimenticare, non a rassegnarsi e forse nemmeno ad accettare, ma a rimettersi in piedi, ritrovare un equilibrio e riprendere, piano piano, a respirare, guardare avanti e camminare. Ma il tempo da solo non basta! Non serve a niente se lo si spreca a piangersi addosso, a crogiolarsi nel dolore. Occorre uno sforzo. Occorre impegno, fatica, lavoro, volontà. Occorre assumersi la responsabilità della propria vita, del proprio destino. Questo era il traguardo che Patty, la timida ed esitante Patty, era miracolosamente, nonostante tutto, riuscita, poco alla volta, a guadagnarsi.
Aveva conosciuto James una mattina d’inverno. La lezione di letteratura quel giorno cominciava in ritardo a causa del cattivo tempo che aveva impedito al professore di arrivare in orario. Se la neve non avesse scoraggiato un gran numero di studenti a presentarsi al corso, forse James non si sarebbe mai accorto di lei. Non perché il suo aspetto non meritasse attenzione, ma perché Patty aveva la straordinaria capacità di mimetizzarsi in mezzo agli altri e passare inosservata. Il numero degli studenti del Prof. Gunther quel giorno non superava la decina e Patty, per la prima volta, senza la naturale barriera di protezione che spontaneamente e inconsapevolmente le offriva la folla, fu costretta a rapportarsi agli altri.
Stanco degli atteggiamenti delle sue disinvolte colleghe interessate a lui un po’ per la gradevole prestanza fisica, un po’ meno per la posizione sociale della sua famiglia e molto per la promettente carriera, James fu invece attratto dall’impacciato portamento di Patty nel suo tentativo fallimentare di ottenere informazioni sull’orario di inizio della lezione. C’era qualcosa in quella delicata e gentile riservatezza, in quella “aggraziata goffaggine” che gli suscitava una serena allegria e un innato senso di protezione che… “Ehm, signor Hampton – interruppe i suoi pensieri il prof. Gunther – sarebbe così cortese da leggere il sonetto di Shakespeare alla pagina 238? Ho dimenticato gli occhiali a casa”. “Volentieri”, rispose svelto James avvicinandosi al leggio accanto al professore.
“Non piangere per me quando mi saprai morto”
A quelle parole Patty trasalì e cominciò a fissare James come se fosse il portatore di un messaggio.
“non oltre il suono tetro della campana lugubre
che dà notizia al mondo che io sono fuggito
dalla sua codardia per vivere coi vermi.”
James sentiva gli occhi della ragazza incollati ai suoi e non poteva fare a meno di ricambiarli. Era la prima volta che i loro sguardi si incrociavano. Cambiò il tono della lettura come se leggesse quei versi per lei… solo per lei.
“Anzi, se leggerai queste righe, dimentica
la mano che le ha scritte: io t'amo così tanto
che vorrei scomparire dalla tua cara mente
se il pensiero di me può portarti dolore.”
“E’ la tua assenza, non il pensiero di te, a portarmi dolore, mio amato e adorato Stear…” Sussurrò Patty a labbra strette per trattenere in bocca quella insostituibile sensazione che le procurava pronunciare il suo nome.
Oh se mai tu posassi gli occhi su questi versi
quando forse sarò già sfatto nella terra,
ti prego non chiamare il mio povero nome
ma lascia che il tuo amore con la mia vita muoia.
“Non chiedermi questo, Stear, non posso cancellarti.” Nonostante tutto il tempo trascorso, Patty non aveva ancora elaborato il lutto. Viveva sospesa in un limbo di silenzio e costernazione dove l’unica attesa era la morte. Sguazzava nella sofferenza come se solo questa le desse il diritto di respirare, di esistere. Il dolore era il suo conforto, il suo rifugio e Patty si prendeva cura di lui, lo accudiva, lo nutriva, lo difendeva da tutti, sopra ogni cosa. Superarlo sarebbe stato imperdonabile, offensivo come sputare sulla tomba del suo amato. Il dolore era l’ancora per restargli attaccata, per restargli fedele per sempre. Lasciarlo andare era perdere Stear un’altra volta. Anche riprendere gli studi per lei non aveva avuto alcun valore. Era il contentino per mettere a tacere la sua coscienza e tappare la bocca a chi osava ricordarle costantemente che la vita va vissuta, non mortificata. Un’altra maschera per distrarre chi la esortava a rialzarsi e lottare. Ma questa volta era il suo Stear che le stava chiedendo di andare avanti. Le lacrime rigavano il volto di Patty bruciando tutto quello che incontravano, non avevano mai fatto così male… eppure tante volte l’avevano abitata. Morire dentro è doloroso, ma per rinascere ci vuole tanto, troppo coraggio! È facile, vivere accusando il destino delle proprie miserie; troppo comodo vivere senza scegliere, senza sbagliare, senza cadere, senza sporcarsi. Questo Patty aveva capito in quell’istante. Questa era la sfida che Patty, per la prima volta, dopo la morte di Stear, era pronta ad affrontare. “Non chiedermi quello che non posso mantenere. Io non ti dimenticherò mai, Stear, ma ti prometto che riprenderò a camminare… tu, però, dammi la mano, amore mio, accompagnami, fai un altro pezzo di strada assieme me. Addio mio dolce e infelice amore. Mai volerò nel bosco caldo dei tuoi occhi, mai più danzerò nelle giostre briose del tuo sorriso… ma quegli occhi e quel sorriso io li canterò per sempre.”
James non la conosceva, non l’aveva mai vista, non aveva idea di chi fosse né da dove venisse, sapeva solo che mai, da quando era al mondo, s’era sentito attraversato e riempito d’Amore come in quella mattina d’inverno.
Da quel giorno erano trascorsi pochi mesi durante i quali James si era adoperato molto per aiutare Patty ad abbandonare la zattera dell’apatia e della depressione, come la volta in cui si presentò a mezzanotte sotto la sua finestra, a cantare le canzoni di Elizabeth Bessie Smith imitandone grottescamente la voce. Patty si stupiva a scoprirsi agitata quando sentiva la sua automobile arrivare. Si meravigliava a ritrovarsi a farsi bella per un altro. E la cosa che la sbalordiva di più era sorprendersi a parlare con Stear di questi nuovi palpiti, chiedendogli consigli su cosa indossare, cosa dire, come comportarsi. Lo avrebbe già baciato da tempo se il suo vissuto non le avesse suggerito di non incoraggiare l’inequivocabile interesse che James nutriva nei suoi confronti. Patty voleva essere certa dei propri sentimenti. Non desiderava un rapporto malato. Non voleva che James diventasse un altro rifugio, un nuovo rimedio, un’altra ancora, una nuova maschera. La dipendenza non è amore, è dipendenza. E l’unico modo per essere certa che il suo fosse amore e non bisogno era imparare per prima cosa a stare bene da sola perché per amare un altro come se stessi bisogna prima imparare ad amare se stessi. Ma quella di Patty non era una ricerca affannosa, timorosa e irrequieta… Patty era, per la prima volta, dopo tanto tempo, rilassata, serena, paziente… a tratti anche felice. Rinascere costa certamente fatica, ma una volta che torni al mondo l’unica cosa che ti chiedi è perché hai atteso così tanto.
Adesso Patty era di fronte a quella porta, le mancavano gli ultimi passi per raggiungere l’uomo per il quale i suoi occhi non avevano mai del tutto smesso di piangere. Aveva la sensazione di ripiombare indietro nel tempo. Le immagini della sua storia con Stear le passavano davanti come un film a ritroso: l’angosciante lutto, il funerale, la notizia della sua morte, le sue lettere, il giorno della sua partenza, tutti i tentativi fatti per convincerlo a non arruolarsi, il giorno in cui le comunicò il suo desiderio di partire per la guerra. Era come se qualcuno le riaprisse a forza le cicatrici e ci buttasse sopra la calce viva.
“Non posso, non ce la faccio”, Patty si voltò indietro e si allontanò correndo veloce. Ma le immagini della loro storia insieme continuavano a scorrere senza fermarsi: il giorno in cui Patty lo riabbracciò in America, l’addio alla R. S. P. School, le lettere, gli appuntamenti segreti, l’estate in Scozia, le passeggiate sul lago… E mentre le immagini scorrevano riempiendola di palpiti, Patty rallentava sempre di più la sua corsa: le risate, le sue folli invenzioni, la festa di maggio, il primo ballo insieme, il primo incontro… Patty puntò i piedi a terra e si fermò “Che sciocca sono!” Invertì la marcia e riprese a correre più veloce di prima. “Come ho potuto lasciare che la paura guidasse il mio cuore? Come ho potuto credere, anche solo per un istante, di poter respirare ancora senza di lui, sapendolo qui, vivo?” Spalancò la porta senza nemmeno bussare ed entrò nella stanza. Stear era lì e pur a fatica si alzò in piedi. Patty aveva perso il conto di tutte le lacrime versate, di tutte le ferite nella sua anima, di tutte le toppe al cuore, di tutti i momenti in cui aveva solo desiderato morire, di tutti i passi fatti fino all’uscio di quella porta. Non credeva ai suoi occhi, dopo tanto tempo la vita glielo aveva restituito, un po’ malconcio e ammaccato, ma sano e salvo. Sì, Stear era vivo, era vivo, era vivo! Ed era lì, a un passo da lei, l’ultimo per sfiorarlo.
La gioia trova tanti modi e tante strade per manifestarsi, in Patty e Stear aveva voluto esprimersi attraverso il silenzio e l’immobilità. Tutti i nodi ingoiati erano risaliti alla gola e lì fermentavano impedendo al respiro d’essere regolare e costante e rendendo le lacrime così cariche di emozioni da sembrare quasi solide. Gli occhi di entrambi lottarono faticosamente per affrancarsi da quelle lacrime. Ogni lacrima era un macigno che si portava via zavorre d’angoscia, ogni lacrima giù dagli occhi era una faticosa e sofferta conquista. Come se tutti i patimenti vissuti non fossero stati abbastanza! Come se quei due avessero ancora qualcosa da doversi meritare! Patty era sul punto di svenire ma non avrebbe permesso a niente e nessuno di interrompere quel momento. Nemmeno a se stessa. Prese coraggio e sfidando il suo precario equilibrio fece quell’ultimo passo verso di lui. Adesso bastava davvero poco per sfiorarsi e quando i due furono tanto vicini da respirare l’uno il fiato dell’altro, Patty realizzò! Concentrò tutto il dolore patito, tutte le lacrime versate, tutta l’ansia sofferta, tutti i nodi ingoiati, tutti i passi fatti in un unico gesto che sorprese lei più di quanto non sorprese Stear. Gli mollò uno schiaffo con tutta la forza che aveva in corpo!
“Perché sei partito? E perché lo hai fatto senza dirmi niente? Perché mi ha abbandonata?” – Patty vomitava parole gridando, senza prendere fiato, colpendo a pugni stretti e a occhi chiusi il petto di Stear, per non rischiare che quella voce troppo amata e troppo spasimata potesse placare la rabbia che sentiva ribollire dalle ossa all’anima. “Perché mi hai lasciato credere d’essere morto? Come hai potuto farmi questo? Come? E perché sei qui adesso? Cosa vuoi da me? Chi ti credi di essere per mandare a monte ancora una volta la mia vita? Cosa ti aspettavi? Che ti venissi incontro gettandoti le braccia la collo? Scordatelo! Io ti odio, ti odio, ti odio“.
“Patty - disse Stear, senza difendersi dai pugni e con le lacrime che gli brillavano negli occhi e gli spezzavano la voce -
Io t'amo così tanto che vorrei scomparire dalla tua cara mente se il pensiero di me può portarti dolore. Io t'amo così tanto che vorrei scomparire dalla tua cara mente se il pensiero di me può portarti dolore. Io t'amo così tanto che vorrei scomparire dalla tua cara mente se il pensiero di me può portarti dolore.”
Stear continuò a ripetere come un mantra le parole di Shakespeare… Patty perse il conto pure di questo. Sciolse i pugni, allentò braccia e cuore e si arrese alla delicata e sensuale stretta di Stear più per la spossatezza che per desiderio. O almeno questo era quello che voleva fortemente credere. Doveva essere per forza così altrimenti cosa ne sarebbe stato di lei? Cosa ne sarebbe stato di James? Era davvero disposta a rivoluzionare per l’ennesima volta la sua vita per lui? A rimettere in discussione il ritrovato equilibrio? E perché avrebbe dovuto farlo? Lei lo odiava adesso! Ma allora perché, perché non c’era altro luogo al mondo dove voleva stare se non lì, tra le sue braccia, in balìa delle sue mani, a respirare nuovamente la pelle che più l’appagava, a sfiorare l’anima che più la dissetava… “Io ti odio, Stear - gli sussurrò teneramente guardandolo negli occhi in un modo così dolce, così amorevole, così benevolo che lo fece fremere tutto - ti odio. Non ti permetterò più di farmi del male. Io… io… ti odio”. Mentre la sua voce diceva una cosa, il suo corpo, la sua anima, il suo cuore ne faceva un'altra e ricambiò il suo abbraccio.
***
La seconda collina di Pony era l’unico luogo che avrebbe potuto restituirle un po’ di quiete, il riparo perfetto per cercare di riordinare le idee e le emozioni. Seduta con i piedi penzoloni sul ramo più accogliente del maestoso amico, Candy era ancora scossa per l’incidente occorso in corsia durante la notte. Una distrazione che avrebbe potuto avere conseguenze gravissime se non si fosse accorta in tempo che stava per somministrare a un soldato un farmaco sbagliato. Fortunatamente il dott. Cox conosceva molto bene la preparazione e la diligenza di Candy e, imputando l’accaduto alla stanchezza, le consigliò di prendersi 48 ore di pausa. “Forse non sono stato chiaro, il mio non è un consiglio, ma un ordine. Lei lavora troppo, sig.na Candy. Apprezzo la sua abnegazione, mi creda, ma le ricordo che anche il riposo è un suo dovere! La stanchezza può giocare brutti scherzi alla concentrazione e nel nostro lavoro una distrazione può essere fatale, quindi non discuta e si riposi. In queste condizioni non è utile a nessuno!”
In effetti Candy era davvero provata. Da quando era arrivata a Londra, aveva lavorato senza mai risparmiarsi. Sul suo visetto sciupato i suoi occhioni e le sue lentiggini sembravano ancora più grandi e la sua divisa avrebbe potuto ospitarla mezza volta in più. Ma non era la stanchezza fisica che impensieriva Candy, in fondo era abituata a lavorare duramente sin dalla casa di Pony dove, ancora bambina, faceva da mamma a bambini poco più piccoli di lei. In realtà era la stanchezza mentale che Candy cominciava a soffrire seriamente.
Le ultime settimane erano state sconvolte da eventi eccessivamente stupefacenti e conturbanti. I suoi pensieri avevano il numero e la forma dei suoi capelli: tanti e ricci e le sue lentiggini, se avessero trovato un modo, si sarebbero trasferite volentieri su guance più distese e meno soggette a sbalzi termici.
Non aveva ancora avuto il tempo di metabolizzare l’inaspettato incontro con Terence e Susanna insieme che subito si era ritrovata a dover fare i conti con i baci di lui, l’arrivo del duca di Granchester, la promessa di Terence, la sua partenza in Scozia, il tentativo di violenza di Neal, il salvataggio di Albert, la sua dichiarazione, i suoi baci, il ritorno di Stear, l’arrivo imminente di Patty! Troppa roba in troppo poco tempo! Ma tutto questo non era sufficiente per giustificare la sua imperdonabile negligenza a lavoro. Miss Pony glielo diceva che non si può mai sapere cosa c’è dietro l’angolo. Aveva vissuto da sempre con questa aspettativa nel cuore, ma mai avrebbe potuto credere che ci fossero così tanti angoli lungo le strade della vita. Adesso l’unico desiderio era vivere in un luogo senza incroci, in una retta infinita che la portasse dritta a destinazione senza più angoli da scoprire, senza più scelte da fare, senza più responsabilità da assumersi. Il suo cuore era un campo di battaglia, le emozioni si sfidavano a duello, i ricordi divenivano sospiri e a pagarne le spese erano le povere lentiggini ustionate dalle ricorrenti vampate di calore che sbottavano sulle sue gote. Quanto rimpiangevano i tempi in cui l’unica preoccupazione era scansare le briciole dei biscotti di Suor Maria! Ma i pensieri quando arrivano non sono mai soli e infatti, anche questa volta, giunsero in compagnia di una cricca di “amici” esigenti, austeri e invadenti. I sensi di colpa… per non avere detto ad Albert dei baci di Terence, a Terence dei baci di Albert, per avere infranto una promessa non pronunciata a parole ma ugualmente sacra al suo cuore, per non essere stata in grado di tenere a bada le sue tensioni a lavoro e davanti a Stear. Avrebbe voluto riservare al suo amico ritrovato tutte le sue attenzioni e le sue energie e invece era stato lui, ancora una volta, a doverle prestare soccorso, spalla e orecchio. L’aveva ascoltata senza interrompere, senza giudicare, senza esprimere opinioni per un intero giorno, durante le brevi pause in cui Candy poteva allontanarsi dalla corsia, ma a fine giornata non riuscì a fare a meno di commentare: “Se avessi saputo cosa mi sarebbe aspettato non avrei mai chiesto a Luc di portarmi alla R. Saint Paul’s School!”. La fragorosa risata di Candy rasserenò per un istante le sue lentiggini che già da qualche giorno meditavano la fuga. “In tutta questa storia – continuò Stear - l’unico da cui si pretende l’onore è il povero Terence”! Questa battuta non sortì su Candy lo stesso effetto della prima, la risata le si spezzò tra i denti e le labbra vi si incollarono sopra donando alla sua bocca un così orripilante sorriso che perfino il principe della collina l’avrebbe implorata in ginocchio di continuare a piangere. Ma Stear, fortunatamente senza occhiali, pur intravedendo dei dentoni bianchi scoperti non si rese conto a quale terribile visione era scampato. L’unica cosa che intuì fu d’essere rimasto da solo a ridere. Si schiarì la voce e riprese: “Capisco la tua confusione, Candy, ma se segui il tuo cuore, difficilmente potrai sbagliare.” Le labbra di Candy si ammorbidirono e staccandosi dai denti abbandonarono la posizione inquietante che avevano assunto. “E se il mio cuore volesse portarmi dove non è possibile andare?”. Domandò scoraggiata la ragazza. “Se anche avessi la certezza di non poter avere quello che desideri – rispose Stear – non è andando nell’altra direzione che farai la cosa giusta o che troverai la felicità. Non mettere Terence e Albert sulla bilancia, non stai valutando se andare a vivere a Londra o a New York! Non è la strada più percorribile o la più certa o la più conveniente che devi scegliere, devi solo capire cosa desideri veramente.” “Io non vorrei che qualcuno soffrisse a causa mia.” Replicò prontamente Candy. “Non puoi avere tutto sotto controllo. Accetta che ci sono cose che non dipendono da te, lasciale andare dove devono andare. Ognuno ha la sua strada da percorre, le sue lezioni da imparare con i propri successi e i propri fallimenti, non puoi impedirlo, non sarebbe corretto.” Candy assorbiva le parole di Stear come le foglie di notte la rugiada. “Prenditi il tempo che ti serve, Candy, non avere nessuna fretta. E se non vuoi alimentare false speranze o cadere ulteriormente in confusione, evita incontri ravvicinati con entrambi. I baci nel disordine generano altro disordine. E poi non cercare di accontentare tutti altrimenti potrei decidere di mettermi in coda e aspettare anch’io il mio turno!”. Candy scoppiò ancora a ridere fragorosamente. Le lentiggini, assolutamente prive di senso dell’humor, nell’incertezza, onde evitare altro stress, ripresero a fare le valigie.
Candy se ne stava lì, raccolta su quel ramo della seconda collina di Pony, a cercare inutilmente di schiacciare via i pensieri che la rendevano inquieta. “Devo darmi una calmata! Non posso permettere che le mie preoccupazioni rubino lucidità al mio lavoro. Sono arrabbiata, arrabbiata, arrabbiata. Tutta colpa di Terence, avrei dovuto schiaffeggiarlo invece di ricambiare i suoi baci e altrettanto avrei dovuto fare con Albert. Hanno pensato solo a loro stessi. Non si sono minimamente preoccupati per me e di quanto sia delicato il mio lavoro. Non siamo in vacanza, siamo in guerra e io sono una crocerossina! Ho bisogno di calma, di ordine mentale, non di altre tensioni.” Candy si sorprese per la severità esternata ad alta voce nei confronti di Terence e Albert, ma, sentendo il suo cuore alleggerirsi, intuì che sarebbe stato più salutare dare libero sfogo a tutta sua rabbia invece di reprimerla e, saltellando acrobaticamente da un ramo all’altro, continuò il suo terapeutico psicodramma urlato al cielo e ai suoi interlocutori virtuali.
“Innanzitutto dirò al dott. Cox di trovarsi un’altra assistente per l’intervento di Susanna. Non posso occuparmene io, sono troppo emotivamente coinvolta. E poi perché dovrei aiutarla? Non ne vedo la ragione! Ha nascosto le mie lettere! Mi ha mentito, ingannato, ci ha provato con il mio uomo e alla fine se l’è pure preso! Cosa vuole ancora da me? Devo rimetterle a posto io la gamba per poi spassarsela con il mio uomo??? Se mai dovessi metterle le mani addosso, lo farò solo per spaccarle la faccia. Ah! L’ho detto! Che liberazione! E poi ricorderò a Terence che ci vorrà tanto tempo perché Susanna si ristabilizzi. Non è che metti una protesi e cominci immediatamente a giocare a saltarello sui prati! Susanna avrà ancora più bisogno di lui durante tutto il periodo della riabilitazione quindi, sono spiacente Terence, ma dovrai prenderti cura di lei ancora per tanti, tantissimi anni, forse per sempre! Non che me ne importi un fico secco, per quanto mi riguarda potresti benissimo gettarla in mare con una pietra al collo e poi allontanarti facendo l’indifferente e fischiettando allegramente “Annie Laurie”, ma almeno avrei una scusa per sbarazzarmi definitivamente di te! Sempre tetro, sempre cupo, sempre musone, sempre arrabbiato col mondo intero. Ma che ti ha fatto il mondo? Ti farei vivere in una stalla con i cavalli e servire Irisa e quel viscido di suo fratello per un paio di anni e poi vediamo se non arrivi a rimpiangere la tua “povera”, “triste” e “sfortunata vita da duca”! Ma fammi il piacere, viziato! Facile fare il "bullo nobile d'animo" che infrange le regole e risponde male ai suoi superiori, quando poi sai che arriva paparino con i suoi soldi a saldare il conto. E poi come ti sei permesso di rapirmi e baciarmi senza assicurarti se io ti amassi ancora, senza informarti se il mio cuore fosse ancora libero per te o se nel frattempo non avessi fatto, che ne so, un voto di castità! Sì, mio caro Terence, non te l’ho detto perché tu non mi hai dato il tempo di aprire bocca che ci hai subito infilato la lingua, ma io preferirei farmi suora, suora, SUORA, piuttosto che tornare con te! E’ assurdo, pazzesco! Prima parte lasciandomi in questa scuola, in balia dei fratelli Legan, in un’atmosfera da incubo. E la cosa assurda è che voleva farla passare come una decisione dolorosa, un sacrificio fatto solo per amore mio, per salvare me! Ma che razza di sacrificio sarebbe lasciare la scuola per andare a fare teatro? E mi scrive una insignificante letterina con a stento due misere parole. Che gran pezzo di tirchio, si è sprecato! Poi riappare magicamente, come se nulla fosse successo, ma dopo poco mi lascia ancora, solo perché una cretina ha avuto la bellissima idea di perdere un arto per salvargli la vita! E adesso cosa pretendi da me? Eh? Ma che ti pare che io sia a tua disposizione in base alle tue esigenze e ai tuoi cambiamenti di umore e al tuo intermittente senso dell’onore… che oggi c’è, domani boh, forse, non lo so!
E quell’altro Albert, il mio caro, dolce amico, fratello, zio, padre, Albert! Ma che cavolo! Dammelo il tempo di realizzare chi sei prima di tirare fuori un nuovo personaggio dal cilindro! Facile fare il vagabondo affascinante che vive di espedienti, quando hai le spalle coperte dai soldi degli Andrew, eccola spiegata tutta la tua serenità, eccoli spiegati i Ray-ban, avrei dovuto capirlo! Ma non ti bastava avermi preso in giro tutta la vita facendomi credere di essere quello che non sei e di non essere quello che in realtà sei, giocando a fare il misterioso che capiva tutto senza bisogno che io parlassi. Ma che bravo! E io, imbecille, che ho creduto a tutte le tue bugie! Credevo che fossimo per davvero uniti da un filo invisibile e che ci fosse tra noi una sorta di magica telepatia che ti avvertiva ogni volta che ero in pericolo e che ti faceva sbucare fuori dagli alberi, guarda caso, tutte le volte che ero in lacrime. Facile risultare affascinanti quando fai credere di saper leggere nel pensiero, quando fai credere che tutto sia così straordinariamente casuale! E invece non c’era niente di casuale! Tutto squallidamente programmato, tutto tristemente calcolato, tutto dannatamente premeditato. Nessuna magica telepatia, soltanto le soffiate di un vecchio guardone di nome George che veniva a riferirti ogni mio pensiero, ogni mia mossa! Che associazione a delinquere, dovrebbero arrestarvi entrambi, chissà quante risate vi sarete fatti alle mie spalle, bugiardi! Io vi odio! Amico, vagabondo, zio, padre, principe… non gli bastavano questi ruoli, no! Adesso si propone pure come amante! E ha perfino il coraggio di tranquillizzarmi! Ho una confusione in testa che non distinguo un bullone da una brugola e lui mi bacia. Ma ti sei mai chiesto se avevo tutta questa voglia di rivoluzionare nuovamente il mio rapporto con te? Se mi interessi? Se mi piaci? Come hai potuto baciarmi quando mi avevi da poco confessato di essere mio padre adottivo??? Ma come ti permetti? Come hai osato? A che gioco stiamo giocando? O anche tu pensi di poter disporre di me come meglio credi? Che io debba essere sempre a tua completa disposizione, immediatamente pronta nel ruolo che tu mi imponi, in base al tuo umore o al tuo personaggio del momento? A proposito, come cavolo dovrei chiamarti io? Principe della collina? Albert? Signor William? Zio? Papà, Amore, come??? Ti ricordo che sono un’infermiera, non una psichiatra, se sei schizofrenico, gioia, io non posso aiutarti! E poi non capisco, era proprio necessario farmi rapire per adottarmi? Non potevi adottarmi in maniera più normale, più classica invece di crearmi dei traumi infantili gravissimi e che ancora oggi rivivo negli incubi notturni? Ma ti rendi conto di cosa hai fatto diventare la mia vita? Una persona più fragile, al mio posto, come minimo, si sarebbe drogata o suicidata. Ma con tutti i soldi che hai, cosa ti costava chiedere il parere di un pedagogista? Pezzo di tirchio, miserabile!!! Ma possibile che io attiri solo uomini con le braccine corte??? In tutta questa storia l'unica autentica sono io!”.
Liberare la sua collera, esasperandola, l’aiutò a sdrammatizzare la situazione, a guardare con la giusta distanza emotiva le sue preoccupazioni e anche a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Cominciò a ridere a crepapelle di se stessa e della sua inusuale intransigenza sciogliendo finalmente le tensioni accumulate in quei giorni e cadendo sgraziatamente dal ramo sul quale era appollaiata.
“Ha ragione Stear – disse toccandosi la parte dolorante del fondo schiena - non devo scegliere tra Terence e Albert devo solo occuparmi della mia serenità”. Mentre affidava le sue parole al vento, Candy era visibilmente più rilassata tanto che le sue lentiggini, per festeggiare, si accesero un sigaro. Adesso sapeva cosa doveva fare. Avrebbe scritto a entrambi chiedendo a tutt’e due di rispettare il suo bisogno di quiete e di lasciarla lavorare serena senza ulteriori ansie. Loro, era certa, avrebbero capito.
Si sdraiò sulla sua seconda collina di Pony stirando le braccia al cielo come se avesse finalmente riposato davvero dopo giorni e giorni d’insonnia.
L’alba stava per giungere sulla seconda collina di Pony pennellando democraticamente esseri viventi, minerali e cose. E mentre Candy fantasticava sull’arrivo ormai imminente di Patty e meditava su come avrebbe potuto trascorrere i suoi due giorni di riposo prescritti dal dott. Cox si addormentò con gli unici baci che non le avrebbero causato turbamenti… quelli del sole.
Edited by sciara - 18/3/2016, 11:52