Candy Candy

GLI SMERALDI E LO ZAFFIRO - FF completa

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icon12  view post Posted on 12/4/2013, 13:40     +28   +1   -1
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Gli smeraldi e lo zaffiro


copertinan



Premessa



Questa è la mia speranza di Final Story.
Questa storia è il frutto di un mio bisogno di dare voce alle emozioni che questi personaggi e le loro vicende in tutti questi anni mi hanno ininterrottamente fatto provare, accompagnando la mia trasformazione da bimba in donna, e che si è nutrita di recente della condivisione con tutte le altre appassionate sognatrici, per la cui amicizia ringrazio ogni giorno la mia buona sorte.
Si è rafforzata con la lettura delle fan fiction di altre folli presuntuose come me, che hanno tentato di esprimere negli anni il loro amore per questi personaggi che hanno un posto speciale nel loro cuore. Dalle mie amiche sui forum, Candyforever, Candy 75, Sciara, Italia, Piricandy, Flow, Piccoletta, Beautifulmind, Arikam, October e tutte le altre di cui spero di leggere presto le pagine scritte con tutta la passione che adesso ben conosco e stimo, alle grandissime Alys Alvalos, Josephine Hymes, Odyssea e alla mia carissima Eleanna, alle quali sono debitrice di molte lacrime versate sull’inchiostro da loro tracciato.
Si è abbeverata alla lettura dei frammenti della Final Story arrivati fino a noi, mentre cercavo di incastrarli, dando loro una forma che lenisse in qualche modo la privazione che sentivo per non avere avuto un seguito di quella storia. Mentre lo facevo, come un segugio, mi sono resa conto che dovevo tornare indietro alle emozioni che Kioko Mizuki aveva ancora una volta saputo trasmettermi con vena straordinariamente poetica. Da questa rivelazione è nata l’idea di questa storia.
Si è concretizzata, infine, nella volontà impellente di riconciliarmi con lo struggente dolore che ancora oggi mi provocano alcuni flash-back dell’anime e del manga, insieme alla grande gioia che tuttora frammenti di questa storia riescono a dare a questa quasi quarantenne che torna regolarmente bambina nel riviverla attraverso dialoghi ormai noti a memoria, eppure ogni volta freschi come se fosse la prima.
Non è un impulso improvviso alla scrittura che mi ha spinto a prendere in mano la penna (anzi, la tastiera), ma una composizione nella mia mente di frasi, immagini, intrecci che avevano già tutti preso vita dentro di me nel corso di questi anni senza che me ne accorgessi, ed ai quali ho solo dovuto dare forma su carta (anzi, monitor), umile scrittrice sotto dettatura.
Non è una Fan fiction, per me, ma la sommatoria di tutto ciò che ho scritto sopra.
Questa, insomma, è la mia Final Story e ciò che il mio cuore mi suggerisce e si alimenta attraverso i quotidiani commenti e riflessioni condivisi con voi tutte.
Per cui, se avrete il piacere di farlo, leggetela sapendo che ho inteso condividere con voi le mie speranze. E non cercatevi l’incastro perfetto degli indizi mizukiani, perché non è che una delle migliaia di possibili scenari alternativi che Kioko ci ha aperto con le sue parole e Igarashi con le sue immagini.
Ma è quella in cui io credo.
Non aspettatevi colpi di scena drammatici e stupefacenti, né vicende frenetiche e capovolgimenti di fronte degni di un romanzo di Dumas (soprattutto, perché io ovviamente non sono all’altezza neanche di avvicinarmi a stringere la mano a Dumas!). Questa è prima di tutto e soprattutto la storia di un lento fluire di sentimenti ed emozioni, che ho cercato umilmente di esplorare con profondo rispetto e amore per le originali caratteristiche dei personaggi. Nelle intenzioni, vuole essere innanzitutto una storia di anime che si cercano, lottando (come la maggior parte di noi che non vive le vite dei “tre moschettieri”) contro nemici che sono quasi sempre dentro di loro piuttosto che all’esterno, in cappa e spada: i nostri pensieri, paure e sentimenti più profondi.
La dedica di questa opera è doverosa, ma molto sentita. Quando ho scritto queste righe non ho avuto né un dubbio né un’esitazione su chi abbia dato il maggiore impulso alla mia fantasia nell’approcciare questa fan fiction.
La dedico con umiltà a Kioko Mizuki, mia amata e odiata autrice, perché non credo di sbagliare dicendo che ha dato vita alla più lunga tra le storie d’amore che hanno accompagnato la mia vita. La ringrazio per la sua poesia e il suo modo delicato ed elegante di dare vita ai sentimenti, che mi piace associare a delle margherite, per il semplice e allegro piacere che mi regalano sempre; ma gliela dedico anche per il dolore e la rabbia feroce e ardente che ha saputo spesso suscitare in me, dandomi la spinta ribelle per scrivere queste pagine.
Per questo motivo lungo la mia storia troverete qua e là delle citazioni delle sue opere originali, sempre doverosamente segnalate, quale tributo a tutte le lacrime ed a tutti i sorrisi che Kioko Mizuki mi ha donato a piene mani negli anni. Così come troverete qua e là anche dei frammenti della storia che tutti noi conosciamo, ma rivisti coi miei occhi e rivissuti col mio cuore.

Ovviamente, non essendo quest’opera destinata alla commercializzazione, ma solo alla condivisione a titolo gratuito nel circuito dei fans, non viene compiuta alcuna violazione dei diritti d’autore con l’utilizzo di personaggi non originali.


Capitolo 1°: Conflitti

1conflitti



New York
11 novembre 1918


Le lancette dell’orologio a pendola dalla pregiata fattura arrancavano faticosamente e, come in tutte le altre notti insonni che avevano preceduto quella che stava così penosamente inerpicandosi verso il miraggio dell’alba, ogni minuto durava un tempo infinito nel buio di un appartamento di New York.
La neve cadeva incessantemente dal pomeriggio precedente, e il movimento di ombre creato dalla lenta traiettoria dei fiocchi attraverso la vetrata affacciata su Manhattan creava un inquietante gioco di chiaroscuri sulla parete di fronte. Le tenebre della stanza erano rotte solo dalle luci sfavillanti dell’inconfondibile skyline oltre la finestra e, all’interno, dalla stilla di rosso che intensificava la sua luce a intervalli regolari, tradendo la presenza nell’angolo più lontano di un’anima in pena, che cercava di espellere un muto tormento insieme al fumo dell’ennesima sigaretta.
Era l’ora più cupa della notte, ma rispetto alle centinaia di altre notti che l’avevano preceduta il silenzio aveva una profondità più spessa, una sensazione ovattata e compatta che solo con la complicità della neve poteva spandersi sulla città che si vantava di non dormire mai.
La persona elegantemente adagiata sulla poltrona di mogano e velluto scuro art-noveau si lasciò sfuggire un sorriso amaro a quel pensiero: anche a lui sembrava di non trovare pace da sempre. Il conforto del sonno arrivava di solito insieme alle prime luci dell’alba, e gli concedeva solo poche ore di oblio prima di riportarlo alla realtà. Le ore del giorno erano scandite dalle tazze di caffè, e le sue notti dalle sigarette avidamente consumate una dopo l’altra, come se il fondo del pacchetto recasse in premio l’agognato riposo.
Eppure, quella notte era stata diversa dalle altre. Ai noti demoni: senso di colpa, privazione, nostalgia e rabbia, compagni immancabili delle sue veglie, si era affiancata un’ansia nuova e ancora indefinibile.
Con un gesto fluido ed elegante, spense la sigaretta nel posacenere poggiato sul tavolino di fianco alla poltrona e si alzò, lasciando così scivolare al suolo il libro che teneva in grembo, e che cadendo si aprì come di sua volontà a una pagina che doveva essere stata letta e riletta più volte, fino a creare tale automatismo. Si avvicinò a passi lenti alla imponente vetrata fissando le luci della città, tra le quali spiccavano quelle del più alto edificio di New York: il nuovo e sorprendente Woolworth Building, dal quale si poteva godere della sensazione di dominare tutta la città, e quindi tutto il mondo. Rimase lì immobile per parecchi minuti, osservando la sua immagine riflessa che si sovrapponeva e confondeva con la vista esterna, finché all’improvviso si sentì soffocare dalle tre pareti rivestite da librerie a tutt’altezza, traboccanti di volumi rilegati in pelle, e dalla quarta, dominata da un grande pianoforte a coda. Sentì l’urgenza, come spesso nelle sue notti eterne ed eternamente uguali a sé stesse, di uscire nella notte e di lasciarsi alle spalle quella stanza che conosceva talmente bene i suoi pensieri e i suoi ricordi, ai quali si concedeva ormai di abbandonarsi solo al chiuso del suo familiare calore, inaccessibile a chiunque altro. Il suo ultimo rifugio. Tutto ciò che di caro gli era rimasto, quasi tutte memorie di un tempo passato e perduto per sempre, era racchiuso tra quelle mura.
Raccolse un’armonica argentata dal tavolino accanto alla poltrona e, dopo averle lanciato una lunga occhiata intensa, la ripose delicatamente nella tasca interna della giacca. Quindi attraversò a passo veloce la stanza fino all’ingresso del piccolo appartamento. Coprì con un morbido cappello di feltro i capelli color mogano, che gli sfioravano le spalle in ciocche ribelli, indossò un cappotto di lana grigio e si avvolse in una morbida sciarpa bianca che coprì completamente il suo volto, eccezion fatta per due strabilianti occhi che avevano la luce degli zaffiri e il riflesso dei fiordalisi bagnati dalla rugiada, cerchiati da occhiaie di stanchezza le quali, lungi dall’ombreggiarne il fuoco, ne esaltavano piuttosto le mille diverse sfumature di blu. Prima di aprire l’uscio lanciò un’ultima occhiata alla stanza che aveva appena lasciato, ed al libro che ancora giaceva aperto sul pavimento accanto alla poltrona. Tutto era silenzio fuori e dentro di sé e quindi, con un ultimo sospiro, uscì richiudendosi lievemente la porta alle spalle.
Le pagine rimasero abbandonate nel buio.

Egli ha un solo consigliere,
e non so quanto legittimo
nella sua pena: se stesso.
E in se stesso si tiene così schivo,
così alieno dal lasciarsi scandagliare e scoprire,
chiuso quanto un bocciolo
divorato dentro da un insidioso verme,
prima ancora di aver disciolto all’aria i suoi soavi petali
a offrirsi al sole in tutta la sua magnificenza.
Ah, potessimo almeno immaginare
la fonte di questo suo tormento:
ché vorremmo non soltanto conoscerlo, ma guarirlo.*




A Terence Graham Granchester piaceva camminare per le strade di New York quando il resto della città dormiva: in quei pochi momenti la sua solitudine acquisiva un senso di normalità, poteva fingersi uno qualsiasi dei milioni di abitanti di quella metropoli in giro per le sue vie, costeggiate dai nuovi imponenti edifici che sorgevano ogni giorno, sfidando la legge di gravità per elevarsi al cielo in una sfida contro i limiti umani. New York era una città in fermento che, quasi senza accorgersene, sotto la pura spinta dei milioni di uomini e donne che la popolavano, armati solo dei propri sogni e della propria energia generatrice, stava letteralmente prendendo il volo.
Terence uscì dal portone del suo appartamento sulla West Third Street e si avviò, affondando le mani nelle tasche del cappotto per proteggersi dal freddo intenso, mentre la neve continuava a danzare lentamente ma fittamente attorno a lui. Superò Washington Square girando attorno al suo inconfondibile arco e rivivendo con un brivido l’esaltazione che aveva provato la prima volta che vi era passato attraverso, appena giunto a New York. Quel passaggio gli aveva dato la sensazione di ricevere una sorta di “benvenuto” da parte di quella abbagliante città. Proprio a lui, diciassettenne già ferito e provato dalla vita, ma allora pieno di speranza per il futuro, che immaginava come un libro dalle pagine bianche ancora interamente da riempire. Ma la trama che allora aveva in mente era molto diversa da quella che sarebbe poi stata scritta per lui dalla mano del destino.
Il ragazzo raggiunse Broadway e si fermò incerto, assimilando l’assenza della consueta frenesia di una delle strade normalmente più vibranti della città, in quel momento congelata dall’ora antelucana e dalla neve: si sarebbe diretto a sinistra verso la Great White Way, la via dei teatri e delle familiari insegne luminose che avrebbe potuto declamare una per una senza neanche alzare lo sguardo? O a destra, verso Downtown ed il nucleo storico attorno al quale si era sviluppata la più straordinaria e cosmopolita delle metropoli, verso i suoi ponti ed i suoi moli? In realtà non aveva alcun dubbio, e senza esitazione voltò a destra, percorrendo Broadway in direzione sud ed allontanandosi dal distretto dei teatri.
Terence era sempre stato una personalità diffidente e incline alla solitudine. Questa attitudine non aveva niente a che vedere con la presunzione, almeno non nel senso in cui di ciò si chiacchierava nel suo ambiente di lavoro, ma era il riflesso di un infanzia sofferta, di un senso di esclusione maturato in seno alla famiglia paterna, prima, e ai lunghi e solitari anni trascorsi in collegio, poi. Purtroppo nessuno tra coloro che si erano avvicendati nel compito di educarlo aveva posseduto la sensibilità necessaria per squarciare il muro di diffidenza eretto negli anni da quel giovane dall’animo tormentato, ed in lui il rifiuto ricevuto da tutti coloro che avrebbero dovuto amarlo e proteggerlo aveva generato un senso di profonda ribellione: contro il mondo indistintamente, e contro il padre particolarmente.
Ovviamente la forte e autoritaria personalità del genitore, che altri non era se non il duca di Granchester, ovvero uno dei più illustri Pari del regno d’Inghilterra, era la più inadatta a gestire quel figlio che, sebbene amatissimo, rappresentava ai suoi occhi la visibile testimonianza dell’unica debolezza a cui si fosse mai abbandonato nella vita: quella che aveva generato Terence era stata per il duca la sola deviazione in un percorso prima e dopo interamente consacrato all’onore e alla rispettabilità. Suo figlio era infatti il frutto della sua bruciante passione per una donna non contemplabile quale candidata a un posto nella galleria dei ritratti di famiglia dei Granchester. Un’attrice americana, per l’amor del cielo!
Terence conosceva a memoria la versione paterna di quella storia. Conosceva ognuna delle giustificazioni che l’augusto genitore si era dato e gli aveva dato negli anni per averlo strappato all’affetto della madre, e costretto ad un’infanzia e un’adolescenza di anaffettività, prima nella nuova rispettabile famiglia e poi tra le mura dell’austera Royal St. Paul School. Di fronte al bivio tra l’affetto e la disciplina, non vi erano spazi di incertezza agli occhi del duca, il quale, a parte il suo rinnegato errore di gioventù, non aveva mai percorso la prima strada, se non nel chiuso del suo cuore.
Nei rari momenti di generosità nei confronti di colui che lo aveva generato, Terence si sentiva addirittura disposto a comprendere (anche se non a perdonare) la gelida indifferenza con cui il padre aveva educato non solo lui, ma anche i tre fratellastri. Si rendeva conto che tale atteggiamento non era altro che il frutto di secoli di patrimonio genetico tramandatosi di freddo Lord in freddo Lord, fin dai tempi di Guglielmo il Conquistatore.
No, a rendere deprecabile il Duca, ed a farne suonare odioso il nome alle orecchie del suo illegittimo primogenito ma legittimo erede, erano ben altre motivazioni.
In un’estate di molti anni addietro, marchiata a fuoco nella sua anima, Terence si era riconciliato con quella madre che in passato si era impegnato lungamente e invano ad odiare, ed aveva tacitato il ruggito del suo cuore verso colei che erroneamente riteneva l’avesse abbandonato. Riavvicinandosi alla donna che gli aveva dato la vita, aveva così potuto constatare quanto le scelte del duca avessero spento in lei ogni anelito di vita e d’amore, se non quello per il figlio adorato.
E così, proprio nella stagione più felice della sua vita, Terence aveva giurato a se stesso che mai, mai avrebbe amato come aveva fatto suo padre. Mai avrebbe usato onore e senso del dovere quali stampelle a sostegno del vuoto di un’esistenza priva di amore!
E invece… Che fine avevano fatto quella determinazione e quella certezza, nel momento in cui avrebbe dovuto convertirle in fatti, quattro anni prima? Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto affermare la sua diversità dal padre tanto vituperato, Terence Graham era stato vinto da quel Terence Granchester di cui si era sbrigativamente illuso di essersi liberato per sempre, semplicemente lasciandosene il nome alle spalle.
Nei suoi momenti di maggiore rabbia, quando il senso della perdita subita e dei torti ricevuti dal destino lo sommergevano fino a soffocarlo, si concedeva persino di provare pietà per quel padre così diverso e così uguale a lui. E per quel patrimonio genetico contro al quale si era ribellato per tutta la vita, solo per deporre arrendevolmente le armi ai suoi piedi in una notte fatale del passato, in un luogo verso il quale i suoi passi adesso lo stavano conducendo inesorabilmente: Ann Street e l’ospedale St Jacob’s. Il luogo in cui il suo destino si era compiuto due volte: la notte in cui aveva permesso che tutto ciò che dava un senso alla sua esistenza lo abbandonasse, voltandogli le spalle su delle scale gelide quanto il suo cuore da allora; e poi la notte di esattamente un anno prima, l’11 novembre del 1917.
La notte in cui Susanna era morta.


* Romeo e Giulietta, Atto I, Scena I

... CONTINUA...

P.S. A tutte le amiche forumelle che saranno così gentili da lasciare una traccia del loro passaggio e voler commentare questa storia, facendo questo viaggio con me, chiedo la cortesia di farlo in un topic a parte per i commenti; la storia è molto lunga e vorrei rendere fluido lo scorrere dei post, nello stesso tempo godendo del piacere immenso di condividerla e commentarla con voi.
Grazie mille!
:giusy:
CdF


Edited by cerchi di fuoco - 15/6/2013, 22:58
 
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view post Posted on 14/4/2013, 14:27     +9   +1   -1
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New York,
11 novembre 1917


Robert Hathaway si trovava a teatro quella sera, intento a dirigere le prove dell’Amleto che aveva definitivamente sancito il fulgido ritorno alle scene di Terence Graham, la sua rinascita dal baratro dell’alcol nel quale era precipitato due anni prima, sparendo per mesi da New York senza lasciare alcuna traccia. Hathaway, al suo primo impegno da regista proprio con una rappresentazione che, prima di quell’allestimento, era stata assente per diversi anni dal cartellone del teatro Stratford, ascoltava rapito i versi del monologo del principe di Danimarca, modulati in una mescolanza di toni stentorei e vellutati dal suo giovane allievo.
Per vent’anni Robert era stato il primo attore della compagnia Stratford, finché aveva deciso di abbandonare le scene per passare dietro le quinte e cimentarsi nell’arduo ruolo di regista. Quella scelta era stata la consacrazione di una delle più fulgide e brillanti carriere shakespeariane che Broadway ricordasse dai tempi di Edwin Booth, la cui fama quale fratello dell’uomo che aveva sparato al presidente Lincoln ne aveva parzialmente ed ingiustamente oscurato la brillante carriera di eccelso interprete shakespeariano.
Ad Hathaway piaceva anche definirsi un pigmalione: amava prendere azzardi e far crescere sotto la sua ala giovani promesse. Aveva infatti raccolto nella sua compagnia alcuni dei giovani più interessanti dell’ambiente teatrale newyorkese degli anni ’10, tra cui una giovane Susanna Marlowe in boccio; ed era stato sempre lui a scommettere su quel giovane bruno appena diciassettenne che si era presentato alla sua porta nell’inverno del 1913, armato solo del suo sguardo ardente e di un’edizione consunta e sottolineata molte volte del First Folio shakespeariano. Robert era stato il primo a credere nelle potenzialità di quel taciturno ragazzo maniacalmente dedito all’approfondimento dei suoi personaggi, e ad intravedere in lui l’esplosività di un talento senza precedenti che, come una bomba ad orologeria, sarebbe potuto sfociare tanto nella più sfavillante delle carriere di successo quanto nella più cupa autodistruzione.
E infatti il maturo attore non era rimasto sorpreso dall’enorme impressione che il giovane Terence Graham aveva suscitato al suo esordio nel 1914, interpretando nel Re Lear un ruolo minore ma con il quale aveva messo in ombra interpreti ben più centrali ed esperti.
Quando Terence aveva declamato con quella splendida e calda voce dalle mille sfumature, che calavano sui sensi degli spettatori come miele fuso e che il pubblico di Broadway avrebbe presto imparato a riconoscere dalla prima battuta:

“O Dèi, o Dèi, è prodigioso
come la fredda noncuranza di costoro
abbia acceso l’amore in me,
fino all’ardore dell’adorazione.
La tua figlia reietta, o re,
che il caso mi getta tra le braccia,
è regina di me e dei miei sudditi
e della bella Francia.” *



tutti nel teatro avevano trattenuto il respiro, facendosi morbidamente avvolgere dall’onda creata dai versi melodiosamente declamati da Terence. Hathaway, ripresosi dall’incantesimo che l’attore aveva gettato su di lui come su ciascuna delle persone presenti nel teatro, aveva recitato la sua battuta di risposta e capito che stava assistendo alla nascita di una rara stella nel firmamento shakespeariano.
Robert aveva accompagnato la parabola di Terence verso la fama, gli aveva fatto da mentore nei mesi successivi e aveva visto l’acerbo attore trasformarsi settimana dopo settimana in un intenso interprete, ed il giovane taciturno maturare nell’uomo serio e riservato.
Ed era stato proprio da uomo dotato di profondo senso dell’onore che aveva visto il suo pupillo affrontare il dramma dell’incidente e dell’inabilità di Susanna, lanciatasi per spingerlo via da un riflettore che stava precipitando su di lui, salvandogli la vita ma perdendo così una gamba. E da uomo, con le sue tremendamente umane fragilità, lo aveva visto precipitare in un abisso di disperazione che ne aveva compromesso la recitazione e decretato l’esilio dal mondo teatrale, nel 1915. Un mondo che sapeva celebrare solo divi in ascesa e non sopportava di confrontarsi con l’umana imperfezione. Robert, sotto le pressioni dei produttori e dei finanziatori della compagnia, aizzati da una sequela di critiche stroncanti verso quell’ex-enfant prodige adesso frettolosamente congedato quale sopravvalutata meteora nell’universo shakespeariano, aveva dovuto comunicare a Terence la sua sospensione dalla compagnia, guardandolo dritto negli occhi blu, torbidi per i fumi dell’alcol nel quale il giovane stava annegando la sua disperazione.
E come avrebbe potuto dargli torto? Quale giovane della sua età non sarebbe crollato sotto quel peso che il destino gli aveva scaraventato addosso senza alcun riguardo?
Eppure Robert era certo che Terence avrebbe vinto i suoi demoni e ripercorso a ritroso la sua discesa agli inferi passo dopo passo, per tornare a splendere.
Nessuno aveva mai saputo se Terence avesse trovato solo in se stesso la forza di rialzarsi, o se fosse stato sorretto e aiutato da qualcun altro. Forse dalla madre, la grande attrice Eleonor Baker, il cui rapporto con Terence non era più un segreto da quando per lui era arrivata la notorietà. Ma Robert riteneva che un tale influsso, una tale forza, potesse essere giunta solo da un’altra fonte: dalla donna alla quale una volta Terence gli aveva accennato, senza farne il nome, ma che certo non poteva essere Susanna.
No, gli occhi di Terence restavano vuoti quando parlava della fidanzata; non si accendevano di quel fuoco vibrante che invece immediatamente li aveva fatti splendere di mille riflessi blu nel parlargli di quella ragazza, gelosamente custodita tra i ricordi di un passato lontano, che gli aveva dato la spinta e la forza di inseguire i suoi sogni, in quella fase della sua giovinezza in cui sarebbe potuto con pari probabilità diventare tutto, o perdersi nel niente di una sterile ribellione alla vita.
Quale che fosse stata la ragione, dopo lunghi mesi trascorsi nel suo inferno personale, del quale non avrebbe mai parlato con nessuno, Terence era tornato alla vita e Robert non aveva esitato a ridargli fiducia, pur facendolo ripartire da ruoli minori. Non per punirlo della sua defezione, ma per preservarlo dalla prematura pressione di un ruolo da protagonista, timoroso che potesse ricadere tra gli artigli della dipendenza dall’alcol.
Terence aveva accettato la sfida, grato al suo mentore.
Il 1916 era così stato per il giovane un anno di risalita dal punto di vista professionale, fino all’apoteosi dell’Amleto, che continuava a tenere il cartellone a grande richiesta di pubblico e critica ancora a distanza di un anno. In tutti quei mesi, Robert lo aveva visto calcare giorno dopo giorno le assi del teatro Stratford, caricando ogni gesto con tutta la rabbia e la frustrazione accumulata in una vita nella quale non si riconosceva più. Paradossalmente, gli unici frammenti di verità per Terence erano diventati i momenti in cui declamava i versi dei suoi personaggi immaginari, mentre la sua recita si svolgeva fuori dalle pareti del teatro, nella vita reale. Ma al fianco della protagonista femminile sbagliata.
Quel pomeriggio, dunque, Robert stava operando insieme a Terence le poche limature di cui la sua interpretazione necessitasse, guidandolo mentre incedeva con il passo felino e il fascino magnetico di una tigre che si impadroniva del palcoscenico con la pura forza del suo carisma. Della tigre Terence possedeva la naturale e inconsapevole eleganza. E come il regale felino il giovane riusciva ad ipnotizzare chiunque ne incrociasse lo sguardo, che spaziava attraverso le più diverse gradazioni di colore: dal nero della più oscura collera, passando per il blu profondo che esprimeva il suo gelido disprezzo; dal blu-verde della sconfinata tristezza, fino allo splendente blu zaffiro, che però Robert era riuscito a scorgere solo in quell’unica occasione in cui Terence gli aveva parlato di colei che lo aveva salvato da se stesso. L’andatura e la postura erano quelle di chi dominava lo spazio anziché esserne dominato, e non erano né la sua altezza né la corporatura slanciata e tonica a conquistare tutti, ma lo straordinario fascino che emanava dalla sua persona ancor prima che parlasse. Quando però infine lo faceva (sempre con moderazione e centellinando le frasi) la sua voce sembrava colorarsi delle stesse multiformi sfumature dei suoi occhi, raccordandosi a loro in perfetta armonia e lanciando su qualsiasi interlocutore un incantesimo impossibile da sciogliere...
Quella sera, proprio mentre si abbandonava per l’ennesima volta a tale magia, l’attenzione di Robert fu però distolta dal palcoscenico: gli sembrava ci fosse un tafferuglio in fondo alla sala. Ansioso di ristabilire la calma che gli avrebbe consentito di tornare a concentrarsi sugli attori e sulle scene, si alzò dal suo posto al centro della platea e si diresse verso l’origine di tutto quel bailamme.
Si trattava di un ragazzino di circa 12 anni, pulito ma disordinato come se avesse corso per parecchi isolati, che cercava di forzare la resistenza di due inservienti, i quali lo trattenevano a stento dall’irrompere in platea.
- Ragazzino, basta così! Ti abbiamo già detto almeno un milione di volte che non è possibile interrompere le prove!
- Per favore signori, ho un messaggio urgentissimo da riferire… - piagnucolò quasi il ragazzo.
- Riferiscilo a noi.
- Mi è stato raccomandato di parlare solo al signor Terence Graham!
- Cosa succede? – il tono di Robert Hathaway era esasperato, detestava interrompere le prove.
- Signore, vengo dall’ospedale St. Jacob’s. Mi hanno mandato a chiamare il Sig. Graham.
Nell’udire il nome dell’ospedale, Hathaway si mise immediatamente in allarme: quello era l’ospedale nel quale avevano portato Susanna dopo l’incidente di tre anni prima, che aveva cambiato il corso di molte vite oltre a quella della sfortunata attrice.
- Di che si tratta ragazzo? Riferisci a me, sono il regista!
Il ragazzino rimase in dubbio ancora per qualche momento. Ma il tono autorevole ma rassicurante di Robert, unito al sorriso che lo accompagnava, vinse le sue resistenze. La signora che gli aveva dato l’ambasciata per Graham era tanto alterata e sgarbata, che tornare indietro con un fallimento era un’ipotesi da scartare senza pensarci due volte!
- Vengo da parte della signora Marlowe, signore – Hathaway fece un sospiro: proprio come aveva temuto! – La signora desidera che il signor Graham mi segua subito all’ospedale St. Jacob’s. Mi ha detto di riferirvi che la figlia è stata ricoverata lì un’ora fa.
“Desidera” non era il termine esatto, pensò il giovane inserviente che rispondeva al nome di Matt: la signora che lo aveva intercettato in corridoio era in preda ad una vera crisi isterica, ed eseguire le sue indicazioni era sembrato soprattutto un buon modo per liberarsi dalla presa con cui gli aveva artigliato le braccia davanti alla camera della figlia.
Hathaway sgranò gli occhi, addolorato. Non era la prima volta che Susanna aveva delle ricadute. Ma gli sembrava che dall’anno precedente, precisamente da quando era stata baciata dal successo nelle nuove vesti di autrice teatrale, non se ne fossero più verificate.
- Parlo io al sig. Graham, figliolo. Lo avverto subito, non temere. Così potrete, anzi, potremo, correre subito in ospedale.
Matt fece un sonoro sospiro di sollievo e si accinse di buon grado ad aspettare nel foyer.
Hathaway si volse verso il palcoscenico dove Terence, totalmente disconnesso dalla realtà circostante, come ogni volta che calcava le scene sia in prova che di fronte al pubblico, era in quel momento silenziosamente raccolto e concentrato sulla sfida di far sua ogni sfumatura della contrastante personalità del principe di Danimarca. Robert salì sul palco e silenziosamente attese che Terence riaprisse gli occhi.
Si guardarono mentre l’affetto di lunga data faceva correre un messaggio silenzioso tra loro.
- Cosa è accaduto, Robert? – il primo pensiero di Terence andò alla madre. Dio non volesse le fosse successo qualcosa!
E poi, inspiegabilmente ma ineluttabilmente, sebbene la ragione gli suggerisse l’impossibilità che Robert gli recasse notizie di lei, davanti ai suoi occhi e al suo cuore presero forma due luminosi occhi verde acqua.
- Susanna – disse invece Robert.
- Cosa le è successo? – chiese Terence, mentre la luce verde che aveva acceso il suo mondo per quei pochi istanti si spegneva repentinamente come si era accesa, facendo di nuovo piombare tutto ciò che lo circondava nell’opacità delle consuete sfumature di grigio a cui la vita lo aveva condannato negli ultimi anni.
- Non so molto, solo che è ricoverata all’ospedale St. Jacob’s, e che la madre ti ha mandato a chiamare con una certa urgenza.
Questo poteva significare tutto e niente, considerò Terence: col tempo aveva imparato a proprie spese che gli attacchi di panico e le crisi isteriche della signora Marlowe potevano essere causati indistintamente (e con la medesima teatralità) da un suo tacco rotto come dalla notizia di un attacco di sommergibili tedeschi direttamente contro le coste di Manhattan.
- Capisco Robert. Mi reco subito lì – il tono era rassegnato.
- Vengo con te – Robert cercò di trasmettergli la sua vicinanza con lo sguardo e con la mano con la quale gli strinse la spalla.
Aveva imparato a voler bene a quel giovane come ad un figlio, e per Terence era lo stesso. Il significato che attribuiva alla parola “padre” aveva per lui l’immagine del volto di quell’uomo al quale doveva tanto, piuttosto che la maschera inflessibile dai bellissimi lineamenti scolpiti nel granito del duca di Granchester.
I due uomini raccolsero rapidamente soprabiti e cappelli dalla poltrona della prima fila su cui erano adagiati e si avviarono a passo veloce verso l’ingresso del teatro, dove Matt li aspettava impaziente saltellando sugli scalini del teatro.
- Andiamo ragazzo, sono pronto – gli disse Terence, che aveva sul viso un sorriso stanco che però non arrivava agli occhi, mentre Hathaway fermava un taxi.
- Grazie a Dio, Mr. Graham! Il cielo lo sa che cosa mi avrebbe fatto la signora Marlowe se non l’avessi trovata!
A queste parole Matt poté apprezzare un fugace lampo di comprensione su quegli occhi blu così intensi.
- Sì, ragazzo, so perfettamente cosa intendi – gli rispose Terence, prima di spingerlo delicatamente per una spalla e salire dietro di lui sul taxi che si avviò rombando lungo la Broadway, in direzione sud.

Un brivido, che non aveva niente a che vedere con il freddo intenso della giornata invernale, percorse tutto il corpo di Terence quando scese dalla vettura davanti all’ingresso principale del St. Jacob’s Hospital e in un lampo si sentì riportare indietro di tre anni, alla notte in cui aveva chinato il capo al destino e perso tutto. Lo sguardo, senza che gli sembrasse di averlo guidato consapevolmente, si sollevò lentamente verso la terrazza che occupava per intero il tetto dell’edificio. La prospettiva e l’altezza gli impedivano di scorgerla, eccezion fatta per una piccola porzione di ringhiera e per il fumo che si levava dai comignoli sullo sfondo del plumbeo cielo autunnale. Ma gli occhi della sua mente erano lassù, e potevano agevolmente contare uno per uno i milioni di piccoli frammenti del suo cuore sparsi da allora su quel pavimento. Mancava solo la neve perché il dejavù fosse completo, pensò con un brivido prima di distogliere lo sguardo e correre insieme a Matt e a Robert all’interno.
Grazie al cielo il destino, di solito così beffardo nei suoi confronti, si era fatto sfuggire una ghiotta occasione di infierire sulla sua anima provata, poiché la stanza in cui era stata ricoverata Susanna stavolta si trovava in un’ala dell’ospedale differente da quella notte, cosicché Terence riuscì ad allentare in parte la tensione che lo attanagliava al pensiero di salire per quelle scale.
Dopo aver seguito Matt per corridoi e atri, la stanza di Susanna gli venne annunciata da lontano dallo sgradevole suono dei singhiozzi della signora Marlowe.
- No…No…NOOOO!!!!
Terence sospirò e si avvicinò chiedendosi, non per la prima volta, quanto del suo fardello fosse stato aggravato dall’aver consentito a quella donna di ascendere a un posto tanto invadente nella sua vita. Dalla notte fatale in cui si era consegnato a Susanna, si era consegnato anche a sua madre.
Al ritorno di Terence da Rocktown era stato proprio su pressione della signora Marlowe che la figlia gli aveva posto quell’ultimatum: se non voleva decidersi a sposarla, quanto meno avrebbero dovuto andare a vivere insieme. Glielo doveva, in cambio delle pene dell’inferno che aveva passato in quegli ultimi mesi, a causa della sua scomparsa!
Anche se sui giornali Susanna si era mostrata ottimista e serena riguardo al ritorno di Terence, recitando la parte della fidanzata fiduciosa nel suo uomo, dentro di lei il terrore dell’abbandono aveva scavato ferite profonde, che poi gli erano state quasi orgogliosamente esibite, insieme a tutto il desiderio di rivalsa fomentato dalla madre. Guardandolo con occhi parimenti pieni di rabbia e frustrazione gli aveva urlato:
- Non vuoi amarmi, Terence? Non PUOI amarmi? Lo so e l’ho accettato molto tempo fa!
Dio, come faceva Susanna a rivoltare la questione in un modo tanto enorme? Si sentiva veramente la vittima di quel dramma? L’unica vittima? Terence non era mai riuscito a decidere se fosse realmente così, o se si trattasse solo dell’ultima interpretazione di quella dotata attrice, ex-promessa dei palcoscenici di Broadway.
E poi non aveva importanza. Alla fine aveva ceduto. Cosa contava in fondo? Aveva già abdicato alla sua vita, cosa poteva significare rinunciare a quella piccola porzione di inutilizzabile libertà costituita dal suo appartamento?
E così, mentre Susanna si trasferiva da lui, la signora Marlowe aveva chiuso la seconda parte di quella manovra a tenaglia, cominciando a premere per le nozze, dal momento che lui e sua figlia a suo dire “vivevano già nel peccato”.
Ma quello era stato un passo sul quale Terence si era mostrato inflessibile per la prima volta dall’inizio di quell’assurda tragedia. Non che gli importasse qualcosa di pronunciare i voti nuziali, non essendo mai stato particolarmente arso dal fuoco della religione, fin dall’adolescenza; d’altra parte sentiva di aver già assunto l’impegno di restare accanto a Susanna e prendersi cura di lei di fronte al più implacabile giudice della sua condotta, un giudice dagli occhi verdi che mai e per nessun motivo al mondo avrebbe deluso. Il vincolo matrimoniale non avrebbe aggiunto nulla, né tolto nulla, alla sacralità del giuramento fatto su quelle scale…
No, il vero motivo era che, per quanto fosse diventato particolarmente abile nel recitare il copione della sua vita, sapeva che non sarebbe mai riuscito a costringere le sue labbra a pronunciare una promessa d’amore dedicandola a chiunque non fosse la sua dolce ragazza, il suo ricordo di felicità, la sua vera vita contrapposta al patetico canovaccio recitato ogni giorno.
E così erano andati avanti in quella convivenza fredda e artefatta. Lui e Susanna erano due anime che la vicinanza e la coabitazione in uno spazio limitato aveva allontanato, anziché unito; come sempre avviene a coloro che non si sono scelti a vicenda e con pari sentimento. L’unico spazio inviolabile che quella nuova regina della sua casa, oltre che della sua esistenza, non era mai riuscita a conquistare era il suo studio. Il suo rifugio.
- Terence! Sei qui finalmente.. Susanna… Susanna è… – Terence fissò inorridito la Signora Marlowe lanciarsi per gettarsi tra le sue braccia, ma per fortuna Robert fu più rapido ed evitò il peggio, scattando verso di lei per intercettarne il movimento e accompagnarla delicatamente su una delle poltrone del corridoio riservate ai visitatori.
La donna si fece docilmente condurre e, secondo il suo costume, iniziò a piangere e singhiozzare rumorosamente con le mani sul volto, del tutto incapace di governare le proprie emozioni.
Terence la ignorò, voltandosi verso la coppia di dottori che, quando lui e Robert erano arrivati, stavano parlando con la madre di Susanna. Uno dei due gli era noto: aveva una quarantina d’anni e capelli rossi che denotavano una chiara origine irlandese. Si trattava dello psichiatra che aveva in cura Susanna fin dall’incidente alla gamba. L’altro invece sembrava avere in mano le redini della situazione ed emanava una forte autorevolezza. Terence si rivolse a quest’ultimo:
- Buonasera, dottore. Sono il fidanzato di Miss Marlowe. Può dirmi cosa è accaduto?
- Buonasera, Mr. Graham. Sono il dottor Frank, primario di medicina generale – il dottor Frank, un distinto medico di circa 50 anni, dall’aria affidabile e rassicurante, strinse la mano a Terence, provando un istintivo apprezzamento per quell’uomo dai lineamenti aristocratici, così giovane eppure così dignitoso - Mr. Graham, sarò sincero con lei. La situazione è molto seria e il quadro clinico gravemente compromesso.
- Dottore, io non capisco. Susanna stava bene ultimamente. Nelle ultime settimane aveva anche presenziato a delle rappresentazioni delle sue opere… – Terence si interruppe.
Ebbe un breve flash della prima de La principessa sbagliata, la commedia sceneggiata da Susanna che aveva avuto un grande successo nell’ultima stagione teatrale ed alla quale lui, per la prima volta, si era rifiutato categoricamente di accompagnarla, dopo uno dei loro rari veri litigi. Adesso visualizzava Susanna uscire di casa per recarsi al teatro New Amsterdam di Broadway, mentre lui la osservava dalla penombra dello studio, avvolto nella sua nuvola di fumo. Lei indossava abiti estivi… sì, era giugno, quasi sei mesi prima. E da allora lui era stato talmente preso dalle prove e dalle rappresentazioni dell’Amleto, che il tempo era passato senza che quasi se ne accorgesse, tra le prove in teatro e le sue notti solitarie. Cosa era accaduto a Susanna in tutti quei mesi? L’aveva salutata ogni mattina lasciando l’appartamento e le aveva dedicato l’unico casto bacio sulla guancia che si sforzava di darle ogni giorno, rientrando dal teatro e trovandola immancabilmente sorridente allo scrittoio della sua stanza, intenta a leggere o scrivere in una solitudine da cui aveva saputo far scaturire un testo teatrale di successo. Si sforzava di consumare i pasti con lei e l’accompagnava diligentemente alle visite di controllo prescritte. Ma non c’era alcuna reale intimità tra loro, nessuna condivisione. Il tempo trascorreva in una routine di fredda cordialità, nella quale Terence cercava di narcotizzare la sua rabbia fino al momento di chiudersi dentro il suo studio, accingendosi a fronteggiare l’ennesima tormentata veglia.
Quindi con quale cognizione di causa poteva affermare che tutto stesse andando bene negli ultimi tempi? Probabilmente la sua governante, Mrs. Greppi, ne sapeva più di lui, e di certo era stata più attivamente presente nella vita di Susanna di quanto non avesse fatto lui.
- Miss Marlowe ha attraversato un periodo di grave depressione negli ultimi mesi, Mr. Graham. Il mio collega dottor Collins, che come sa l’ha assistita da un punto di vista psichiatrico, potrà spiegarle quali sono state le condizioni che hanno fatto da cornice a quanto accaduto oggi.

* Re Lear, Atto I, Scena I


...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 3/8/2013, 22:10
 
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view post Posted on 17/4/2013, 15:56     +4   +1   -1
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Questa parte del 1° capitolo, per forza di cose, è dedicata alle mie due amiche già pronte con cappellino e trombetta a stappare lo champagne... buona lettura, Sailorina e Candina!

Il giovane medico dai capelli rossi intervenne con voce grave:
- Come ho già avuto modo di esporle in alcune delle occasioni in cui è venuto a trovarmi, Mr. Graham, ci sono cinque stadi nel doloroso processo attraversato da ciascuna vittima di amputazione: rifiuto, contrattazione, rabbia, depressione e accettazione. Di solito queste fasi vengono percorse tutte in un periodo variabile tra alcune settimane e pochi mesi. Nel caso di Miss Marlowe, non solo non è mai stata elaborata l’accettazione, ma dopo aver abbastanza rapidamente superato le prime due, si è bloccata in un limbo tra la terza e la quarta. In un’alternanza che purtroppo, come emerso in maniera piuttosto evidente nelle ultime visite che ho fatto a Miss Marlowe, sembra essere collegata proprio a lei, Mr. Graham, o meglio al modo in cui la sua fidanzata ha interpretato il proprio ruolo nell’interazione tra voi.
Terence sgranò gli occhi. Conosceva la teoria dei cinque stadi dell’accettazione, il dottor Collins gliel’aveva esposta in alcune occasioni; ma era la prima volta che il medico faceva cenno ad un collegamento tra il trauma dell’amputazione di Susanna e il suo comportamento.
Il giovane dottore scambiò un veloce sguardo con il più maturo collega, prima di proseguire:
- Ciò che sto per rivelarle, Mr. Graham, è oggetto del segreto professionale che mi lega alla mia paziente. Questo è il motivo per cui in questi anni, pur avendo cercato di lavorare molto con Miss Marlowe per arrivare alla radice dei suoi problemi di accettazione di se stessa e della propria condizione, non ho mai potuto farle cenno di quanto emerso.
Terence annuì, non sapendo esattamente quale rivelazione aspettarsi, ed il medico proseguì:
- Miss Marlowe ha sviluppato negli anni – e qui Collins lanciò uno sguardo fugace alla signora Marlowe, ancora accasciata sulla poltroncina e in preda a singhiozzi inconsolabili – una forma di mancanza di autostima e dipendenza dal giudizio altrui, parzialmente sfumata e mascherata nel periodo in cui ha cominciato a calcare le scene. Quando l’ha conosciuta e ha cominciato a nutrire dei sentimenti per lei, Mr. Graham, le sue insicurezze sono tornate alla luce con forza.
Terence capì: Susanna stava appena cominciando a liberarsi dal contorto giogo materno di senso di colpa e dipendenza, grazie alla sua appena conquistata autonomia, quando lui era arrivato nella sua vita.
- Lei deve capire, Mr. Graham – riprese il dottor Collins, allontanandosi di qualche passo con Terence e il dottor Frank verso la balaustra, in modo che le loro parole non potessero essere udite dagli altri - che quando Miss Marlowe l’ha conosciuta, i suoi meccanismi emotivi non erano quelli di una donna di vent’anni, ma a malapena quelli di un’adolescente... - il dottor Collins si interruppe cercando i termini più idonei ad esprimere clinicamente i disturbi di cui soffriva Susanna, rendendoli comprensibili a Terence, prima di riprendere:
– La personalità ossessivamente protettiva della madre ha inibito un corretto e sano sviluppo di quella forma di indipendenza di giudizio che Miss Marlowe avrebbe dovuto raggiungere passando dagli anni dell’infanzia a quelli dell’adolescenza. In breve, quando è arrivata la notorietà e l’indipendenza economica, Miss Marlowe semplicemente non era pronta, avendo completamente saltato una fase del suo sviluppo emotivo. Dal punto di vista affettivo, è con una ragazza di tredici o quattordici anni che lei si è trovato a relazionarsi, Mr. Graham.
Lo sguardo di Terence era attento e acceso di una fiamma color cobalto mentre assorbiva avidamente quelle informazioni da parte del dottor Collins. Era come se si stesse aprendo uno squarcio nelle eleganti quinte damascate di un palcoscenico, rivelando il multiforme e spaventoso caos che vi regnava dietro.
- Miss Marlowe ha cominciato a nutrire per lei dei sentimenti nuovi e per i quali non era pronta. Emotivamente immatura come una bambina, li ha gestiti nel peggiore dei modi: replicando l’unica forma di amore che conoscesse, la dipendenza nutrita dal senso di colpa che aveva caratterizzato il suo rapporto con la madre. Il fatto che lei non interpretasse il ruolo che Miss Marlowe le aveva assegnato nel proprio schema mentale ne ha messo a nudo le fragilità, e ha provocato reazioni incontrollate dal punto di vista psicologico.
Si stava a poco a poco sollevando una cortina fumogena e Terence si rese conto che la storia sua e di Susanna, purtroppo drammaticamente marchiata a fuoco nella sua mente in ogni più doloroso e frustrante dettaglio, stava acquisendo adesso dei contorni più netti e dei colori più vividi.
Sotto questa nuova luce, anche la reazione di rifiuto di Susanna di fronte all’evidenza del suo amore per un’altra donna assumeva una chiara connotazione e si spiegava l’azione, profondamente infantile, di nascondergli la lettera che Candy gli aveva spedito ai tempi delle prove di Romeo e Giulietta, salvo poi restituirgliela tra le lacrime. Proprio come una bambina che non fosse riuscita a sopportare il peso delle proprie azioni.
Susanna stava male fin da allora, da sempre.
Terence guardò la donna sulla poltrona a pochi passi da lui, che adesso piangeva calde lacrime di disperazione per la sorte della sua bambina… anzi, della donna che lei aveva congelato in uno stadio infantile a causa del suo modo distorto di darle presunto amore, rendendola insicura e dipendente dagli altri. Sì, quella era stata l’eredità della signora Marlowe alla figlia: un amore malato.
- Anche quando mi ha salvato la vita… - mormorò Terence, cui la voce si spezzò prima che potesse completare l’espressione del suo pensiero.
Il dottor Collins lo guardò con comprensione e annuì. Capiva il processo di rielaborazione del proprio vissuto che Terence stava affrontando. Un processo che avrebbe avuto bisogno di mesi di analisi e che invece, per forza di cose, il ragazzo era costretto ad affrontare nell’arco di pochi minuti.
- Susanna si è lanciata generosamente per salvarle la vita, Mr. Graham, con lo stesso slancio coraggioso e incosciente di un bambino che teme di perdere l’oggetto del suo desiderio – il medico scelse parole volutamente implacabili, era necessario che Terence capisse – ma al risveglio non è stata capace di affrontare da adulta le conseguenze delle sue azioni.
Sì, Terence ricordava perfettamente quei giorni maledetti tra quelle stesse mura dove adesso si trovavano. Ricordava i continui sbalzi emotivi di Susanna e l’egoismo con il quale gli aveva rinfacciato ciò che aveva fatto per lui salvandogli la vita, lasciando fluttuare nell’aria la logica conseguenza: “la tua vita è mia, adesso”. E rammentava anche i suoi blandi slanci di generosità durante i quali, singhiozzando, gli diceva di andare da lei. Non era una reazione alla perdita che aveva subito ed alla paura di restare sola. Era il conflitto tra la Susanna bambina e la Susanna donna, tra la rabbia e la depressione, che si stava combattendo in quei momenti, e che avrebbe condannato tutti loro a indescrivibili sofferenze.
- E questo stesso meccanismo – riprese il dottor Collins, in un virtuale collegamento alle amare riflessioni di Terence, che adesso stentava a soffocare un tremito, come ogni volta che rievocava quella notte – ha continuato a riproporsi negli anni a venire, senza soluzione di continuità, nonostante tutti i miei tentativi di scardinarli. L’unico successo che ero riuscito ad ottenere con lei finora, era stato di convogliare le energie dei suoi periodi di rabbia in un’attività costruttiva come la scrittura… con i risultati che conosciamo.
La voce del dottor Collins si spense con un accento tra il rassegnato e l’orgoglioso.
Susanna aveva scritto due opere teatrali da quando aveva abbandonato le scene e la seconda, La principessa sbagliata, era tuttora rappresentata con ottimo successo di pubblico e di critica a Broadway. Terence singhiozzò per la tristezza: chissà cosa sarebbe potuta diventare quella donna di talento, se la sua distorta visione della vita e dell’amore, e il destino che aveva assunto la forma di un riflettore che era piombato sulle loro vite, non l’avessero destinata a quel ruolo sbagliato in un copione destinato ad altri interpreti.
E lui aveva fallito. Aveva fallito miseramente nel solenne giuramento che aveva fatto quella notte: non solo non era stato capace di essere felice, svuotandosi completamente di ogni scintilla di gioia su quelle dannate scale a pochi passi da lì. Ma non era stato capace neanche di assolvere al secondo compito che il suo giudice e carnefice dagli occhi di smeraldo gli aveva assegnato: quello di rendere felice Susanna. Si era sbrigativamente autoassolto in quegli anni, ritenendo che la semplice presenza al suo fianco sarebbe stata sufficiente ad espletare quella parte del patto. Che la rinuncia alla sua vita, per viverla con Susanna, fosse quanto gli veniva richiesto. Ma no! Solo ora, attraverso lo squarcio creato dalle parole del dottor Collins, la verità lo travolgeva. Che perfetto incastro di sofferenze il fato aveva servito loro nella sua drammatica ineluttabilità! Neanche il suo venerato Bardo avrebbe saputo fare di meglio nel più tragico dei suoi intrecci.
C’era però qualcosa che strideva in tutto ciò che aveva appena appreso: il comportamento che gli aveva descritto il dottor Collins era qualcosa di seriale e ormai cronicizzato, non spiegava la crisi che aveva necessitato il ricovero di Susanna quella notte.
- E’ per questo che Susanna è stata ricoverata stasera, dottor Collins? E’ stata vittima di un attacco depressivo più grave?
- No, Mr. Graham. La depressione non è la causa del ricovero di Miss Marlowe di questa sera – intervenne il dottor Frank, facendo un passo avanti e intervenendo per la prima volta nella dolorosa conversazione – o almeno non direttamente!
Terence si voltò verso di lui in attesa, mentre una gelida premonizione lo invadeva.
- Mr. Graham, Miss Marlowe sta morendo.

Terence si voltò verso il dottor Frank. Si passò una mano tra i capelli, incredulo, e attese che il medico proseguisse.
- Mr. Graham, era a conoscenza del fatto che da alcune settimane Miss Marlowe aveva contratto una forma di infezione all’arto amputato?
Terence sgranò gli occhi e si appoggiò con una mano alla ringhiera. Le rivelazioni sulla donna con la quale aveva vissuto negli ultimi anni lo stavano sopraffacendo.
- Come immaginavo, il che conferma la mia teoria. Infezioni lievi sono piuttosto usuali in soggetti che fanno uso di protesi ortopediche. Riconoscendole per tempo solitamente possono essere debellate con una certa facilità tramite lavaggi depurativi o, nei casi più gravi, con piccoli interventi chirurgici. Il problema è che Miss Marlowe non ha parlato con nessuno dei sintomi che accusava. Febbre, battito cardiaco accelerato, dolore all’arto… deve aver avuto alcuni o tutti questi sintomi, in un quadro clinico e immunitario già compromesso dalle sue condizioni. Ma non ne ha parlato con nessuno: né con il dottor Collins, né con sua madre. Né, devo dedurre, con lei.
Il dottor Frank si interruppe, per dare il tempo a Terence di assimilare questo nuovo colpo. Il medico provava una profonda pena per quel ragazzo che sembrava portare sulle spalle, e mostrare attraverso quegli eccezionali occhi blu, un dolore senza fine.
- Non essendo intervenuti per tempo, la situazione è degenerata. Negli ultimi giorni Miss Marlowe deve aver sofferto molto, dato lo stato in cui si trova. Purtroppo, Mr. Graham, l’infezione è ormai degenerata in una forma grave di setticemia.
“Susanna! Oh Susanna, che cosa hai fatto?”
Il dottor Frank lo mise a parte di come fosse stata Mrs. Greppi a trovarla priva di sensi nella sua stanza quando quella sera si era recata in camera sua per servirle la cena. Era stata lei stessa a chiamare immediatamente la signora Marlowe e l’ambulanza che le aveva condotte fin lì.
Terence cercò di riacquisire la lucidità necessaria per porre la domanda che gli esplodeva dentro:
- Dottor Frank, mi sta dicendo che Susanna ha deciso consapevolmente di non curarsi nell’intento di togliersi la vita?
A Terence sembrava che il mondo gli crollasse addosso. Quanta sofferenza poteva sopportare un uomo in una sola vita?
- No, Mr. Graham – il dottor Collins intervenne con decisione – è proprio questo il motivo per cui le ho fatto quella lunga premessa sul quadro psichiatrico di Miss Marlowe.
Terence si voltò verso il medico irlandese, come un naufrago che cercasse un appiglio in un mare torbido dal quale si sentiva risucchiare.
- Ho motivo di credere, Mr. Graham, che questo atto sia stato l’ultimo gesto compiuto dalla Susanna bambina per attirare la sua attenzione. Io credo che la sua fidanzata aspettasse, deperendo consapevolmente giorno dopo giorno, di attirare la sua attenzione su di sé. Sia pure senza mai chiederlo direttamente, cercava un modo per costringerla ad occuparsi di lei.
E lui non si era accorto di niente. Terence si passò di nuovo le mani tra i capelli. Era stato cieco? Sordo? Eppure ogni giorno l’aveva guardata negli occhi, chiedendole come stava, ricevendone in cambio un pallido sorriso e un cenno d’assenso.
“Quale perverso meccanismo si era attivato nella tua mente, Susanna? Mi hai ingannato, hai ingannato te stessa… Ti sei resa conto dell’enormità di quello che stavi facendo?”
- Cosa… cosa dobbiamo aspettarci adesso, dottore?
- Molto poco, purtroppo, figliolo. Solo che la sepsi termini la sua opera. E non ci vorrà molto. Temo poche ore.
La compassione negli occhi del dottor Frank trovò voce in quell’appellativo, “figliolo”, con il quale si rivolse a lui per la prima volta.
- Non si torturi. Il dottor Collins stesso, che non esito a definire come il più qualificato ed esperto psichiatra di New York, non è stato in grado di cogliere i sintomi di quanto Miss Marlowe stava mettendo in atto in queste settimane. Lei non poteva far nulla. Nella sua visione purtroppo distorta della realtà, la sua fidanzata ha armato inconsapevolmente contro di sé un’arma ad orologeria di cui nessuno avrebbe potuto bloccare il meccanismo se non lei stessa, che però ne ha sottovalutato la portata.
Terence lo fissò con gratitudine, cercando in qualche modo di tenersi a galla nel mare di sensazioni che rischiavano di travolgerlo, e che tuttavia non ne scalfivano l’immagine di dignità con la quale stava affrontando quelle drammatiche rivelazioni.
- Posso vederla, dottore?
Cosa le avrebbe detto? E soprattutto, sarebbe riuscito a controllare la rabbia che a poco a poco si stava facendo strada attraverso la tristezza che lo attanagliava, al pensiero di tutto il male che Susanna aveva fatto agli altri ed a se stessa?
- Certo, anzi… credo sia opportuno non perdere altro tempo. Non so ancora per quanto tempo Miss Marlowe sarà cosciente: siamo riusciti a farla rinvenire, ma…
Terence trasse un profondo respiro, che lo aiutò a stabilizzare le sue emozioni, e si avviò verso la stanza di Susanna. Passò davanti alla signora Marlowe ed a Robert. A quest’ultimo lanciò uno sguardo talmente traboccante di rassegnazione e tristezza che l’uomo sussultò sulla sedia, come se fosse stato colpito fisicamente dal dolore di quel ragazzo che amava tanto.
Lo sguardo che corse tra il giovane e la Signora Marlowe conteneva invece tutto il non detto di quegli anni: il disprezzo per ciò che lei aveva fatto della figlia che sosteneva di amare; la rabbia perché aveva fatto leva sui suoi sensi di colpa in un momento in cui lui non aveva la lucidità necessaria per opporsi ai suoi meschini attacchi; persino la pena per il peso che quella donna avrebbe dovuto portare per il resto dei suoi giorni. Negli occhi di lei non c’erano suppliche, né comprensione, né accuse. Solo paura. Una piccola donna di fronte a qualcosa di troppo grande per lei. Sapeva. Se non avesse saputo che il peso di quanto era accaduto ricadeva in gran parte sulle sue scelte malate, si sarebbe scagliata contro di lui con tutta la forza di una madre. Ma lei sapeva, e Terence si domandò fugacemente come avrebbe fatto quella donna a convivere per il resto della sua vita con il rimorso per ciò che aveva fatto.
La superò senza dire una parola, arrivò alla porta della camera di Susanna, abbassò la maniglia ed entrò.

La camera era avvolta nella penombra. Era ormai notte fonda e l’unica fonte di luce era un lume a gas posato sull’unico tavolo che, insieme a una semplice cassettiera, alla sedia posizionata accanto al letto e ad un piccolo armadio sulla parete di fronte, costituiva l’arredamento della stanza. Tutto era di un candore eccessivo, reso inquietante dalla luce soffusa: il legno del tavolo e della sedia, le tende alla finestra e la biancheria del letto su cui giaceva Susanna, il cui volto e le labbra avevano lo stesso colore del cuscino su cui era adagiata. Sulla coperta le braccia sottili erano stese lungo il corpo. I capelli erano raccolti in due lunghe code che le scendevano sulle spalle e aveva sulla fronte una pezzuola bagnata. Gli occhi erano chiusi e, dal magma di emozioni in movimento che ribolliva dentro di lui da quando aveva parlato con i due medici, a Terence sembrò di sentire emergere una profonda tristezza e compassione.
Davanti a lui c’era la donna che gli aveva distrutto la vita e ogni speranza di felicità a causa del proprio egoismo e della propria distorta e autoreferenziale idea dell’amore. Ma c’era anche la donna che gli aveva salvato la vita. C’era la donna che lo aveva legato a sé con la forza del senso di colpa e facendo leva sulla sua ancestrale e atavica idea dell’onore. E tuttavia, non era forse giusto riconoscere che Susanna aveva egoisticamente approfittato di scelte che in ultima analisi erano state fatte da lui? Chi era, alla resa dei conti, il colpevole principale di quelle sofferenze? Negli ultimi tre anni Terence aveva altalenato attraverso tutte le sfumature di quel conflitto interiore, ed ora sentiva solo una grande stanchezza.
Susanna aprì gli occhi e lui si sforzò di rivolgerle un sorriso triste. Da quanto tempo non le sorrideva? No, la domanda era: le aveva mai sorriso?
- Terence…
- Susanna, non parlare, riposati – Terence si sedette accanto al suo letto e le prese la mano.
- Terence, sei venuto…
La sorpresa e la gioia che anche in quel momento trapelavano dalla voce flebile e stanca della ragazza strinsero il cuore di Terence. Che enorme ingiustizia e che spreco d’amore…
Amore?
- Certo che sono venuto. Susanna… avresti dovuto… avresti dovuto parlarmene. Avresti dovuto chiedere aiuto – Terence si lasciò sfuggire quelle parole e immediatamente se ne pentì.
Che senso aveva adesso rinfacciarle le scelte che la stavano uccidendo in quel momento sotto i suoi occhi? O metterla di fronte all’enormità di ciò che aveva fatto? Probabilmente lei non aveva neanche gli strumenti per affrontarlo, figurarsi per elaborarlo, soprattutto al punto in cui erano arrivati. E quindi immediatamente le chiese:
- Susanna, senti dolore?
- No, Terence, non più. Ho sofferto tanto, ma ora non più – e Terence non fu certo che lei si riferisse al dolore fisico dell’infezione che la stava divorando dall’interno, o ad altro.
- Terence… io sto morendo, non è vero?
Terence sgranò gli occhi. Poteva mentirle? Doveva mentirle?
La guardò con i suoi profondi occhi blu, le iridi di lei erano già velate.
- Susanna, andrà tutto bene – fu tutto ciò che riuscì a sussurrarle.
- Terence io… non voglio morire… aiutami….
Terence le strinse la mano più forte.
Ecco chi era la donna che aveva di fronte: Susanna che si lanciava sotto un riflettore per salvare la vita all’uomo che desiderava con tutta se stessa per poi non esitare a distruggerne la felicità, esigendone giorno dopo giorno il sacrificio. Susanna che si palesava al mondo fiduciosa e serena nei mesi del crollo emotivo del suo uomo, mentre progettava di chiederne in cambio un prezzo. Susanna autrice teatrale e Susanna che non aveva mai più voluto mostrarsi in pubblico senza Terence al suo fianco. Susanna donna depressa e bambina arrabbiata. Susanna che accoglieva ogni giorno sorridente il suo uomo indifferente e nel frattempo pianificava la propria morte, aspettando che lui la salvasse. Susanna che di fronte alle conseguenze delle sue azioni chiedeva aiuto troppo tardi per porvi rimedio. Susanna vittima. Susanna carnefice.
Susanna che adesso stava morendo.
- Susanna, sono qui con te. Cerca di stare tranquilla.
Era incredibile come i suoi occhi si stessero spegnendo minuto dopo minuto. Terence si sentiva inerme.
- Terence, non ti ho mai chiesto nulla…
Oh mio Dio! Susanna!
Possibile che la sua non accettazione della realtà arrivasse fino a quel punto? Davvero non si rendeva conto di cosa aveva causato? Terence dovette sforzarsi di tenere a mente le parole del dottor Collins per non farsi sopraffare di nuovo dalla rabbia, sia pure in quel momento doloroso.
- Ti prego… - continuò lei – ti prego, rispetta la mia memoria!
Terence la fissò. Cosa stava cercando di chiedergli? Possibile… possibile che fosse il suo contorto modo, persino in quel momento supremo, per tenerlo lontano da lei?
- Lo farò, Susanna.
Non sapeva neanche lui che impegno stava assumendosi in quel momento. Ci avrebbe riflettuto in seguito. Adesso contava accompagnare il più serenamente possibile Susanna verso ciò che l’attendeva, e cercare di trovare un modo per convivere di lì in avanti con il senso di colpa per non essersi reso conto di ciò che lei stava attuando ai danni di se stessa.
Susanna sorrise e chiuse gli occhi.
- Ti amo, Terence. Ti ho sempre amato.
- Lo so, Susanna. Adesso cerca di riposare, io sto qui vicino a te.
Chissà se l’ultimo pensiero di quella tragica figura prima di abbandonarsi al sonno fu la consapevolezza di non aver mai udito Terence rivolgerle le tanto sospirate parole: “ti amo”. Del resto, dopo la dichiarazione che lei stessa gli aveva fatto sul palcoscenico del teatro Stratford prima dell’incidente, prima del resto della loro vita, neanche lei aveva più trovato il coraggio di ripeterle, quelle cruciali parole. Da qualche parte, in qualche remoto meandro della sua mente doveva rendersi conto di cosa aveva provocato. Ma semplicemente la sua parte bambina aveva scelto di ignorarlo.
Terence rimase vicino a lei ancora per un po’ e quando fu certo che non si sarebbe risvegliata uscì delicatamente dalla stanza, cedendo il suo posto alla signora Marlowe.
Susanna morì tre ore dopo, senza più riprendere conoscenza.
Susanna, l’ultima vittima del suo amore malato.


La nera sorte di questo giorno
peserà su molti giorni ancora;
questo non è che il principio delle sventure.
Altre le porteranno a termine. *


* Romeo e Giulietta, Atto III, Scena I


...CONTINUA...
 
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New York,
11 novembre 1918


In piedi di fronte all’ospedale St. Jacob’s Terence rabbrividì, con la netta sensazione di risvegliarsi dalle tenebre di un brutto sogno terminando di rivivere quella notte angosciante di un anno prima. Aveva smesso di nevicare e alle sue spalle si intuiva, più che scorgersi, l’approssimarsi del primo chiarore che avrebbe illuminato l’alba di lì a poco. Alzò lo sguardo ancora una volta verso la facciata di quell’edificio che era stato il palcoscenico delle scene più determinanti della sua vita.
Dopo la morte di Susanna aveva troncato di netto ogni rapporto con la signora Marlowe che, grazie ai proventi dei diritti d’autore delle opere della figlia, avrebbe avuto di che vivere più che soddisfacentemente per il resto della sua vita. Terence non dovette insistere o fare alcuno sforzo per tenerla alla larga, sembrava del tutto evidente che la signora Marlowe era desiderosa probabilmente ancor meno di lui di rivederlo. E lui non avrebbe saputo dire se ciò avvenisse per astio nei confronti dell’uomo che a suo dire aveva rovinato la breve vita della figlia, o se in qualche angolo del suo cuore lei nutrisse una qualche forma di imbarazzo per le pressioni psicologiche a cui aveva sottoposto un ragazzo di soli diciassette anni, contribuendo a rovinargli l’esistenza.
A Terence non importava.
Ricordò che l’ultima occasione in cui l’aveva incrociata era stato alle esequie di Susanna, alle quali era intervenuto doverosamente e dignitosamente nel ruolo di fidanzato; dopodiché era tornato a casa, e nel chiuso del suo studio si era interrogato su cosa fare della sua vita e della libertà ritrovata, sia pure in frangenti così drammatici.
Il suo cuore, la sua anima, tutto il suo essere lo spingevano in quei giorni come una forza primordiale a cercare Candy per porre fine a quegli anni di deserto emotivo in cui si era abbeverato solo al suo ricordo. Il bisogno di vederla e di toccarla di nuovo gli provocava un dolore quasi fisico. Per lui il tempo si era fermato nel momento in cui aveva sciolto l’abbraccio con cui la teneva legata a sé, facendo violenza alla sua volontà per dirle: “Sii felice, Candy! Perché altrimenti non potrò mai perdonarti”. Solo dopo, alla vista della sua schiena che si allontanava sotto la neve senza che lei si voltasse mai indietro, quando il dolore lo aveva colpito con tutta la sua forza dirompente, aveva compreso l’assurda follia di quelle parole.
Quando la tensione del terribile dramma in scena tra le stanze di quell’ospedale si era attenuata, il senso di colpa per averla lasciata andare via senza provare a fermarla lo aveva devastato. Sapeva che la decisione era stata presa da lei, che il giudice che per generosità aveva emesso una sentenza di infelicità per entrambi era proprio la persona che più amava al mondo. Ma non poteva negare a se stesso che nell’istante in cui le era sfilato davanti su quella terrazza spazzata dalla neve, tenendo tra le braccia Susanna e senza osare incrociare il suo sguardo né dirle una parola, non le aveva lasciato altra scelta.
C’era Terence Granchester su quella terrazza, mentre Terence Graham aveva provato a ribellarsi su quelle scale, trattenendola a sé, ma troppo tardi…
Eppure, ricordò Terence voltando le spalle all’ospedale e riavviandosi di nuovo in direzione nord per percorrere a ritroso la Broadway, dopo la morte di Susanna non aveva osato contattarla subito. Aveva promesso a quella sfortunata creatura sul suo letto di morte di rispettare la sua memoria e, in omaggio in primo luogo alla donna che amava e che aveva rinunciato a lui perché si prendesse cura di quella che riteneva la più fragile tra loro, aveva deciso di rispettare un lutto di un anno. Il suo giudice dagli occhi verdi, l’unico di cui temesse la condanna, non avrebbe accettato niente di diverso da lui. Essere all’altezza delle alte aspettative che inspiegabilmente quella ragazza lentigginosa aveva riposto in lui, quando invece tutto il mondo vedeva in quel rampollo ribelle solo una causa persa, era stata fin dall’inizio la leva che gli aveva fatto cambiare in meglio la sua vita e raggiungere i pochi traguardi che aveva toccato con le sue forze… solo per essere degno del suo alto giudizio e del suo amore.
E poi c’era quel maledetto senso di colpa, con cui non sarebbe mai riuscito a fare i conti, per averla messa con le spalle al muro e costretta a decidere lei per tutti.
Infine, sentiva di avere bisogno di quel tempo per raccogliere le idee: in fondo non sapeva nulla della vita di Candy dopo quella notte in cui si erano detti addio. La sua dolce rosa lentigginosa gli aveva promesso che avrebbe cercato di essere felice, augurandogli lo stesso. E se, prima ancora che lei voltasse l’angolo di Park Row sparendo alla sua vista, lui aveva capito che gli sarebbe stato impossibile anche solo un surrogato di felicità senza di lei, forse Candy era andata avanti con la forza che l’aveva sempre guidata e che lui amava tanto.
Terence rabbrividì nel pesante cappotto, incedendo per le vie lungo le quali cominciava a scorgere le prime luci illuminare qualche finestra e ad incrociare qualche frettoloso lavoratore del mattino lungo il marciapiedi.
Sì, l’idea di Candy insieme a un altro uomo lo faceva impazzire, e non aveva mai avuto il coraggio di cercare di scoprire qualcosa di più su ciò che le era accaduto fino a quel momento. Ma quel giorno era il giorno fatidico. Era trascorso l’anno che si era imposto ed era giunto il momento di riprendere in mano la sua vita. L’avrebbe cercata. Non aveva idea di dove si trovasse, ma conosceva due donne nell’Indiana che, ovunque fosse Candy e con chiunque stesse, di certo non lo ignoravano. Sarebbe partito da lì. Un lampo della fiamma ardente dei giorni della St. Paul School si accese negli occhi di zaffiro. Sì, l’avrebbe cercata: non avrebbe più avuto neanche un solo minuto di pace finché non lo avesse fatto!
- nita…guerra!
Un grido lontano, che riuscì a cogliere solo parzialmente, interruppe le sue riflessioni.
Si voltò nella direzione da cui proveniva la voce, insieme ai pochi altri avventori del mattino o reduci dalla notte con lui sul marciapiede, e scorse uno strillone correre verso di loro al centro della strada, sventolando il suo fascio di giornali. Non era un po’ presto per l’edizione del mattino?
- LA GUERRA E’ FINITA!!!!! LA GUERRA E’ FINITA!!!!
Terence e gli altri si guardarono l’un l’altro, interdetti.
La guerra era finita? Il conflitto in cui l’America era entrata un anno e mezzo prima ma che insanguinava l’Europa dal 1914 era davvero finito? C’erano stati dei segnali negli ultimi tempi, ma quello era davvero il giorno tanto atteso?
Terence si affrettò a fermare il ragazzo e ad acquistare una copia del New York Times. Immediatamente intorno a lui si formò un capannello di persone trepidanti in un silenzio carico di aspettativa, mentre le pagine del quotidiano venivano dispiegate per leggere la notizia che aspettavano da mesi.

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All’improvviso il gruppo di uomini e donne che si era radunato attorno a Terence esplose in urla di felicità e tutti presero ad abbracciarsi, stringersi la mano e baciarsi come se fossero amici da sempre, uniti dalla condivisione della stessa gioia. Non c’era un solo americano che non avesse un parente o un amico in guerra e troppi erano quelli che avevano perso dei congiunti. Persino Terence, sempre così riservato e misurato, si fece rapire dall’ondata di entusiasmo generale e si avviò con tutti gli altri, spinti da un’inespressa volontà collettiva, verso nord, verso Times Square, centro pulsante della città e luogo di tutte le celebrazioni di massa che New York avesse conosciuto nella sua breve storia. Il lavoro, i pensieri, la quotidianità erano totalmente svanite ed esisteva solo quel fatto: la guerra era finita!
A mano a mano che proseguivano verso la piazza, nuove ondate di gente urlante di entusiasmo si univano a loro, uscendo dalle case e riversandosi per la strada, moltiplicando grida, danze, baci ed esultanza collettiva, per poi confluire in quell’enorme crocevia che i newyorkesi avevano deciso dovesse essere chiamata piazza. Era ormai un’ondata inarrestabile quella che rapì Terence, mentre l’alba rischiarava finalmente la città, e al giovane sembrò che quel nuovo giorno segnasse la fine di tutti i conflitti della sua vita e che la luce rosata che si faceva strada tra gli alti edifici illuminasse a poco a poco anche la sua anima, strappandola alle tenebre.
Si permise di volgere la bocca e gli occhi a quel sorriso che vi mancava ormai da troppo tempo, mentre alle sue labbra salirono spontaneamente le parole del Bardo:

“Amore non teme ostacoli di pietra,
amore quando a una cosa intende
è ardimentoso e pronto.”
*




Era già quasi ora di pranzo quando Terence rientrò nel suo appartamento, ancora stordito dalla notte di rievocazione che aveva trascorso e dai festeggiamenti a cui si era abbandonato per alcune ore. La città era in delirio, esattamente come tutta l’America e tutto il mondo nello stesso momento. Era palpabile una nuova ondata di speranza e Terence se ne era lasciato rigenerare.
Entrando in casa fu accolto da Mrs. Greppi, la fedele governante che si era occupata di lui negli ultimi anni, assistendo Susanna e prendendosi cura della casa anche dopo la sua morte. Era una dolce e materna vedova di origini italiane, con cinque figli ormai adulti che erano il suo orgoglio, soprattutto il maggiore, Francis (Francesco, per la madre) il quale era stato il primo componente della famiglia Greppi a laurearsi, pagandosi gli studi con il salario di un duro lavoro notturno, e che adesso lavorava in uno dei più importanti studi legali di New York. Il figlio di mezzo, John (Giovanni) era stato ferito gravemente in guerra, e si trovava ancora ricoverato in un ospedale militare francese. Era fuori pericolo, ma stava affrontando la dura riabilitazione necessaria per cercare di salvargli la vista, seriamente compromessa dal contatto con il gas iprite nelle trincee alleate. Mrs. Greppi non mancava mai di ricordare quanto Terence gli somigliasse come una goccia d’acqua (il che a modesto parere dell’attore, che aveva avuto modo di vedere la foto del pingue ragazzo esibita orgogliosamente dalla madre, era più che discutibile. Tuttavia aveva accettato di buon grado quell’affermazione per non ferire Mrs. Greppi) e tale presunta similitudine forse spiegava il motivo per cui negli anni la donna si fosse affezionata tanto a lui e perché lo accudisse con attenzioni, e manicaretti, da vera Italian mommy, sebbene la sua esuberanza latina causasse all’algido figlio del duca inglese un imbarazzo almeno pari alla delizia delle sue pietanze.
Entrando in casa, Terence le porse la prima pagina del New York Times che aveva portato con sé e le disse:
- Ha sentito le buone notizie, Mrs. Greppi? La guerra è finita!
- Sì, Mr. Graham, sia ringraziato San Gennaro, la Vergine Maria e tutti i Santi!
Terence si era spesso chiesto se vi fosse un nesso nella scelta di Mrs. Greppi di votarsi a questo o quel Santo a seconda delle circostanze, e per quale motivo l’ordine nel quale venivano citati fosse sempre diverso. Si ripromise di chiederlo alla donna, prima o poi.
- C’è una visita per lei, Mr. Graham. Sua madre la sta attendendo da un paio d’ore nel salotto. Le ho servito focaccine e una fetta di torta, ma credo non abbia assaggiato nulla.
Sua madre? Che visita inaspettata a quell’ora. Terence si chiese se per caso non fosse accaduto qualcosa.
- Grazie Mrs. Greppi, mangeremo più tardi – rispose.
- Ed è arrivata anche una lettera per lei – aggiunse paciosa la governante, porgendogli una busta che il ragazzo prese sovrappensiero, senza neanche guardarla e già diretto verso il salotto.
Eleonor Baker era seduta sul divano con un libro in grembo ma lo sguardo rivolto alla grande finestra alla sua destra, cosicché entrando Terence poté ammirarne l’aristocratico profilo, di una bellezza che il tempo non sarebbe mai riuscito a scalfire. Infatti, quella donna meravigliosa era dotata di quel fascino naturale che avrebbe resistito agli anni, al contrario di molte bellezze più superficiali e artefatte dal trucco di scena, che Terence aveva visto sfiorire miseramente nell’arco di poche stagioni. La madre invece a quarant’anni era ancora una regina dei palcoscenici di Broadway e una delle donne più belle che Terence avesse mai conosciuto.
Eleonor sentì i suoi passi e si voltò verso di lui, guardandolo con quei suoi occhi blu dei quali quelli del figlio erano una copia esatta, e aprendo il volto a un sorriso.
- Mamma, tutto bene? – chiese Terence con sollecitudine, avvicinandosi a lei e chinandosi per abbracciarla.
Nei lunghi anni della vita insieme a Susanna sua madre era stata, insieme a Robert Hathaway, l’unico appoggio che gli aveva impedito di sprofondare del tutto nel baratro della solitudine e dell’autodistruzione. Gli era stata accanto con discrezione ma con un affetto infinito fin dal ritorno da Rocktown, senza peraltro mai confessargli di essere stata la sua ombra in quella triste discesa agli inferi, senza pace finché non lo aveva visto risorgere dalle sue ceneri come l’araba fenice.
Ovviamente non gli aveva neanche mai rivelato di non essere stata il suo unico angelo custode in quello scalcinato teatro in cui si era consumato il suo dramma più cupo, e che una fata dagli occhi verdi, quella che lui aveva sempre ritenuto essere una visione della sua coscienza risvegliata dall’amore, era davvero lì con lui a trasmettergli tutta la propria forza attraverso la pura forza dei sentimenti che li legavano.
Eleonor aveva assistito a quel miracolo, dopo aver già beneficiato del primo che Candy aveva realizzato tanti anni prima in Scozia, quando aveva richiamato Terence a quell’amore materno fino a quel momento soffocato dalla rabbia, dal rancore e dal senso di abbandono. A Rocktown la donna si era ancor più convinta del sacro legame che univa i due giovani, nonostante il destino, o forse le loro scelte avventate e incautamente generose, li tenessero separati e quindi condannati all’infelicità.
Pur avendo promesso solennemente a Terence di non violare in alcun modo le sue scelte riguardo a Susanna, quella madre amorevole non era stata capace di osservare il sacrificio di infelicità e solitudine che il figlio rinnovava giorno dopo giorno per una donna che non ne meritava il dolore. Da donna, e da donna sensibile ai tormenti del cuore, Eleonor aveva percepito più e meglio di chiunque altro il disagio emotivo e comportamentale di Susanna. Ma da madre non riusciva a perdonare le sofferenze inflitte al figlio da quella ragazza che continuava a tenerlo avvinto a sé con i sentimenti più sbagliati: la compassione, la pietà e il senso di colpa. Eleonor era stata una delle poche persone abbastanza lucide da capire che quello che la giovane Marlowe nutriva per suo figlio era bisogno puro, misto ad un infantile egoismo. E questo non faceva che rendere ai suoi occhi ancora più ingiusto ed errato il sacrificio che Terence e Candy avevano compiuto per lei. Riteneva che fosse doveroso mettere a parte Candy di come stessero le cose. Era certa che se la giovane avesse saputo che la motivazione principale per cui aveva rinunciato a Terence, e cioè la sua felicità, era ben lungi dall’essersi realizzata, avrebbe rivalutato la sua posizione e forse ci sarebbe stata una nuova speranza per quelle due anime infelici.
A differenza di Terence, la donna si era informata su di lei e sapeva che circa un anno dopo la loro separazione a Rocktown, Candy era tornata alla casa di Pony e non aveva ancora contratto nuovi legami sentimentali.
Per quella ragione, ormai incapace di sopportare oltre la sempre più evidente agonia del figlio, ma nello stesso tempo non riuscendo a decidersi a rompere il giuramento di riservatezza fattogli, si era decisa per un’azione di compromesso e aveva mandato a Candy un biglietto per la prima di quell’Amleto che aveva segnato la rinascita teatrale della stella del figlio. Sperava che, incontrandosi, i due giovani avrebbero saputo ascoltare il proprio cuore e porre fine agli errori del passato.
Purtroppo, sebbene fosse stata Candy a premere sull’immaginario acceleratore di quel dramma con la sua decisione, il tempo e il dolore della separazione dovevano aver lasciato anche in lei ferite e cicatrici altrettanto difficili da esibire di quelle di Terence, perché la ragazza le aveva risposto con una lettera che ancora le faceva male rileggere:

Gentile Signora Eleonor Baker
La ringrazio davvero tanto per la sua lettera e per il biglietto d’invito.
Mi sono chiesta per quanto tempo sarei rimasta assorta a contemplare quel biglietto per il teatro.
Ho saputo dai giornali dell’Amleto di Terence. Sebbene io tenti di evitare le notizie che lo riguardano non ho potuto non sapere. Sento come se fosse passato un periodo lunghissimo dal nostro incontro in quel paese di montagna. Terence è completamente uscito da quel periodo disastroso ed io non potrei esserne più felice.
So già in anticipo che lo spettacolo avrà un successo immenso, credo che Terence sarà meraviglioso nei panni di Amleto. Se chiudo gli occhi riesco a vederlo.
Le sono molto grata per il suo pensiero. Mi dice che la data stabilita manderebbe gentilmente un’auto a prendermi. Ma io non posso esserci. Vorrei tanto vedere uno spettacolo con Terence. Eppure non voglio vederlo. Se vedessi lo spettacolo, poi vorrei incontrarlo. Finalmente potrei vederlo e parlargli, non come quella volta nel teatro di strada in quel paese sperduto. Ma ho deciso di rinunciare. I miei ricordi di New York sono ancora troppo dolorosi. Non posso sorridere e dire che sono mutati. Un giorno… un giorno il tempo li guarirà.
Mi dispiace signora Baker. Mi perdoni se le restituisco il biglietto così rudemente.
Candice W. Andrew.
**

Se anche Eleonor non avesse fatto ricerche per conto suo, quella frase “I miei ricordi di New York sono ancora troppo dolorosi. Non posso sorridere e dire che sono mutati”, sarebbe bastata a rivelare in maniera più che evidente la natura profonda e ancora pulsante dei sentimenti che Candy nutriva per suo figlio, e che lei d’altra parte aveva potuto leggerle in volto chiaramente anni prima a Rocktown, misti all’angoscia e alla preoccupazione per Terence.
Naturalmente aveva rispettato la volontà di quella coraggiosa e forte ragazza, e da allora non aveva più fatto nulla per forzare un riavvicinamento tra i due, senza peraltro mai confessare a Terence del biglietto dell’Amleto e della risposta di Candy.
Dopo la morte di Susanna, aveva sperato che suo figlio riprendesse finalmente in mano la sua vita e si decidesse a rimettersi in contatto con Candy, ma aveva accettato le sue stringate spiegazioni circa il periodo di lutto che intendeva rispettare, sebbene nel fondo del suo cuore ritenesse che troppo tempo e troppe occasioni di felicità in quella storia fossero state già sprecate… e nessuno conosceva meglio di lei il valore del dono prezioso dell’amore e di come la sua dolorosa assenza fosse in realtà una invadente presenza per chi aveva amato e perduto. Dopo Richard Granchester, nonostante le strade di New York, e non solo, fossero lastricate delle dichiarazioni d’amore ricevute da parte di uomini tra i più degni, lei non era più riuscita a riaprire il suo cuore a quel sentimento che l’aveva tanto ferita, dedicandosi solo al figlio ed alla carriera.
- Io sto bene, caro – rispose la donna all’abbraccio ed alla domanda piena di sollecitudine del suo amato ragazzo.
- Hai sentito della fine della guerra? E’ per questo che sei venuta qui ad un orario così insolito?
- Per rispondere alle tue domande, caro, sì e no. Sì, ho sentito della fine della guerra e venendo qui mi sono fermata ad accendere un cero di ringraziamento nella cattedrale di St Patrick. E no, non è questo il motivo per cui sono qui stamattina.
Terence la fissò interrogativamente.
- Ho ricevuto questa, ieri sera.
Eleonor gli porse una busta bianca che si trovava tra le pagine del libro che aveva in grembo.
Terence lanciò uno sguardo alla lettera e vide il timbro di provenienza: Los Angeles.
- E’ il contratto con la First National Productions che aspettavo, Terry! Tutto è definito per il mio ruolo di protagonista femminile nel prossimo film di Mr. Chaplin. Alla fine, la mia interpretazione di Lady Macbeth lo ha letteralmente stregato!
Terence posò la busta consegnatagli da Mrs. Greppi sul tavolino accanto al divano e si avvicinò sorridendo per abbracciare la madre.
Due mesi prima Eleonor aveva ricevuto una cortese lettera da parte di Charles Chaplin, stella emergente del nuovo e travolgente show business cinematografico a Los Angeles. Chaplin, in trasferta a New York per promuovere il suo ultimo film, A dog’s Life, era rimasto incantato nell’ammirare Eleanor interpretare a Broadway il mefistofelico personaggio shakespeariano e, chissà come, aveva avuto la visione che quella meravigliosa attrice drammatica potesse avere un pari, se non superiore, talento per la commedia cinematografica.
E non si era sbagliato: Eleonor, allora all’apice della carriera teatrale, completamente rapita dalla straripante personalità del divo, in grado di ipnotizzare chiunque e soprattutto le donne, aveva subito accettato di raggiungerlo a Los Angeles, più per concludere gli accordi con un praticamente innamorato Chaplin che per effettuare il provino.
Adesso tutto era definito e il contratto era giunto per posta, insieme ad una lettera personale del divo, con la quale egli ribadiva tutto il suo entusiasmo all’idea di lavorare con lei.
- Sono così felice per te, mamma! La seconda ottima notizia della giornata. Dobbiamo festeggiare due volte, allora.
- Sono certa che il ragù di Mrs. Greppi ci darà modo di festeggiare adeguatamente, figliolo!
Madre e figlio sorrisero, lieti di quella finestra di serenità semplice e familiare. Terence era straordinariamente soddisfatto di vedere la madre così felice e realizzata sul piano professionale, se non su quello personale e sentimentale.
Sedettero sul divano e chiacchierarono dei progetti futuri di Eleonor. La produzione sarebbe partita nel giugno successivo, Chaplin aveva acconsentito ad attendere la fine della stagione teatrale per cominciare le riprese, pur di avere al suo fianco la Baker, ancora sotto contratto con la sua compagnia a Broadway.
Dopo un po’, il ragazzo si ricordò della busta che aveva posato sul tavolino di fianco e, senza interrompere la conversazione, allungò la mano per prenderla.
Gli bastò un fugace sguardo perché il sorriso scomparisse dal suo viso e si ammutolì di colpo.
Entrambi riconobbero subito lo stemma sulla busta: un’aquila a due teste circondata da foglie di alloro e due lance che si incrociavano sullo sfondo rosso e oro. Era l’insegna che il ragazzo aveva visto migliaia di volte nella sua infanzia e adolescenza, e che aveva imparato ad odiare per tutto ciò che rappresentava: lo stemma di famiglia dei Granchester.
Terence non disse nulla e alzò verso la madre uno sguardo di ghiaccio.
Eleanor era combattuta. Il suo antico rancore nei confronti del padre di suo figlio, che glielo aveva strappato quando era ancora in tenera età, sprofondandola nella più cupa disperazione, si scontrava con la razionalità e la sua naturale generosità. L’odio nei confronti del padre avvelenava Terence più di quanto lui stesso si rendesse conto e, per quanto consapevole delle ragioni del suo ragazzo, la donna era certa che fosse tempo per lui di provare a superare quel fossato che lo separava dal padre, per il suo stesso bene.
-Terry, so cosa provi. Sono gli stessi sentimenti che ho provato io per tanti anni, puoi credermi – gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia, tristezza, frustrazione, amore perduto, onore mal interpretato – Sì, credo di sapere cosa provi per tuo padre, ogni cosa... – Eleonor sottolineò volutamente le ultime due parole – ...e, se ti fidi di me, credo proprio che dovresti almeno leggere quella lettera e poi decidere cosa fare.
Terence la fissava ancora senza parlare e senza guardare la lettera, solo un lieve tremore delle mani rivelava la sua agitazione interiore celata dietro un volto fattosi di pietra.
Se fosse stato solo, la lettera del padre sarebbe finita nel fuoco senza neanche uscire dalla busta. La cosa che lo faceva letteralmente impazzire di rabbia era che sua madre, ancora una volta e dopo tutti quegli anni, dimostrasse la forza e la capacità di superare il proprio dolore ed il proprio rancore, per caldeggiare altruisticamente la causa dell’uomo che l’aveva tanto fatta soffrire.
Eppure, ancora una volta, dopo che la risacca della prima ondata d’ira si fu ritirata dalla sua mente, come spesso gli accadeva, il giovane dovette ricordare, con quella implacabile severità riservata più a se stesso che agli altri, che lui non era stato migliore di suo padre quando aveva rinunciato a colei che amava senza combattere.
E ora la donna che era stata abbandonata e ferita lo supplicava di ascoltare le parole dell’uomo che le aveva rovinato la vita e portato via il figlio per quindici lunghi anni.
- Va bene mamma. Leggerò ciò che mio padre ha da dirmi – si arrese Terence, aprendo la busta.

Granchester Manor,
Aberfoyle, Scozia.
25/10/1918

Caro Terence,
Mi sono interrogato molte volte, prima di iniziare a scrivere questa lettera, su quale sarebbe stato il modo più corretto per rivolgermi a te.
“Mio caro figlio” sarebbe probabilmente suonato insolente alle tue orecchie, sebbene siano state le prime e più spontanee parole che si sono presentate alla mia penna. Qualsiasi altro più freddo e informale epiteto, come “Mr. Graham”, come mi dicono tu ti faccia chiamare adesso, mi è apparso fuori luogo e ipocrita, e così alla fine mi sono deciso per il tuo solo nome, sperando che vi leggerai ciò che più si addice ai tuoi attuali sentimenti nei miei confronti.
E’ passato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti e ancor di più dalle ultime rabbiose parole che ci siamo scambiati e non posso dire che le circostanze in cui ci siamo separati costituiscano un ricordo piacevole per me.
Il tempo trascorso non è stato indolore per nessuno di noi. Per tua madre, per me e, ciò che tormenta il mio animo stanco, soprattutto per te, il mio amato figlio. Essere stato io stesso la causa principale di tale sofferenza con le scelte dettate dalla mia storia e dai doveri verso il nome che porto, aggrava il mio peso.
Non so se potrai credermi, Terence, ma negli ultimi anni, viepiù da quando ti sei allontanato da me e dalla tua famiglia in contrapposizione ad ogni cosa io rappresenti ai tuoi occhi, il ricordo di tua madre si è spesso affacciato alla mia mente, recando con sé immancabilmente accuse inespresse e quel rancore mai sopito al quale, ai suoi occhi giustamente, lei mi ha condannato molti anni fa.
Probabilmente, la donna generosa e luminosamente buona che ho conosciuto e amato avrebbe potuto perdonare l’uomo che sono stato e il dolore che le ha causato il mio abbandono. Non altrettanto, ovviamente, ha concesso per la dolorosa e innaturale separazione dal sangue del suo sangue che le ho imposto.
Il sangue, vedrai, ricorrerà spesso nel contenuto di questa mia missiva. Il lignaggio e il blasone sono state le cartine al tornasole della mia vita, ma è adesso il momento di chiedermi a spese di chi, e sacrificando che cosa.
Certo a spese di tua madre, Terence, e di questo desidero chiedere perdono di fronte a lei, con tutta la sincerità della mia anima.
E a spese tue. E di questo devo chiedere perdono di fronte a te, e a Dio.
E’ difficile per un uomo che per tutta la vita si è consacrato all’onore, al rispetto e alla sottomissione degli altri ammettere i propri errori, e confido nella tua comprensione e tolleranza nei confronti di questo mio primo tentativo, Terence.
Non posso rinnegare ciò che ho fatto per necessità dettate dai miei doveri, né lo farei. Ma oggi so che il modo in cui ho fatto il mio dovere fu errato e foriero di tutto il dolore che ho causato a tua madre e che, in una nemesi inevitabile, mi è stato restituito dal tuo immarcescibile disprezzo.
Non che io non ti comprenda, oggi. Ho provato rabbia, frustrazione, disperato bisogno di vincere la ribellione di quel figlio amatissimo che ho visto sfuggirmi tra le dita anno dopo anno, senza rendermi conto che quegli stessi atti da me posti in essere per trattenerti a me (per renderti simile a me) avevano come logica conseguenza proprio quella di allontanarti sempre di più. Mi sono sforzato di correggerti, anziché di comprenderti, proprio come il mio genitore aveva fatto con me quando mi costrinse a chiudere la relazione con tua madre, e questa mia incapacità di staccarmi dalla mia storia mi è stata fatale.
Credo che avrei ancora potuto ricondurti a me. Ma in occasione del nostro ultimo incontro non ho capito che avevo per la prima volta di fronte a me un uomo, e non il ragazzo ribelle che eri stato fino ad allora.
Nessuno tra gli uomini è stato più fallibile di me, Terence, e ho purtroppo meno tempo di quanto mi augurerei per riparare ai miei errori e sgretolare le mie granitiche certezze, ponendovi rimedio.
Sono gravemente malato, Terence. E non ti dico ciò per suscitare la tua pietà, poiché è questo l’ultimo dei sentimenti che voglio suscitare nella vita, avendone a mia volta dispensata ben poca agli altri (e chi mi conosce bene quanto te non può nutrire dubbi al riguardo). Te lo confesso perché tu comprenda da dove tragga l’origine questo triste bilancio che sto tirando con me stesso… e che mi vede purtroppo in grave passivo, soprattutto nei confronti tuoi e di tua madre.
Perdere il tuo affetto è stato il dolore più grande della mia vita, e il silenzio con cui l’ho affrontato è stato l’unica reazione che la mia esistenza e la mia storia mi avessero insegnato. Il mio sangue, sì… La durezza e l’impossibilità di perdonare, dono dei miei avi, sono state il vero dramma di questi tristi accadimenti.
Ma ti ho amato e ti amo come il più prezioso dono di una vita per tanti altri aspetti avara, a dispetto del dignitoso decoro di cui l’ho ammantata.
Non so quanto il destino e i progressi della scienza medica (e ti assicuro che entrambi si stanno accanendo su di me in particolare simbiosi in questo periodo) mi lasceranno ancora da vivere, ma quanto che sia il tempo che mi rimane, nutro il profondo desiderio di rivederti per poterti dire, guardandoti negli occhi, quanto io ti ami e ti abbia sempre amato. E quanto le mie mancanze nei tuoi confronti abbiano reso bui questi ultimi anni della mia vita. Ciò non nella speranza di ricevere in cambio il tuo perdono, poiché nel profondo di un cuore troppo spesso tacitato, so che è più di quanto io meriti. Ma per restituirti il padre che non hai mai avuto, qualunque cosa intenderai poi farne.
E’ mia intenzione, Terence, renderti l’onore del nome e del titolo, quando io non vi sarò più, e ciò indipendentemente dalla scelta che compirai, dal perdono che vorrai concedermi, e se vorrai rivedermi ancora.
Figliolo, se pensi che i rancori e le incomprensioni del nostro passato potrebbero essere alleviati da un confronto tra noi, ti prego di considerare questa mia, insieme a tutto il mio amore di padre, che anelo di poterti confermare di persona.
Solo tu puoi valutare cosa fare e mi rimetto a te, nella consapevolezza che mai fiducia potrebbe essere meglio riposta.

In fede,

Richard Charles Stanton, Lord Cobton e Duca di Granchester.


Terence lesse la lettera seduto sulla poltrona di pelle accanto a quella occupata dalla madre, che non gli aveva staccato gli occhi dal volto neanche per un attimo di quella dolorosa lettura.
Quindi il ragazzo alzò gli occhi blu, resi quasi neri dal turbine di emozioni che si stava scatenando dentro di lui, porse la lettera a Eleonor e si alzò per andare alla finestra.
Aveva ripreso a nevicare.
“Figlio amatissimo…”, “Sono gravemente malato…”, “Ti ho amato e ti amo come il più prezioso dono di una vita…” , "…tutto il mio amore di padre che anelo di poterti confermare di persona…”
Frammenti di quella lettera che rovesciavano il mondo come lo aveva conosciuto negli ultimi anni gli turbinavano davanti agli occhi, insieme ai candidi fiocchi di neve che ancora una volta scendevano ad incorniciare un momento fondamentale della sua vita.
“Non amerò mai come te!”
Erano le ultime le parole con le quali aveva detto addio al padre e aveva chiuso la porta su un passato che, con la forza primordiale e invincibile del legame tra genitore e figlio, era riuscito a stanarlo per metterlo ancora una volta di fronte a se stesso.
Terence strinse i pugni e fissò la sua immagine riflessa nella grande vetrata con occhi che erano diventati due lame di ghiaccio.
Non c’era ancora pace per i conflitti che avevano scelto il suo cuore come campo di battaglia.


Guardate la tremenda punizione
calata sui vostri rancori
e come il cielo si è fatto dell’amore lo strumento
da spegnervi ogni gioia.***



* Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.
** Liberamente tratto da: Kioko Mizuki, Novelle, Capitolo V, pag. 131-133.
*** Romeo e Giulietta, Atto V, scena III

FINE CAPITOLO PRIMO.



Edited by cerchi di fuoco - 3/8/2013, 21:53
 
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Capitolo 2°: Cambiamenti



2cambiamenti



Lakewood, Illinois,
22 gennaio 1919


Nuvole plumbee si specchiavano sulle acque del lago Michigan, conferendo a tutto il paesaggio circostante il tetro colore della malinconia. I rami spogli degli alberi ai due lati del viale ricamavano su quello sfondo grigio delle linee intrecciate, simili a scuri e netti tratti di pennello schizzati da un artista visionario direttamente sul cielo. L’aria gelida nelle campagne attorno al lago sembrava cristallizzare la profonda tristezza di un eterogeneo gruppo di persone che incedeva gravemente, allontanandosi dal cimitero a passo lento e sotto grandi ombrelli neri che li riparavano dalla pioggia che cadeva incessante da giorni. Era come se dal cielo stessero scendendo nuove lacrime, in aggiunta a quelle che erano state appena versate alle esequie della zia Elroy.
La famiglia Andrew si era riunita compatta, come sempre avveniva in occasione di matrimoni e funerali in quella grande e ramificata famiglia, sparsa ormai in tutto il mondo.
Gli unici assenti erano i coniugi Cornwell, i genitori di Archie e Stear. Sarebbe stato impossibile aspettare il loro rientro dall’Africa per celebrare il funerale, in considerazione del caos che ancora regnava in Europa dopo la fine della guerra e degli sconvolgimenti che l’avevano seguita. Germania e Italia sembravano sull’orlo del collasso istituzionale, rivolte e insurrezioni operaie erano all’ordine del giorno e nessuno sembrava in grado di prevedere come si sarebbero assestati i nuovi ordini politici interni. Intanto, tutti gli occhi erano puntati sulla Russia, teatro da più di un anno di una sanguinosa guerra civile tra restauratori “Bianchi” e comunisti “Rossi”, seguita alla Rivoluzione Bolscevica.
Al funerale della zia Elroy era invece intervenuto Vincent Brown, il vedovo di Rosemary Andrew e padre di Anthony. L’uomo, dopo essersi ritirato a vita privata e aver posto fine ai suoi pellegrinaggi per mare, si era trasferito in un tranquillo cottage sulle rive del lago Michigan nei pressi del confine tra l’Indiana e l’Illinois, nel quale conduceva una ritirata esistenza, non mancando di far visita frequentemente alle tombe della moglie e del figlio adorati. Nonostante i suoi rapporti con la zia Elroy non fossero mai stati dei migliori, essendosi la matriarca opposta strenuamente alle nozze dell’amata nipote con quel “marinaio”, come da lei definito, dalle origini non considerate all’altezza del blasone degli Andrew, Vincent non aveva voluto mancare all’ultimo saluto verso una figura così importante nella vita della donna che aveva amato con tutto se stesso. Adesso, al riparo di un grande ombrello scuro che sembrava coprirne la profonda malinconia, l’uomo incedeva dignitosamente e solitariamente dal cimitero verso la villa di Lakewood, col capo chino e immerso nei ricordi di un passato troppo costellato dalle morti di coloro che gli erano stati più cari per poter essere condiviso con alcuno.
La famiglia Legan era appositamente rientrata da Miami, dove si era ormai definitivamente stabilita per concentrarsi sul business dei resort di lusso, settore in quel periodo in forte espansione negli Stati Uniti. L’aristocrazia del denaro dell’intera costa orientale stava scoprendo la Florida e il suo clima costantemente mite quale luogo ideale in cui trascorrere una serena e privilegiata vecchiaia, o dove trovare rifugio dalla grande epidemia di influenza che divampava in tutto il paese, con particolare virulenza nelle città come Boston e New York, più cosmopolite e meglio collegate al resto del mondo.
Il signore e la signora Legan si erano ritagliati in quegli anni un ruolo di primo piano nell’elite di Miami e avevano moltiplicato le ricchezze di quel ramo della famiglia, anche se qualcuno sussurrava che ad avere ingrossato gli svariati conti bancari della famiglia non fossero stati soltanto introiti totalmente limpidi. Ma in un paese che stava facendo dell’imprenditorialità, della legge del più forte e dell’assenza di scrupoli il fondamento del “sogno americano” queste voci non avevano intaccato la reputazione della famiglia, che continuava a offrire sfoggio di ricchezza nei più sontuosi e sfarzosi ricevimenti di Miami. Era stato in occasione di una festa di capodanno due anni prima che Neal aveva conosciuto Clelia, la figlia del governatore della Florida Sidney Johnston Catts. Dopo una breve frequentazione, il loro fidanzamento ufficiale era stato annunciato da una Sarah Legan in visibilio, felice di avere finalmente lavato via l’onta della rottura tra il figlio e quella orribile trovatella che li aveva umiliati pubblicamente davanti a tutta Chicago. Clelia era la classica bellezza del sud dai lunghi boccoli biondi, le gote rosate e modi ossequiosi e remissivi; ma soprattutto possedeva una dote equamente divisa tra ricchezze e solida reputazione familiare, che ne facevano la sposa ideale per quella avida e superficiale famiglia, nonché per un Neal che l’età aveva reso ancora più scontroso e più arrabbiato col mondo e con la perenne sensazione di essere in credito con un destino avverso. La sua educazione si era fermata agli anni della St. Paul School, e i tentativi del padre di assegnargli un impiego di facciata nell’azienda di famiglia, da cui non provocasse troppi danni, erano falliti di fronte alla sua sempiterna indolenza. Il matrimonio con Clelia Johnston Catts sarebbe stato quindi il degno coronamento di una esistenza vacua e improduttiva, la cui conclusione giustamente non avrebbe potuto avere scenario più adatto di una delle grandi residenze di campagna della Florida, sotto un portico verniciato di bianco e tra alberi di magnolia. Di quella aristocratica nullafacenza i grandi proprietari terrieri degli Stati del sud si facevano tuttora un vanto, e continuavano orgogliosamente ad esibirla come proprio tratto culturale distintivo a distanza di più di cinquant’anni dalla fine della guerra civile.
Iriza aveva seguito le orme della madre ed era diventata una delle regine dei salotti di Miami, nonché una delle più corteggiate signorine della buona società cittadina. Eppure, nonostante i molti ammiratori, aveva ricevuto ben poche proposte di matrimonio, con grande sconcerto dei genitori. Quella sua attitudine malevola, nonché l’indole egoistica e autoreferenziale che continuavano ad essere i tratti dominanti della sua personalità, emergevano immancabilmente con chiunque scavasse oltre la superficie nel rapporto con lei, determinando la fuga repentina di coloro che erano dotati di carattere limpido, o l’emergere degli istinti meno onorevoli in quegli spiriti torbidi e più affini al suo.
A preservare la sua virtù dagli attacchi di questi ultimi aveva provveduto il più forte dei suoi moventi: l’ambizione a fare un ottimo matrimonio, per il quale l’illibatezza costituiva il miglior viatico.
Alla fine, aveva ceduto alla corte di un socio in affari del padre, Louis De Francois Vouilleres, un mercante e imprenditore immobiliare, vedovo di mezz’età piuttosto affascinante e dalle sconfinate quanto oscure ricchezze, che a suo dire vantava tra i propri avi una famiglia giunta in Louisiana insieme ai primi colonizzatori francesi nel XVII secolo.
Di fronte alla scelta tra il buon nome e il denaro, Iriza aveva optato per il secondo, certa che le sarebbe stato poi sempre possibile comprare il primo. E tale analisi era stata la più profonda che la sua mente, per il resto esclusivamente dedita a valutare il colore più alla moda e le pettinature più in voga per la stagione in corso, avesse elaborato fin dall’infanzia.
La coppia si era sposata nell’estate precedente e da allora Iriza si era trasferita a New Orleans nella residenza di famiglia del marito dove, colti finalmente col matrimonio i frutti degli anni di forzata virtù, si era immediatamente calata nella sfrenata ed eccitante vita della capitale del divertimento, proprio negli anni d’oro della nascita del jazz e della stella di Louis Armstrong, dandosi a una serie di promiscue relazioni nei lunghi periodi di assenza del consorte per affari. Si chiacchierava che il marito, a sua volta, avesse almeno un altro paio di famiglie clandestine sparse tra la Louisiana e il Mississippi.
I contatti della nuova signora De Francois Vouilleres con la famiglia d’origine, eccezion fatta per la madre con la quale manteneva una stretta corrispondenza epistolare, erano ridotti al minimo dopo lo smacco costituito dal rifiuto di tutti gli Andrew di Chicago di partecipare alle sue nozze nel luglio precedente, e di ammirare così lo scandaloso e volgare sfoggio di opulenza che ne aveva costituito la pacchiana cornice.
I coniugi Archibald ed Annie Cornwell avevano avuto ottimi motivi per declinare l’invito: Annie all’epoca non poteva affrontare il lungo viaggio, essendo proprio a metà della gravidanza da cui sarebbero nati i gemelli Pauline e Alistear, primi esponenti di una nuova generazione di Andrew. La zia Elroy aveva avuto una delle ultime gioie della sua vita nel tenere tra le braccia i suoi pronipoti. Aveva però causato sconcerto la scelta del nome della piccola, non legato alle storie familiari né degli Andrew né dei Brighton, anche se in pochi avevano potuto cogliere il riferimento alla madre del cuore di Annie, Pauline Giddings, alias Miss Pony. La signora Brighton aveva reagito nel peggiore dei modi alla scelta della figlia, e in pochi nella cerchia dei familiari avrebbero saputo dire se a sconvolgerla di più fosse il fatto che la fanciulla avesse voluto così rendere omaggio alla donna che l’aveva allevata negli anni dell’infanzia, o il timore che la verità sulle oscure origini della figlia adottiva potessero venire alla luce, terrore che ancora turbava le sue notti.
Nessuno aveva invece trovato alcunché da ridire, o aveva avuto il minimo dubbio, sull’origine del nome del piccolo Alistear, giacché la ferita apertasi con la morte del fratello non si era mai rimarginata nel cuore di Archie, al quale da allora sembrava di aver perso una parte di sé. Era come se il giovane fosse maturato improvvisamente in un giorno in cui aveva suonato la cornamusa in solitudine sulla tomba del fratello e del cugino Anthony, dicendo così addio alla sua fanciullezza. Abbandonati i vezzi da dandy, Archie si era rivelato un giovane uomo maturo, assennato e con la testa sulle spalle, con un talento spiccato per gli affari e la volontà di metterlo al servizio dell’azienda di famiglia. All’inizio del 1918 era stato inserito dallo zio William nel consiglio d’amministrazione della Andrew Enterprises, il consorzio di ramificate attività che toccavano tutti i settori del business e che ponevano la famiglia Andrew nell’elite finanziaria ed economica degli Stati Uniti, insieme agli Astor, ai Vanderbilt e ai Rockefeller. Subito dopo, a coronamento di un lungo fidanzamento, aveva sposato Annie Brighton, la dolce e fedele compagna devotamente al suo fianco fin dai tempi della scuola, sebbene fino alla fine la zia Elroy, istigata dai Legan, avesse fatto di tutto per ostacolare il matrimonio e si fosse piegata solo di fronte all’endorsement verso la coppia del capofamiglia William.
Tutti i convenuti alle nozze avevano unanimemente affermato che non si era mai vista in tutta la storia di Chicago una sposa più radiosa e bella di Annie; e quando la giovane, con gli occhi lucidi di gioia aveva sussurrato il suo “lo voglio”, con una voce tremante che esprimeva tutto il profondo amore per l’uomo di fronte a lei, Archie non era stato l’unico a essere percorso da un brivido nella grande Holy Name Cathedral di Chicago.
Annie era maturata molto dagli anni dell’infanzia e dell’adolescenza ed era sbocciata in una splendida, matura e consapevole giovane donna grazie alla certezza dell’amore di Archie, del quale in passato aveva avuto più di un’occasione per dubitare. Sapeva bene che era stato solo il disinteresse di Candy a un legame sentimentale con il cugino adottivo a spingere il marito tra le sue braccia, ai tempi della scuola. Ma la sua devozione, la sua dolcezza e il suo amore, uniti alla nuova maturità di Archie stimolata dal dolore per la morte dell’amato fratello, avevano fatto dissolvere il velo che fino a quel momento aveva impedito al giovane Cornwell di rendersi conto di quale prezioso tesoro avesse al fianco silenziosamente da anni.
Il giorno in cui si era inginocchiato di fronte a lei, porgendole il più meraviglioso dei brillanti e chiedendole con voce spezzata se volesse trascorrere tutto il resto della sua vita con lui, Annie aveva visto negli occhi di Archie tutto l’amore che aveva sempre sognato di scorgervi, e aveva capito che il suo lungo viaggio era terminato. Si era gettata felice tra le sue braccia e aveva sussurrato il “sì” più convinto della sua vita, nel porto sicuro tra le braccia dell’uomo che aveva sempre amato e dal quale adesso si sentiva parimenti riamata.
Questa nuova consapevolezza di sé si era rafforzata con la repentina maternità e con la nascita dei gemelli, e i coniugi Cornwell conducevano adesso un’esistenza appagata e felice nella villa degli Andrew di Chicago, inseriti nella vita sociale della città come si conveniva al loro rango, ma senza ostentazioni di sorta. Annie, impegnata tra l’altro in varie attività benefiche in favore dei familiari dei soldati caduti in guerra, traeva tutta la sua gioia dal riempire d’amore e attenzioni i suoi figli, in un tentativo di esorcizzare il trauma dell’abbandono da parte dei genitori naturali da lei stessa patito, seppure riscattato dal grande amore di cui l’aveva circondata la famiglia adottiva e in particolare il padre, il sig. Brighton, nonno orgoglioso e completamente asservito ai due gemelli.
Sotto la pioggia di gennaio, Annie si era rifugiata in macchina e attendeva pazientemente il marito, il quale aveva manifestato il desiderio di trattenersi per qualche minuto da solo in raccoglimento sulla tomba del fratello, adiacente a quella della zia Elroy nel mausoleo degli Andrew.
Il triste corteo era chiuso da due figure bionde vestite di nero che procedevano sotto la pioggia, riparandosi sotto lo stesso ombrello, l’una al braccio dell’altro a scambiarsi come sempre il conforto che avevano dato e ricevuto reciprocamente l’uno dall’altro in tutte le altalenanti vicende della loro vita, sempre certi della rispettiva presenza nel momento del bisogno.
Come due piante rampicanti che traggono forza l’una dall’altra, intrecciandosi in corrispondenza degli snodi più difficili del proprio cammino, i cui fusti in certi tratti si separano ma restano sempre vicini, pronti a sostenersi l’un l’altro di fronte alle asperità della superficie su cui crescono.

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 27/4/2013, 00:43
 
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William Albert Andrew, il giovane leader di quel clan così in vista, era uno degli uomini più affascinanti di Chicago e dei dieci scapoli più ambiti degli Stati Uniti. Dal momento della rivelazione della sua identità quale zio William, Albert aveva dovuto dire addio alla propria indole selvaggia per prendere in mano le redini della famiglia e delle imprese, cosa che aveva fatto con impegno pari a quello che aveva messo nella sua scoperta del mondo negli anni della giovinezza, come se in tal modo avesse inteso saldare un debito con la famiglia che gli aveva consentito di dedicare gli anni migliori della sua vita alle proprie autentiche passioni: gli esseri viventi, la natura, la libertà. Lo spietato mondo degli affari, nel quale si muoveva ormai da tre anni con autorevolezza e disinvoltura da consumato businessman, grazie all’ottimo supporto dell’inseparabile amico e consigliere George Johnson, non aveva mai spento la luce che brillava nei suoi occhi azzurri come il cielo di primavera, né quella naturale empatia verso i deboli e i sofferenti che trovava sfogo nel proliferare di attività filantropiche finanziate dal patrimonio Andrew.
In quella mattina di gennaio il suo sguardo era velato dalla profonda tristezza che sentiva per la scomparsa dell’ultimo legame con il padre: quella zia Elroy che, dietro la rigidità derivante dall’età e dall’educazione, l’aveva prima amato profondamente come il prediletto tra i nipoti, e poi rispettato e accreditato di fronte al resto della famiglia quale capo unico degli Andrew.
Albert sentiva che con la morte della zia un pezzo della sua giovinezza era perduto per sempre, e sapeva che scelte nuove e svolte decisive erano dietro l’angolo: nuovi equilibri in seno alla famiglia conseguenti al cambio generazionale; scelte nelle quali lui avrebbe dovuto giocare un ruolo decisivo, come capo del clan.
Aveva smesso di piovere quando arrivarono alla macchina e Albert si voltò per guardare negli occhi la fanciulla dagli occhi verdi al suo fianco. Lei gli rivolse in risposta un dolce sorriso e gli strinse la mano, trasmettendogli senza parlare il suo messaggio di conforto, prima di precederlo in macchina.
George si mise silenziosamente alla guida e si avviarono verso villa Lakewood, il luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
Albert guardava Candy, compostamente seduta accanto a lui, gli occhi lucidi delle lacrime che aveva versato per quella anziana zia portata via insieme a milioni di altre vittime dalla più grande epidemia di influenza che il mondo avesse mai conosciuto, e che in America aveva già causato più vittime della guerra. Il nero del semplice ma raffinato abito che indossava ne evidenziava l’incarnato eburneo sul quale spiccavano le sbarazzine lentiggini, da sempre fedeli compagne del suo viso. Gli indomabili ricci biondi erano gli stessi che avevano incorniciato il volto terrorizzato di una bambina salvata dalla furia delle acque proprio dal provvidenziale intervento di Albert, tanti anni prima. Adesso erano più corti e arrivavano a sfiorarle le spalle in morbide onde, pettinati in una dritta riga laterale che li faceva spiovere da un lato del volto, conferendole un aspetto molto semplice ma al contempo naturalmente raffinato. Gli occhi di un incredibile color verde brillante spiccavano come preziosi smeraldi, in contrasto col velluto scuro dell’abito e col semplice pizzo bianco del colletto. Quegli occhi che ancora oggi, dopo tanto tempo, gli presentavano l’immagine della sorella Rosemary ogni volta che li incrociava. La figura si era ulteriormente aggraziata e slanciata e, sulla soglia dei ventuno anni, Candy aveva l’aspetto e la leggiadria di una donna inconsapevole del fascino conferitole dalla sua semplice ed autentica bellezza, e non aveva d’altro canto perduto quell’aura magnetica conferitale dalla sua naturale empatia per gli altri.
La bambina dolce e deliziata dalle meraviglie del mondo, terrorizzata dai fratelli Legan, che aveva rischiato di annegare alla cascata di Lakewood, si era trasformata in una splendida giovane donna.
Candy guardava fuori dal finestrino il familiare paesaggio che conduceva al viale d’ingresso di Lakewood e al cancello delle rose. Albert la vide rabbrividire.
-Candy, hai freddo? – le chiese preoccupato
-No, Bert, va tutto bene – la ragazza gli rivolse un sorriso e tornò a guardare fuori.
Albert lanciò uno sguardo dal finestrino verso il cielo, che da plumbeo stava rapidamente volgendo al candore.
- Probabilmente nevicherà prima di sera
Candy rabbrividì, stavolta più visibilmente.
- Spero di no… detesto la neve… - e chiuse gli occhi, visualizzando una terrazza spazzata selvaggiamente dai candidi fiocchi, sulla quale la sua vita era finita ed era iniziato il resto della sua esistenza.
Albert la guardò, non aveva bisogno di chiedere nulla. Lui era l’unica persona al mondo a conoscere ogni dettaglio della separazione tra lei e Terence. Persino Miss Pony e suor Maria, le due mamme dalle quali Candy era tornata a vivere per aiutarle nella cura della casa di Pony, avevano un’idea sommaria di ciò che aveva diviso Candy dal suo Romeo, ma ignoravano i dettagli del doloroso rientro a Chicago e dei lunghi mesi di sofferenza e strazio che ne erano seguiti. Solo Albert era stato testimone della dolorosa battaglia per mettere a tacere il cuore che urlava la sua solitudine, e solo lui sapeva cosa rendeva ancora più lancinante la pena della sua piccola rosa, il tarlo che da quella lontana notte le agitava l’anima: il senso di colpa per non essere riuscita a mantenere il giuramento che lei stessa aveva strappato a Romeo su quella scalinata:
“Sii felice, Candy! Perché altrimenti non potrò mai perdonarti”.
Ogni promessa di felicità per Candy iniziava in una notte nebbiosa su un piroscafo in mezzo all’oceano Atlantico, e finiva rotolando giù per le scale dell’ospedale St. Jacob’s di New York, nel momento in cui le braccia di Terence avevano sciolto l’abbraccio con cui cercavano di trattenerla a lui ancora per un attimo. Un attimo solo. Per sempre.
Certo, da allora Candy era tornata a sorridere, a gioire delle felicità dei suoi amici e dei suoi cari, a piangere per la morte di Stear, a godere e a rallegrare con la sua luce naturale le vite di coloro che le stavano accanto. Ma Albert sapeva meglio di chiunque altro che ciò che si era spezzato quando quei due giovani avevano sciolto il loro disperato abbraccio non si era ancora ricomposto.

- La zia Elroy sarebbe stata contenta di vedere tutta la famiglia qui riunita per lei – disse Candy.
- Sì, lo sarebbe stata. Specialmente Sarah le mancava molto... è sempre stata la sua prediletta. Il suo più grande rimpianto è stato non poterla vedere più spesso negli ultimi anni.
- Non credo di poter dire altrettanto! – rispose Candy con un lampo di malizia negli occhi.
Nonostante la tristezza della giornata, Albert si fece strappare un sorriso. E dal posto guida, persino l’austero e imperscrutabile George si concesse di sollevare un infinitesimale angolo del labbro superiore, quale espressione della sua più grande ilarità per la soddisfazione, così genuinamente espressa da Candy, al pensiero delle migliaia di chilometri che tanto provvidenzialmente separavano l’Indiana dalla Florida e dalla Louisiana.
- Dopo il crollo seguito alla rottura del tuo fidanzamento con Neal direi che i tuoi rapporti con la zia non fossero poi così male, Candy!
- Certo, dal momento che erano assolutamente inesistenti! – esclamò la ragazza con un sorriso – il fatto che io sia tornata a vivere alla casa di Pony, liberando Lakewood dalla mia presenza, l’ha rasserenata. Avevamo trovato modo di evitarci reciprocamente, nei brevi periodi in cui io venivo a trovarti nelle pause dei tuoi viaggi, e ciò è stato sufficiente. Mi dispiace tanto non essere mai riuscita a vincere la sua diffidenza nei miei confronti. Per me invece lei resterà sempre legata al ricordo dei meravigliosi giorni in cui ho vissuto qui con lei Stear, Archie ed Anthony.
- Non ti capiva, Candy. E come tutte le persone anziane le era molto difficile accettare ciò che non comprendeva. Ai suoi occhi l’alterigia e la supponenza di Iriza erano molto più rassicuranti del tuo entusiasmo e della tua genuinità.
- Lo so. Anche tu e Rosemary avete dovuto faticare per farle accettare il vostro modo di essere.
- Rosemary è stata la prima persona in tutta la sua vita a sfidarla. Credo che il fatto che tu le somigli tanto abbia avuto un ruolo importante nella dinamica tra voi.
- Immagino di sì.
- Nel mio caso, alla fine non posso che ringraziarla per avermi consentito di dedicare una gran parte della mia vita alle mie passioni e alle mie aspirazioni, anche se mi aveva messo alle calcagna questo body-guard d’eccezione – scherzò Albert, sporgendosi in avanti per dare una pacca sulla spalla a George, che gli rivolse un sorriso fraterno attraverso lo specchietto retrovisore – credo che sia stato per effetto della morte di Rosemary… Comunque, ho sempre saputo, e anche lei, che il sangue alla fine avrebbe prevalso e sarei tornato a svolgere il mio dovere.
- Forse, quando ti ha visto comparire alla mia festa di fidanzamento con Neal, si sarà rammaricata che, avendo atteso tanti anni, tu non abbia deciso di aspettare ancora un giorno o due! – continuò Candy su quel tono leggero, ma reprimendo un brivido al pensiero di quella terribile vicenda, la più diabolica macchinazione dei Legan ai suoi danni, e di quali conseguenze avrebbe potuto avere se Albert non fosse intervenuto.
L’uomo scoppiò a ridere.
-Sì, hai ragione, Candy! – era strano riuscire a ridere in una giornata triste come quella, ma era quello il potere che Candy aveva sulle persone.
Stavano attraversando il cancello delle rose e Candy come sempre si sentì avvolgere da una sensazione di dolcezza e serenità confortanti. Era stupefacente come lo straziante dolore per la morte del suo Anthony si fosse mutato nel tempo in quel dolce abbraccio che le dava forza ogni volta che pensava a lui. Era lo stesso anche per Stear.
“Così come le rose una volta appassite rifioriscono più belle di prima, anche le persone una volta morte rivivono per sempre nel nostro cuore. Proprio come mi hai detto tu una volta, Anthony”.
Perché non poteva essere lo stesso anche per il ricordo di chi era perduto ma ancora in vita, che invece continuava a lacerarglielo, il cuore, con la stessa ferocia del primo giorno? Aveva imparato a proprie spese che ci sono persone che, anche se ancora vive, non si è destinati a incrociare più nel proprio cammino, per quanto doloroso fosse accettarlo.

Arrivati alla villa, dovettero sottoporsi allo strazio di un brunch di famiglia con la famiglia Legan.
Nella grande e familiare sala da pranzo della villa fu tutto molto imbarazzante: i Legan insieme al marito di Iriza da un lato della tavola e tutti gli altri di fronte, con Albert a capotavola.
Il silenzio carico di tensione, ostilità vecchie di anni, rancori mai sopiti, era tale da potersi tagliare con un coltello. Iriza lanciava lampi di fuoco dagli occhi, ma temeva troppo la collera dello zio William per lasciare fluire il veleno che la travolgeva in presenza di Candy; non si sarebbe mai rassegnata alla sua presenza in quella famiglia: fin dal primo giorno l’aveva combattuta come il simbolo di tutto ciò che lei disprezzava nella vita.
Era anche del tutto evidente che Neal stava bevendo troppo, probabilmente perché ritrovarsi a Lakewood gli richiamava alla mente il ricordo della più grande umiliazione mai patita in tutta la sua vita.
Albert ruppe l’imbarazzo rivolgendosi a Vincent Brown, seduto alla sua sinistra:
- Vincent, non ti sei ancora stancato del tuo ritiro dorato?
Il cognato alzò lo sguardo dal consommé che stava sorbendo, per rivolgergli uno sguardo interrogativo.
- Cosa intendi dire, William? – in famiglia, a parte Candy, tutti si rivolgevano ad Albert usando il nome di battesimo che era anche sinonimo di potere nel clan.
Albert scambiò uno sguardo d’intesa con Archie prima di proseguire:
- Mi chiedevo se non ti andrebbe di darci una mano con gli affari di famiglia – tutti i Legan, sotto un velo di apparente indifferenza, drizzarono immediatamente e simultaneamente le antenne – il direttore del settore commercio marittimo della Andrew Enterprises è andato in pensione dopo 35 anni di onorata carriera e io ho pensato che in famiglia c’è chi sarebbe più che all’altezza di ricoprire questo incarico e gode di tutta la mia fiducia.
Vincent rimase spiazzato di fronte a quella proposta. Per anni era stato ai margini della famiglia Andrew e sentirsi offrire dal leader un ruolo di primo piano nelle imprese era un inaspettato sviluppo. D’altra parte, fremeva per tornare in attività e lavorare con William e Archie, per di più nel settore che amava e di cui era tanto esperto, lo tentava moltissimo. Sarebbe potuto restare a Chicago, vicino a Rosemary e Anthony…
- Sei sicuro che la zia Elroy avrebbe approvato la tua scelta, William? – si intromise Sarah con voce melliflua.
- Cosa intendi dire, Sarah? – domandò Albert in tono apparentemente conciliante.
- Non mi pare che la zia abbia mai espresso particolare considerazione per il signor Brown, in passato, tutto qui.
- La zia Elroy non ha mai approvato l’ingresso in questa famiglia di persone non all’altezza del nostro nome – rafforzò il concetto Iriza, non riferendosi certo a Vincent Brown.
Candy e Annie si lanciarono uno sguardo e un sorriso. Avevano cessato da tempo di sentirsi toccate dalle malevolenze dei Legan, e Annie si concedeva finalmente il lusso di ridere di loro, dalla sua nuova posizione di forza quale moglie di un Cornwell.
- Credo che la domanda sia se a me sembri opportuna questa scelta, Sarah, dal momento che sono il Presidente della Andrew Enterprises, non trovi?
Sarah mosse rapidamente in ritirata. Da quando William Albert era assurto al rango di capofamiglia i fasti degli anni d’oro, in cui per decidere le sorti della famiglia bastava una sua velata allusione, fatta distrattamente cadere in qualche punto di una conversazione con la zia Elroy, erano per lei tristemente tramontati.
Vincent, ignorando quell’ultimo scambio, si rivolse ad Albert sorridendo e disse:
- La tua proposta mi interessa molto, William. Sarei molto felice di prenderla in considerazione.
- Molto bene, Vincent! Con Archie a capo della divisione immobiliare e te alla guida di quella mercantile, mi sentirei veramente con le spalle ben coperte su due dei fronti di attività più importanti delle nostre imprese, per affrontare i punti interrogativi che questo dopoguerra ci offre.
- Il mercato immobiliare non conoscerà mai crisi, Mr. Andrew – interloquì Louis De Francois Vouilleres.
- Lei pensa? – chiese Archie che si muoveva con esperienza e competenza nel settore.
- Certo. Siamo una nazione in espansione. Questo paese ha due grandi necessità: case popolari per le caterve di immigrati che arrivano incessantemente da due o tre decenni come ondate di marea sulle nostre coste, e che aumenteranno nei prossimi anni grazie alla crisi in cui versa l’Europa; ed edilizia di lusso, a beneficio di quei privilegiati che sapranno approfittare di questa ondata di immigrazione per mettere a frutto la propria imprenditorialità e fare affari d’oro. Io mi occupo di entrambe e può star certo che i miei affari non conosceranno recessione.
- Ma il costo delle materie prime è in costante crescita e il ritorno degli investimenti sempre più lungo, per chi opera in questo settore – rispose Archie – non siamo più ai tempi in cui nelle città in espansione si costruivano case fatiscenti con prodotti scadenti. L’incendio di San Francisco che dodici anni fa ha cancellato quasi l’intera città dovrebbe essere un monito per noi costruttori.
Louis si lasciò sfuggire un sorrisino:
- Mio caro amico, il terremoto e l’incendio a cui lei fa riferimento hanno raso al suolo in massima parte stamberghe di poveracci che possono essere tirate su nello stesso tempo che il terremoto e il fuoco ci hanno messo a distruggerle. Non vale la pena investire in materie prime in quel settore. Sono i resort di lusso e le ville per la nuova aristocrazia del denaro la gallina dalle uova d’oro per noi costruttori.
Ad Albert e Archie non piacque il tono avido e arrogante con cui il marito di Iriza aveva espresso quel cinico punto di vista, ma non volendo impelagarsi in una discussione in una giornata come quella, Albert intervenne precedendo Archie che stava per interloquire:
- Credo che alle signore non interessi entrare nei dettagli sull’argomento, magari più tardi davanti a un buon cognac potremo approfondire le sue idee, Louis.
Iriza mandò lampi all’indirizzo dello zio William. Si permetteva di trattare con condiscendenza anche il suo aristocratico marito, dopo averli estromessi dalla famiglia e praticamente costretti all’esilio! Non vedeva l’ora di andarsene da quella odiata casa che portava con sé solo tristi ricordi, per tornare a spadroneggiare nella sua villa di New Orleans.
Quando il pranzo volgeva ormai al termine, George entrò nella sala da pranzo per annunciare:
- L’avvocato Courtney è arrivato, William.
- Bene, George. Fallo accomodare nello studio, lo raggiungiamo subito.
L’avvocato doveva eseguire le formalità relative alla lettura del testamento della zia Elroy. Albert, Archie, in rappresentanza del ramo Cornwell, e il sig. Legan lo raggiunsero nello studio.
Louis e Neal si ritirarono immediatamente nella sala da fumo e Vincent uscì, diretto al giardino delle rose, luogo della memoria delle persone più importanti della sua vita. Prima che Sarah e Iriza potessero dare fuoco alle polveri, Annie si alzò e rivolgendosi all’amica disse:
- Candy, vado a vedere se i gemelli si sono svegliati, vuoi venire con me?
Le due ragazze si alzarono, lasciando madre e figlia in sala da pranzo, immerse nella loro attività preferita: commentare la toletta delle dame intervenute al funerale di quella mattina.

- Oh mio Dio… mi ero dimenticata quanto potesse essere difficile stare in loro compagnia! Come ho fatto a sopravvivere in casa loro? – sbuffò Candy sprofondando nella sedia a dondolo della nursery di Polly e Stear.
- Infatti pur di non stare con loro hai preferito andare a dormire nelle stalle, Candy! – rispose Annie, e le due ragazze scoppiarono a ridere.
Il tempo aveva esorcizzato in parte i tristi ricordi dell’infanzia in casa Legan e Candy riusciva a guardare a quella parte del suo passato con disincanto adesso, come ad un pezzo della sua esistenza che era servita a fare di lei ciò che era diventata.
- Candy, come stanno Miss Pony e Suor Maria? Non le vedo da Natale.
I lineamenti di Candy si ammorbidirono in un’espressione di profonda dolcezza, come ogni volta che pensava alle sue due mamme e alla vita serena e rassicurante che conduceva con loro alla casa di Pony.
- Bene Annie, sono sempre uguali a loro stesse. All’inizio dell’anno abbiamo ricevuto in affidamento un bambino molto piccolo, ha solo pochi mesi. Lo abbiamo chiamato Simon ed è diventato la mascotte della casa. Adesso ci sono 18 bambini di varie età. Suor Maria dirige come un vero colonnello asburgico le squadre che stanno ristrutturando l’ala est e la cappella, dovresti vederla! Miss Pony finge come sempre di mantenere la disciplina a suon di ramanzine, ma in realtà è talmente facile ottenere il suo perdono… come è sempre stato!
- Per te, Candy, che non avevi mai paura di niente! A me bastava che mi guardasse al di sopra dei suoi occhiali per sciogliermi come neve al sole.
Candy chiuse gli occhi e sorrise, rivedendo due bambine di sei anni correre sui prati della collina di Pony, e un gruppo di anatroccoli legati l’uno all’altro con lo spago insieme alla loro mamma.
- Sai Annie, se chiudo gli occhi mi rivedo ancora lì insieme a te e Tom…
- A proposito di Tom – la interruppe Annie con tono preoccupato – si sa niente di lui? La guerra è finita ormai da due mesi.
Le due ragazze avevano sempre considerato Tom come un fratello maggiore, anche se era stato il primo a lasciare la casa di Pony, adottato da uno dei maggiori allevatori di bestiame della zona, il signor Stevenson. Tom era partito per il fronte nel 1917, proprio all’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto, e si era distinto nelle ultime battaglie sulla Marna e sulla Somme, tanto da aver meritato la promozione a sergente e una medaglia al valore. Si era sempre tenuto in contatto con il padre e con la casa di Pony, il cui legame per quei ragazzi che vi erano cresciuti, accuditi dalle amorevoli cure di Miss Pony e Suor Maria, era impossibile da spezzare.
- Sì, Annie. Abbiamo ricevuto una sua lettera a capodanno. Sarà congedato e di ritorno entro la primavera!
- Sia ringraziato il cielo. Non avrei sopportato un’altra perdita per colpa di questa guerra tremenda – esclamò Annie ed entrambe si ammutolirono nel ricordo del loro amato Stear, una ferita ancora sanguinante nel cuore di tutti. Il flusso dei pensieri fu lineare ed identico per le due amiche e le portò immediatamente a pensare a Patty.
Con grande fatica e coraggio, Patty si era ripresa lentamente dalla disperazione senza luce in cui era piombata dopo la morte di Stear. Trascorso un periodo in Florida che le aveva consentito di riprendere le forze e raccogliere i frammenti della sua vita andata in pezzi con la morte del ragazzo che amava con tutta se stessa, si era trasferita a New York, dove aveva completato gli studi brillantemente compiuti alla St. Paul School, frequentando un master in sociologia. Era quindi entrata nell’entourage di una delle famiglie più impegnate politicamente e socialmente degli Stati Uniti. Era infatti stata assunta nel gruppo delle più strette collaboratrici di Eleanor Roosevelt, moglie di uno dei leader del partito democratico, Franklin Delano Roosevelt, l'attuale vicesegretario alla Marina nel governo del presidente Wilson. Eleanor era una delle più impegnate attiviste per i diritti umani del paese, a capo di moltissime associazioni sparse in tutta la nazione, e i suoi interessi spaziavano dal voto alle donne alle politiche sociali a favore dei meno abbienti.
- Si è trasferita a Washington – disse Annie e non ci fu bisogno di fare il nome della comune amica, a cui le legava un filo invisibile fin dai tempi della Royal St. Paul School.
- Sì, pare che il suo lavoro le piaccia molto e le sue lettere trasudano ammirazione per Eleanor Roosevelt e per suo marito. Sapevamo che la nostra Patty, tra noi tre, sarebbe stata quella che avrebbe fatto grandi cose nella vita!
- Ma anche tu, Candy… chi avrebbe mai potuto pensare, vedendoti declamare balbettando i versi di Molière nella nostra aula di francese, che un giorno saresti stata un'insegnante! – sorrise Annie.
- Annie, ti prego, io non sono un’insegnante! I bambini della casa di Pony dovranno avere dei veri istitutori un giorno, quando i lavori saranno terminati e potremo inaugurare la scuola!
- Ma intanto hai fatto e stai facendo uno splendido lavoro con loro, Candy, davvero! Sono molto orgogliosa di te… anche se questo ha significato seppellirti viva tra i campi dell’Indiana.
Candy represse un sorriso divertito. Era una discussione che avevano fatto molte volte. Di solito Annie la prendeva alla larga, come in quel caso, per arrivare regolarmente a cercare di convincere Candy a tornare a Chicago e vivere la vita di una normale ventenne, anziché il volontario eremitaggio a cui si era votata negli ultimi due anni e mezzo.
- Annie…
- No Candy, lasciami parlare, ti prego. Stavolta non ti dirò nulla circa le gioie della vita sociale di Chicago e sulla necessità di aggiungere qualche capo ai ben tre abiti che tieni orgogliosamente appesi nel tuo guardaroba, traboccante invece maglioni e pantaloni…
Annie trasse un respiro e si fece forza per affrontare l’argomento che aveva cercato invano l’occasione giusta per aprire nell’ultimo anno. In passato aveva osato accennarne solo una volta e solo per lettera, avendo sempre rispettato la discrezione dell’amica e la sua scelta di vivere in solitudine il proprio dolore
- Candy, non darmi dell’impicciona, ti prego, ma… ti voglio troppo bene e da troppo tempo ti vedo soffrire, anche se hai sviluppato una particolare abilità nel nasconderlo a tutti noi. E’ passato più di un anno, ormai. Non credi che potresti provare a metterti in contatto con lui? Ciò che vi ha tenuto separati in questi anni, oltre alla tua cocciuta volontà di non riconoscere che per voi potessero esservi possibilità alternative alla vostra separazione, oggi non esiste più. A differenza dei tuoi sentimenti per lui, che vedo ancora farti star male come il primo giorno. Perché? Perché non torni da lui e non provate a ricominciare da dove vi siete interrotti? C’è un’alternativa a tutto questo dolore, Candy. C’è! Devi solo avere la forza di vederla e il coraggio di cogliere la seconda opportunità che la vita ti offre! A te il coraggio non è mai mancato…
Candy fissava Annie negli occhi e, nonostante il turbamento per le parole che l’amica le rivolgeva, e che toccavano i nervi più scoperti della sua anima, non poté fare a meno di provare stima e ammirazione per la donna forte e matura che era diventata la sua pavida compagna di giochi dell’infanzia, terrorizzata dalla propria ombra. Meritava una risposta sincera, anche se dargliela significava scavare nei più profondi recessi del proprio dolore.
- Il coraggio non mi è mai mancato, Annie? Certo, se parli del coraggio necessario ad arrampicarmi su un albero o ad imbarcarmi clandestinamente su una nave per tornare in America! Il coraggio quando si tratta di mettere a repentaglio la mia incolumità fisica o di aiutare gli altri a trovare il proprio. Ma la mia incolumità emotiva? Dov’era il mio coraggio quando è morto Anthony e ho vissuto per mesi paralizzata da un terrore sordo che solo grazie all’intervento di… Terry… sono riuscita a superare tanto tempo dopo? - Candy faceva ancora grande fatica a dare voce a quel nome che per lei significava amore perduto e speranze infrante. Dai giorni della separazione si contavano sulle dita di una mano le occasioni in cui ne aveva parlato, esclusivamente con Albert o Miss Pony e Suor Maria - E dov’era il mio coraggio quando tremavo di freddo e di paura dentro una cella di isolamento alla St. Paul School, e solo il suono di un’armonica dall’esterno mi ha dato la forza di andare avanti? O credi forse che fosse coraggio quello che ho dimostrato quella notte a New York? Oh, Annie, io non lo so più! Non so se è stato coraggio. In quel momento sentii di non poter fare differentemente e ho dovuto scegliere per tutti, ma la verità è che il peso di quella scelta mi sta uccidendo!
La voce di Candy era salita di intensità, accompagnando in perfetta sintonia l’escalation emotiva di quelle strazianti rievocazioni dei momenti più dolorosi della sua vita, fino a spezzarsi nel momento in cui ne riviveva il culmine, la separazione dall’uomo che per lei significava tutto. Candy distolse lo sguardo, passandosi una mano sul viso, in un gesto che faceva sin da bambina, per asciugare le lacrime che avevano cominciato a scorrerle sul volto.
Annie si precipitò da lei e si inginocchiò davanti alla sua sedia, prendendole le mani tra le sue.
- Candy! Oh come avrei voluto che mi tu mi avessi consentito di starti vicina in questo dolore quando sei tornata da New York!
- Avevo Albert a prendersi cura di me, cara. E non volevo gravare su di voi anche con i miei problemi in un momento così difficile. Stear si era appena arruolato, lo sai!
- Candy! Non esistono dolori di serie A e dolori di serie B! Noi avremmo voluto e dovuto starti accanto senza per questo nulla togliere alla preoccupazione per la partenza di Stear. Ma adesso che finalmente mi apri il tuo cuore, amica mia, posso dirti ciò che penso e che ti scrissi anche in quella lettera. Cara, sai bene che non condivido la tua rinuncia. Tu e Terence siete due anime gemelle, chiunque abbia respirato la magia che vibrava nell’aria quando eravate insieme non può avere dubbi su questo. Susanna ha fatto un grande dono a Terence, il dono della vita. Ma proprio per rispetto a ciò che vi era stato donato voi avreste dovuto celebrarla quella vita, quel dono, rendendola felice e appagata, degna di essere vissuta!
Annie stava dando voce alle peggiori paure di Candy. Non era il sacrificio della rinuncia all’uomo che amava con tutta se stessa a tormentare le sue notti e a rendere infiniti i suoi giorni, ma il terrore sepolto in fondo al cuore che la ragione principale per la quale aveva compiuto quel sacrificio, la felicità di Terence, non si fosse realizzata.
Alla sua, aveva rinunciato da tempo.
Aveva cominciato a nutrire i primi dubbi quando aveva letto il necrologio di Susanna su quel giornale poco più di un anno prima e aveva scoperto che, negli anni che erano seguiti al ritorno di Terence sulle scene, lui e Susanna avevano vissuto insieme ed erano stati lungamente fidanzati ma mai sposati… Possibile che una coppia felice non provasse il desiderio di coronare la propria unione con le nozze? Perché? Perché Terence non l’aveva sposata? Possibile che…?
- Terence ti amava, Candy. E sono assolutamente certa che se ha rinunciato a te, l’ha fatto in primo luogo perché è un uomo d’onore e in secondo luogo perché tu glielo hai chiesto. Non credi che forse lui stia solo aspettando che tu lo sciolga dalla promessa che gli hai strappato a New York?
- Da quella promessa l’ha sciolto la morte di Susanna, Annie. Non pensi anche tu che, se lui mi amasse ancora, in qualche modo sarebbe riuscito a mettersi in contatto con me, da allora? Che avrebbe trovato il modo di farmi sapere… se ancora ci apparteniamo?
Candy fissò Annie con gli occhi spalancati, simili a due enormi pozzi di giada, implorando in silenzio l’amica perché le fornisse le risposte che da quattordici mesi cercava dentro di lei.
- E tu non pensi, Candy, che forse in tutto questo tempo anche Terence può essersi posto le stesse domande che tu stai facendo a te stessa e a me? Tu gli hai chiesto, per la sua felicità, di restare accanto a Susanna. Lui l’ha fatto, e io spero sinceramente che non sia stato infelice in tutto questo tempo. Ma tu sai cosa è stato di lui in questi anni. Hai potuto seguire la sua carriera e quella di Susanna tramite i giornali. Lui cosa ha di te, se non il ricordo che gli hai lasciato quella notte e mille dubbi su ciò che può esserti accaduto in questi anni?
- Lui ha il mio cuore – rispose con foga Candy, mentre calde lacrime tornavano a solcarle il volto.
- Datevi una possibilità, Candy. Solo un’altra possibilità… lo devi a te stessa. Non voglio che continui a tormentarti in questa agonia senza fine e ormai priva di senso!
- Ho paura, Annie. Voltargli le spalle e andarmene quella notte è stata la cosa più difficile e dolorosa che abbia mai dovuto fare. E ciò che tu non sai è che ho dovuto rifarlo un’altra volta, un anno dopo, e in circostanze ancora più traumatiche.
Annie ascoltò senza fiato il racconto di come Candy avesse trovato Terence sul fondo del baratro nel quale era precipitato, e di come avesse assistito alla sua rinascita sulle travi scalcinate del teatro di Rocktown, scricchiolanti e scardinate esattamente come il suo cuore nel momento in cui aveva scelto di tenere fede alla parola data e di voltarsi senza avergli nemmeno parlato.
- …Senza potergli dire quel “ti amo” che mi urlava dentro, Annie! Per due volte ho avuto quella forza, ma non osare chiamarlo coraggio! E credo che la mia riserva si sia semplicemente esaurita. Se dovessi cercarlo solo per trovare un uomo diverso da quello che ho lasciato, o per vedergli voltarmi le spalle come io ho fatto con lui, ne morirei Annie. E ciò che peggio è che dentro di me sono convinta di non meritare niente di diverso!
Candy nascose il volto tra le mani, esausta, singhiozzando tutte le sue lacrime per il suo amore perduto, per il senso di colpa che la attanagliava da allora, per la solitudine a cui aveva condannato se stessa e per l’infelicità a cui forse aveva destinato l’uomo che amava più di ogni altra cosa.
Annie la abbracciò forte, straziata dal dolore di colei che amava come una sorella. Era come se confidarsi con lei avesse aperto una diga, attraverso la quale adesso fluivano le emozioni accuratamente tenute sotto chiave per anni.
-Ti prego, Candy, non fare così! Cerca di calmarti, ti prego. Andrà tutto bene! Non devi decidere adesso. Devi solo promettere a me, ma soprattutto a te stessa, che penserai a ciò che è successo e alla possibilità di cercare una seconda occasione di felicità!
Candy annuì, lievemente più calma ed enormemente alleggerita dall’avere condiviso il suo peso con l’amica del cuore.
Le due ragazze si fissarono finché il silenzio non fu rotto dal piccolo Stear che si svegliava dal pisolino e reclamava la sua mamma, singhiozzando disperatamente dalla sua culla. I suoi strepiti naturalmente svegliarono anche Polly, e Candy e Annie si precipitarono dai gemelli, rivolgendo loro tutta la loro attenzione. Candy si chinò sulla culla di Polly per prenderla in braccio e, nel farlo, urtò lievemente con la fronte un carillon appeso sopra il lettino. Alla base circolare dell’oggetto dalla artigianale fattura erano appesi pendagli di legno a colori vivaci, raffiguranti diversi animali. Candy osservò quello che aveva urtato. Raffigurava una buffa tigre stilizzata.
“Tigre. T-G.”
E improvvisamente fu alla St Paul School, intenta a scrivere con le dita su un vetro appannato dalla pioggia le iniziali di quel ragazzo che non riusciva a togliersi dalla mente e che già le era entrato nel cuore senza che lo sapesse, per non uscirne mai più. Patty l’aveva trovata così assorta nei suoi pensieri che aveva dovuto trovare una scusa per quelle iniziali tracciate sul vetro. Imbarazzata, le aveva detto la prima cosa che le era venuta in mente: che stava scrivendo la parola “tigre”. Ma Patty doveva aver capito tutto, perché l’aveva guardata con uno sguardo strano e si era allontanata sorridendo. Ancora adesso, a distanza di tutti quegli anni, provava la stessa sensazione di sbigottimento di fronte all’intensità delle emozioni che Terence aveva risvegliato con quella dolcezza solo a lei dedicata. Come quando le aveva letto brani di Shakespeare in riva a un lago; o quando aveva suonato per lei al pianoforte una ballata composta da lui stesso, dopo che avevano trascorso insieme davanti al camino ore di intimità sconosciute prima; o quando le aveva fatto compagnia e dato conforto tutta la notte suonando Annie Laurie con la sua armonica, scacciando la paura che l’attanagliava, separati da solide mura ma uniti dal loro filo invisibile. Ma lui sapeva anche ruggire come una tigre dal fascino pericoloso, come quando l’aveva trascinata a cavallo contro la sua volontà e le sue paure per farle superare il trauma della morte di Anthony, o quando aveva lottato disperatamente contro il mondo per salvarla dall’espulsione. Il suo Romeo. La sua tigre.
Il suo amore.
Dov’era adesso? Annie aveva ragione, poteva esserci ancora una possibilità per loro, nonostante il tempo e tutti gli errori che lei aveva commesso? Sarebbe mai riuscita a sussurrargli quel “ti amo” racchiuso finora solo nel suo cuore e tra le pagine del suo diario?


Oh, avere la voce di un falconiere
per richiamare a me quel mio falchetto reale!
Roca è la voce della clausura e non può farsi sentire,
se no saprei ben io forzar l’antro dove Eco riposa
e far la sua voce aerea più fioca della mia
a forza di ripetere il nome del mio Romeo!*



* Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 6/5/2013, 16:58
 
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Quando Candy ed Annie tornarono al piano di sotto si accorsero immediatamente che doveva essere accaduto qualcosa di molto grave. Ovviamente c’era una spaccatura: da un lato della stanza i Legan parlavano concitatamente tra loro e sembrava che Louis De Francois Vouilleres tenesse banco. Iriza aveva gli occhi brillanti e lo sguardo eccitato che fin da bambina era sempre stato possibile scorgerle sul volto quando dava sfogo ai suoi più malevoli istinti.
Dal lato opposto del grande salone, Archie aveva uno sguardo fiammeggiante e parlava con Albert e George, i quali lo ascoltavano in silenzio, annuendo con aria grave. Vincent era appoggiato al camino con una mano sulla fronte e sembrava affranto.
Candy non riusciva proprio a farsi un’idea di ciò che fosse potuto accadere. Si avvicinò ad Albert molto preoccupata e gli sussurrò:
- Cosa è successo?
Archie alzò lo sguardo angosciato e cercò con gli occhi la moglie, che immediatamente si precipitò al suo fianco.
Albert si volse verso Candy, gli occhi azzurri dolci come sempre, ma velati di tristezza… una tristezza diversa rispetto a quella che avevano dal giorno della morte della zia.
- Candy… Abbiamo dato lettura al testamento della zia Elroy e… si è verificato un fatto inaspettato.
- Inaspettato e rivoltante! – intervenne Archie. Annie gli strinse la mano, preoccupatissima.
- Cosa? Cosa è successo? Per favore, Bert, sto morendo dalla preoccupazione! - Lo supplicò Candy.
- Ti dico io cosa è successo, Candy. Voglio avere questo piacere per me! – Iriza intervenne con la sua voce sgradevolmente acuta dall’altro lato della stanza, avvicinandosi con movenze feline, come un gatto che stesse chiudendo nell’angolo il topo al termine di una lunga caccia.
Candy si voltò verso di lei e, prima che Albert potesse intervenire, Iriza sibilò con tutto l’odio accumulato in anni e anni nei confronti della ragazza che aveva scelto di disprezzare:
- Lakewood è nostra! La zia Elroy l’ha lasciata a mia madre e adesso è nostra. Questa non è più casa tua, come non lo è mai stata! E finalmente avrò il piacere di sbatterti fuori da qui personalmente!
Dritta al centro della stanza, gli occhi fiammeggianti per la rivalsa tanto agognata, Iriza scoppiò in una risata orribilmente sconcia, tanto più in considerazione del triste avvenimento di morte che faceva da cornice a quella riunione dall’esito talmente imprevisto.

- Ma com’è possibile, Bert? Lakewood non fa parte del patrimonio Andrew? Non dovresti esserne tu il titolare? Come è possibile che la zia Elroy abbia potuto disporne a suo piacimento?
Albert e Candy, avvolti nei loro caldi cappotti erano uno di fronte all’altro nel giardino delle rose, circondati dalle sfumature ramate di un tramonto che accendeva l’orizzonte con mille riflessi dal barbaglio dorato.
Candy era paralizzata dal terrore e dall’angoscia al pensiero che la villa di Lakewood, il luogo elettivo della sua infanzia, dei giorni felici con Anthony, Archie e Stear, delle rose Dolce Candy, della rivelazione dello zio William, fosse perduto. Il luogo presso il quale Rosemary, Anthony e Stear riposavano per sempre era caduto in mano alle persone che più la odiavano al mondo e, ciò che era peggio, sarebbe stato ceduto al ributtante marito di Iriza il quale, dopo la scioccante rivelazione della moglie di poco prima nella sala da pranzo, aveva palesato l’intenzione di trasformarlo in un resort di lusso!
- Purtroppo Lakewood faceva parte dei beni personali della zia, Candy, e non del patrimonio di famiglia. E’ il luogo in cui la zia è nata e sempre vissuta e mio padre alla sua morte ha voluto fargliene dono, certo che non l’avrebbe mai fatto uscire dai possedimenti di famiglia. E in un certo senso aveva ragione: lei l’ha lasciato a Sarah, la sua parente prediletta, forse pensando di attenuare in tal modo la delusione per avere assegnato l’interezza del patrimonio azionario a me, consolidando la mia leadership in seno alle aziende di famiglia. Di certo la zia non pensava che i Legan avrebbero anteposto meschini istinti di rivalsa personali allo spirito degli Andrew, e che Lakewood potesse così andare perduta… Purtroppo la sua incapacità di giudicare Sarah e la sua disgustosa famiglia l’ha accompagnata in tutti gli errori della sua vita fino a quest’ultimo, quello fatale.
- Oh Bert, è terribile! Lakewood, la nostra Lakewood, in mano a quegli individui che non l’hanno mai amata… No, peggio, in mano a quell’avventuriero che vuole trarne osceni guadagni, violentandola e facendola diventare un albergo! Non posso credere che la zia Elroy avrebbe potuto volere questo! – Candy era un fiume in piena e non capiva se la animasse più la forza della rabbia o quella delle lacrime di angoscia trattenute a stento.
- No di certo, Candy! Lei era legata a questi luoghi più di tutti noi, non avrebbe mai immaginato un simile epilogo.
- Ma non possiamo fare nulla? Non possiamo ricomprarla? Sono certa che quel bieco individuo dal nome impronunciabile non direbbe di no ad un buon guadagno! Per lui è solo un investimento.
- Per lui è solo un investimento, Candy, ma per Iriza e la sua famiglia rappresenta la vendetta per i torti che ritengono di avere subito da me in qualità di capofamiglia. Non me la rivenderanno mai! – disse Albert, più provato ancora di Candy al pensiero della profanazione che attendeva i luoghi della sua infanzia, di Rosemary, di tutto ciò che per lui avesse un senso di famiglia.
- E’ colpa mia! E’ solo colpa dell’odio di Iriza nei miei confronti!
- Piccola, non dire sciocchezze. E’ colpa dell’oscura deviazione del sangue che scorre nelle vene di Sarah e di ciò che ha causato in lei e nei suoi figli, purtroppo. Per quanto abbia cercato di comprenderli e perdonarli più volte, non c’è speranza per loro e forse avrei dovuto essere più duro fin dall’inizio. Ma ciò non avrebbe cambiato nulla riguardo a Lakewood e alle decisioni della zia. A suo modo probabilmente ha ritenuto di essere stata equa, e in un certo senso lo è stata.
Caro Albert, sempre pronto a capire, a perdonare, a trovare un bandolo alle matasse più aggrovigliate. Candy si sentì avvolgere dalla dolcezza che sempre sapeva trasmetterle, anche se non riusciva a liberarsi da quella morsa di malinconia che la attanagliava al pensiero di dire addio a quei luoghi.
- Tutto cambia, lo so. E bisogna dire addio ai posti ai quali siamo stati legati, oltre che alle persone. Bert, cosa avverrà del personale di servizio? Stewart, il signor Whitman e tutti gli altri? Resteranno a lavorare qui, nel resort di Louis? – Candy pronunciò la parola “resort” mettendoci dentro tutto il disprezzo per quel progetto che avrebbe distrutto tutte le sue memorie di quei luoghi.
- Credo che i Legan abbiano intenzione di portarli con loro in Florida per lavorare laggiù nelle loro strutture. Pare che abbiano difficoltà a trovare personale fidato.
- Chissà come mai… - commentò Candy con disgusto.
Albert la guardò e si chiese se fosse il momento giusto per affrontare l’argomento che gli stava a cuore.
- Piccola, perché non proviamo a guardare a quello che è successo come ad un segno? – le chiese con il suo straordinario, rassicurante sorriso.
Candy si chiese, non per la prima volta, se c’era mai stato un periodo della sua vita in cui non aveva confidato nel sostegno di quel sorriso.
- Cosa vuoi dire, Bert? – la ragazza alzò lo sguardo verso gli occhi trasparenti di lui, incuriosita dalle sue parole.
- Ecco, è da un po’ che volevo parlarti di un mio progetto, ma prima voglio sapere se ti senti pronta a lasciare la casa di Pony e la clinica del dottor Martin per un certo periodo.
- Anche tu come Annie non vedi l’ora che io mi tuffi nella vibrante vita sociale di Chicago, facendo il mio tardivo debutto in società? – chiese Candy perplessa. Albert aveva sempre rispettato la sua scelta e non le aveva mai fatto pressioni per tornare a Chicago, era molto stupita da quella premessa.
- No, Candy, non stavo pensando a Chicago. Ma non ho potuto fare a meno di notare che nell’ultimo anno la tua apparente quiete a La Porte è stata messa a dura prova da pensieri e ricordi che sempre più spesso producono questa rughetta al centro della fronte quando l’aggrotti, come in questo momento! - Albert le sfiorò con dolcezza il viso, in una carezza delicata tra le sopracciglia, e Candy sorrise.
Albert si era accorto che qualcosa non andava, come sempre. Sapeva cosa lei provasse senza bisogno di chiedere nulla.
- Un cambiamento..
- Sì, piccola! Che ne diresti di venire a Washington con me?

_______________________



Washington D.C.
8 marzo 1919.


La cosa che più elettrizzava Candy di Washington era viaggiare in tram!
La deliziava salire alla fermata davanti alla loro villetta di Logan Circle e girovagare per la città sopra quegli sferraglianti trenini che, per stabilità e simpatia, gli ricordavano le automobili costruite da Stear. Non rischiava certo di perdersi, visto che la città aveva una rigida pianta a reticolato divisa in quadranti che partivano dal Campidoglio. E grazie ai suoi pellegrinaggi senza meta stava imparando a conoscere quella capitale in grandissima espansione, anche se era lì soltanto da tre settimane.
Proprio in quegli anni Washington attraversava il City beautiful movement, la grande opera di ampliamento che in breve tempo l’avrebbe portata ad avere un aspetto più grande, moderno e scintillante. Candy era molto incuriosita dal fatto che la capitale degli Stati Uniti, a differenza di New York e Chicago che in quegli anni avevano iniziato ad espandersi verso l’alto con i loro grattacieli, avesse invece scelto un profilo urbano differente, con palazzine e villette di altezza limitata. Albert le aveva spiegato che si trattava di una precisa scelta della municipalità e che per legge lo skyline di Washington non poteva superare un certo limite. La cosa le dava un senso di familiarità, ricordandole l’amata La Porte. Questo almeno finché non levava lo sguardo verso il palazzo del Campidoglio, naturalmente, o al monumento a George Washington piuttosto che alla maestosa Casa Bianca, o all’incredibile Lincoln Memorial, in costruzione proprio in quegli anni e che prometteva di diventare l’ennesimo simbolo di una città e di una nazione che rivendicavano con orgoglio la propria grandezza e la propria vocazione alla libertà e alla “ricerca della felicità”, come avevano affermato i visionari Padri Fondatori.
Candy era rimasta molto sorpresa quando Albert le aveva raccontato di come, durante gli anni della guerra, la Andrew Enterprises avesse stretto rapporti di fornitura sempre più stretti con il governo americano. Niente armi, l’aveva rassicurata, ma la maggior parte delle divise dell’esercito statunitense erano prodotte nelle industrie tessili degli Andrew sparse tra l’Illinois e l’Indiana; e soprattutto, la stragrande maggioranza di forniture alimentari di mais per i vettovagliamenti delle truppe provenivano dalle coltivazioni degli Andrew in Messico. Albert in quei mesi si era quindi recato molto spesso a Washington per discutere dei suoi legami imprenditoriali con il governo federale, ed aveva avuto modo di stringere rapporti con il presidente e alcuni dei suoi più stretti collaboratori, come il Segretario di stato Robert Lansing e il sottosegretario alla marina Franklin Delano Roosevelt. Nel dicembre precedente, prima di partire per Parigi per partecipare alla conferenza di pace di Versailles, Woodrow Wilson aveva contattato diversi giovani imprenditori particolarmente brillanti, tra cui William Albert Andrew, per chiedere loro di collaborare al programma federale di ripresa post-bellica con vari incarichi in agenzie governative.
Quando aveva deciso di accettare, Albert aveva subito pensato che era proprio il cambiamento di cui Candy aveva bisogno …e inoltre lui aveva assoluta necessità di una dama che lo accompagnasse nelle sfavillanti occasioni mondane della prossima season nella capitale, lei non voleva certo lasciarlo da solo alla mercé delle cacciatrici di dote, no?
Candy aveva esitato solo per qualche giorno. La morte della zia Elroy, la chiacchierata con Annie e la dirompente notizia della perdita di Lakewood avevano gettato dentro di lei le radici di un fermento interiore, come se sentisse giunto il momento di andare incontro al suo destino, anziché attenderlo alla casa di Pony. Tre anni prima il suo cuore sanguinante e la sua anima provata avevano trovato tra le familiari alture della casa di Pony e nel dolce abbraccio delle sue due madri il balsamo che anelavano. Ma i suoi sentimenti urlavano ancora dentro di lei e non poteva più ignorarli. Aveva bisogno di riflettere e capire cosa fare, come aveva promesso a Annie, e un cambiamento era ciò che le serviva nel frattempo. Soprattutto, sentiva la necessità di andare lontano da Lakewood per non assistere allo scempio di tutti i suoi ricordi d’infanzia.
Come aveva previsto Albert, i Legan avevano costretto la servitù in forza alla villa a trasferirsi in Florida con loro, sotto minaccia di licenziare in tronco chi si fosse rifiutato.
Prima di partire il sig. Whitman, con le lacrime agli occhi, aveva fatto tutta la strada fino alla casa di Pony per consegnare a Candy le piantine delle rose Dolce Candy, amorosamente tratte dal giardino di Anthony, affinché potessero continuare a vivere sulla collina, anziché perire in ciò che sarebbe diventata Lakewood. Con le lacrime agli occhi e il cuore straziato, Candy lo aveva aiutato a trapiantarli nel giardino dell’orfanotrofio, promettendo nel suo cuore ad Anthony che ne avrebbe fatto il nuovo “giardino delle rose”.
Il dottor Martin aveva immediatamente confermato che si sarebbe organizzato per l’assenza di Candy e, nonostante quest’ultima lo avesse più volte rassicurato che dopo l’estate sarebbe tornata a casa, aveva già iniziato una proficua collaborazione con Molly Ridgeway, piacente vedova sui cinquant’anni con un diploma da infermiera e, probabilmente, qualche attrattiva in più oltre a quelle strettamente curriculari, che aveva indotto il dottor Martin ad assumerla subito.
Miss Pony e Suor Maria, che avevano visto giorno dopo giorno nell’ultimo anno intensificarsi quella vena di malinconia che Candy celava dentro di sé fin dal suo ritorno tra loro, e che ne conoscevano perfettamente l’origine, erano state entusiaste e grate ad Albert per l’occasione che si era presentata e avevano facilmente vinto uno per uno tutti i dubbi che Candy aveva saputo tirar fuori in successione: sì, erano sicure di riuscire a cavarsela da sole, come avevano fatto negli ultimi 18 anni prima del ritorno di Candy e no, non avrebbero avuto nessun problema ad occuparsi loro dell’istruzione dei più grandicelli finché non avessero trovato una vera maestra disponibile a prestare servizio da loro. Certo, avrebbero scritto frequentemente e se ci fosse stato qualunque problema glielo avrebbero fatto sapere subito e, assolutamente, non pensavano che fosse egoista da parte sua andarsene mentre la casa era in ristrutturazione.
E così Candy era partita, stringendo tra le mani la croce della felicità di Miss Pony, alla cui catenina da qualche anno aveva aggiunto un minuscolo ciondolo di zaffiro, acquistato a Chicago al suo ritorno da Rocktown e che portava sempre con sé, quale simbolo di tutte le parole non dette e sepolte nel petto su cui poggiava, parole che non aveva mai potuto pronunciare guardando nella profondità di due occhi dello stesso colore di quella pietra preziosa e luminescente.
Albert aveva affidato la guida dei suoi affari a Chicago ad Archie ed a George e, una volta giunto a Washington, si era tuffato in un fitta serie di colloqui e incontri preliminari con i collaboratori del presidente Wilson, personalmente invece impegnato in quelle settimane sul fronte della politica estera nella sua battaglia per la fondazione della Società delle Nazioni.
Era intenzione di Albert sviluppare una rete di assistenza per il reinserimento dei reduci dalla guerra, che ne favorisse il reintegro nel mondo del lavoro e della società. Poteva contare sulla sua vasta esperienza filantropica e sulla rete di associazioni patrocinate dagli Andrew sparse in tutta la nazione come base. Albert credeva fortemente che la sua idea potesse diventare un modello da proporre come base per la realizzazione di uno “stato sociale” come gli piaceva definirlo, un canale di supporto che però non fosse semplicemente assistenzialistico, bensì finalizzato a rendere produttivi milioni e milioni di persone che, altrimenti, sarebbero state solo un peso per la società. In seno alla cerchia dei più stretti collaboratori di Wilson aveva trovato appoggio e comunanza di interessi e intenti nel giovane sottosegretario alla Marina, ed ex senatore dello stato di New York, Franklin Delano Roosevelt, un ambizioso trentasettenne, appartenente ad una delle più eminenti famiglie politiche degli Stati Uniti, che vantava già un Presidente nel proprio albero genealogico e che rappresentava l’ala più radicale in seno al governo Wilson. Si incontravano spesso per discutere dei loro progetti e stavano saldando un rapporto di amicizia che andava oltre gli interessi professionali.
Candy seguiva poco i dettagli dell’impegno politico di Albert, più preoccupata dal fronte sanitario del dopoguerra che, con il rientro di ondate di soldati feriti e mutilati dal fronte e la coda della devastante epidemia di influenza, stava avviandosi a diventare la vera emergenza del paese.
Si teneva in contatto con il comitato della Croce Rossa Locale e due pomeriggi alla settimana prestava opera di volontariato come infermiera in un centro di assistenza medica per indigenti, la Community of Hope.
A Washington Candy aveva poi ritrovato Patty, ed era proprio per pranzare con lei in quella assolata mattina non ancora primaverile, ma che lasciava presagirne l’arrivo non troppo lontano, che si trovava al National Mall, uno dei suoi luoghi preferiti in quella elettrizzante città, dove si erano date appuntamento di fronte al monumento a George Washington. Dietro suggerimenti conditi da urla e strepiti di Annie, Candy era stata costretta ad ampliare il suo ridotto guardaroba e, lasciati nell’Indiana maglioni over-size e pantaloni di lana, prima della partenza aveva subito un vero e proprio sequestro di persona che l’aveva vista insieme all’amica razziare le boutiques più alla moda di Chicago, alla ricerca di abiti e accessori adeguati alla vita nell’elettrizzante centro della Nazione, nota per i salotti ricercati e i ricevimenti sfarzosi, nei quali venivano passati sotto la lente d’ingrandimento tanto le righe piccole dei trattati internazionali in discussione a Versailles, quanto la conformità all’ultima moda dell’abbigliamento sfoggiato dalle signore. Candy aveva adottato uno stile sobrio e raffinato, e quel giorno indossava un classico abito dalle tipiche linee sciolte che avevano sostituito le elaborate impalcature di fine ottocento, con l’orlo che le sfiorava i polpacci in una morbida serica carezza. Era di un delicato color pesca, arricchito solo da una fusciacca bassa in vita di raso color crema, morbidamente annodata e con le code svolazzanti da un lato. La tenuta era completata da un soprabito leggero, dello stesso colore dell’abito, da scarpette décolleté di vernice con il cinturino, e da un cappellino a cloche dello stesso colore della cintura, calato fino agli occhi sui capelli biondi, come imponeva la moda del momento e come le aveva insegnato Annie durante pomeriggi interi di lezioni sul tema: “l’importanza degli accessori”.
- Candy!!!
Candy si voltò nella direzione da cui proveniva la voce che l’aveva chiamata e sorrise vedendo avvicinarsi a lei a passo veloce la sua amica Patty, in versione perfetta flapper girl.
Il cambiamento di Patty dai giorni bui della morte di Stear era stupefacente. Patty aveva attraversato l’inferno e ne era venuta fuori con la forza di un carattere e di una personalità che negli anni dell’adolescenza erano dentro di lei, ma che avevano avuto purtroppo bisogno di scontrarsi con l’immane disgrazia che l’aveva colpita per venire alla luce.
Giorno dopo giorno in Florida aveva risalito la china del dolore e, pur senza mai rassegnarsi al destino che le aveva strappato Stear, era riuscita a scendere a patti con esso. Di fronte alla scelta se affondare o riemergere, Patty aveva scelto la vita e l’aveva scelta con una forza e una determinazione nelle quali i suoi più cari amici avevano visto un tributo alla memoria del suo dolce ragazzo.
Aveva ripreso gli studi nei quali aveva sempre eccelso e, da quando aveva cominciato a lavorare alle dipendenze di Eleanor Roosevelt, aveva scoperto la gratificazione di svolgere un’attività appagante e per la quale essere stimate.
Ma il cambiamento più rivoluzionario era nell’aspetto. Abbandonate la goffaggine, gli occhiali enormi, e quella patina di timidezza che ne appesantiva le movenze e la faceva sentire fuori posto in ogni circostanza, Patty era sbocciata in una meravigliosa giovane donna. I capelli erano tagliati in un tributo alla moda, un caschetto corto e con una frangia sbarazzina, sottolineato da una cloche blu pavone. Indossava un abito all’ultimo grido in stile marinaro bianco e blu, ingentilito da un nastro sulla scollatura quadrata e da un soprabito in tinta. Aveva tra le braccia una cartella con dei documenti di lavoro e una borsetta blu. Ma soprattutto, aveva una scintillante luce negli occhi, esaltati anziché coperti da occhiali piccoli e discreti, che nulla toglievano alla sua grazia. Luce che costituiva il più prezioso degli accessori, come avrebbe detto Annie a conclusione di una delle sue lezioni.
Candy era orgogliosa di ciò che l’amica era riuscita a realizzare, partendo dal suo dolore. Le sembrava che riuscire a sbocciare in tal modo fosse il più grande atto d’amore che avrebbe mai potuto compiere per la memoria del suo amato Stear.
- Patty, ciao! – Candy agitò una mano in direzione dell’amica e si precipitò verso di lei, abbracciandola con l’impeto e la spontaneità degli anni dell’adolescenza che avevano condiviso.
Le due ragazze si abbracciarono e poi cominciarono a passeggiare lungo i viali del parco, dirette a un chiosco di bevande presso una panchina, dove si sedettero, bevendo del succo di mela e chiacchierando serratamente, godendo della semplice compagnia dell’altra, come avviene solo tra persone che hanno un intenso passato condiviso.
- Meno male, ce l’ho fatta, Candy! Temevo che le lettere da trascrivere per Mrs. Roosevelt non terminassero mai… Devo andar via prima della chiusura dell’ufficio postale, se voglio fare in tempo a spedirle - gli occhi di Patty, in netto contrasto con le sue parole, esprimevano eccitazione e entusiasmo.
- Patty, tu adori il tuo lavoro, ammettilo!
Patty aprì il volto in un sorriso che la illuminò e rispose:
- Oh Candy, tu non hai idea di che donna meravigliosa lei sia… così energica e appassionata! Pare che non vi sia causa civile per la quale non si batta, dal voto alle donne alla lotta all’indigenza, fino alle campagne per l’alfabetizzazione! E’ nata in una famiglia privilegiata, eppure è capace di guardare sempre verso il basso a chi sta peggio, anziché chiudersi nel suo castello dorato. E sai, Candy? non ho mai visto una tale devozione come quella del marito per lei. Non si tratta solo di amore, ma di vera stima reciproca e di condivisione di ideali! Un giorno spero anch’io di provare la stessa comunione totale con il mio compagno di vita!
Qualcosa nel tono di Patty fece accendere una lampadina nella mente di Candy. Era la prima volta, sia nelle sue lettere sia nelle frequenti conversazioni che avevano avuto dal suo arrivo a Washington, che Patty le accennava alla possibilità di un legame affettivo dopo Stear. Sembrava che quel capitolo della sua vita fosse chiuso e che tutte le sue energie fossero state dedicate allo studio, prima, e al lavoro poi. Con un’intuizione repentina, Candy fece correre lo sguardo alla mano sinistra di Patty, e non fu sorpresa di scorgere all’anulare un anello d’oro bianco impreziosito da un solitario discreto ma elegante.
- Patty! – urlò entusiasta Candy, lanciandosi verso di lei e facendo così traboccare dal bicchiere il succo di mele, che si sparse dappertutto sul suo bel vestito e su quello di Patty. Incurante del disastro, agguantò il polso all’amica e le sollevò la mano per mettere in mostra l’anello.
Patty arrossì di colpo e sembrò per un attimo di vedere riaffiorare la timida fanciulla della St. Paul School.
- Oh Candy, sei impossibile! Avrei voluto dirtelo io!
- E allora dimmelo, Patty, cosa aspettavi? Oh mio Dio, come sono eccitata… chi è? Lo conosco? Avete fissato la data delle nozze? Cielo! Dobbiamo scrivere immediatamente ad Annie, impazzirà all’idea di non essere qui. Patty, insomma, vuoi parlare? Chi è? - Candy era un fiume in piena e si tratteneva a stento dal saltellare per l’eccitazione attorno alla panchina su cui erano sedute, richiamando l’attenzione dei visitatori del parco, in gran parte balie con le carrozzine e giovani coppie composte da ambiziosi impiegati governativi e segretarie dall’aspetto civettuolo che, in pausa dal proprio lavoro, approfittavano di quella giornata che prometteva primavera per abbandonarsi alla deliziosa arte del corteggiamento. La luce e l’entusiasmo della vecchia Candy erano tornati a splendere, riportati alla vita dall’immensa gioia per l’amica.
- Candy – rispose Patty timidamente – se mi lasci parlare ti spiego tutto!
Le due ragazze sorrisero, e quindi Candy si accinse ad ascoltare il racconto di Patty.
- Si chiama Harold T. Clement ed è un lontano cugino dei Roosevelt. Ci siamo conosciuti l’estate scorsa: venne qui a Washington per un tirocinio estivo presso Mr. Roosevelt. Sai, studia giurisprudenza ad Harvard e desidera intraprendere la carriera politica… Beh, ci siamo frequentati durante la sua permanenza ed è stato il mio cavaliere ad alcuni balli nella scorsa stagione, abbiamo conversato a lungo e di tante cose: dei suoi studi, del mio lavoro, dei nostri progetti per il futuro… Quando è tornato ad Harvard in autunno abbiamo preso a scriverci frequentemente. E’ un ragazzo così… buono, Candy – nel parlare di lui, Patty aveva uno sguardo felice ma serio e composto, dal quale trasparivano solidi sentimenti per il ragazzo di cui si era innamorata, piuttosto che una passione bruciante ed effimera. Usò il semplice aggettivo “buono” riempiendolo di tutti i significati più profondi e puri che potesse contenere una parola. Candy ne fu affascinata – E’ composto e quieto, ma con le idee molto chiare sul suo futuro. Entrerà nello staff di Mr. Roosevelt, dopo la laurea, e collaborerà con lui; è convinto che suo zio diventerà presidente un giorno, e ne sono convinta anch’io, Candy, perché è un uomo talmente straordinario! Insomma, Harold da una settimana è qui da noi per le vacanze di primavera e…oh Candy ieri sera mi ha chiesto di sposarlo!
Patty abbassò lo sguardo sognante all’anello che brillava al suo anulare e Candy si sentì piena di gioia pura per la sua amica. Era così felice e gli occhi le splendevano d’amore mentre parlava del suo Harold. La stessa luce che vi era brillata in passato per Stear.
“Si può andare avanti. Si può tornare ad amare. Anch’io dopo la morte di Anthony pensavo che non sarei mai più riuscita ad aprire il mio cuore. E invece è giunto il mio Terry e lo ha spalancato di nuovo, con la potenza di una tigre e l’armonia di una melodia d’armonica, inondandomi con la sua luce e il suo calore… Facendomi capire il vero significato della parola amore.”
- Patty, sei impossibile! – esclamò, cercando di ricacciare indietro le lacrime e di non rovinare con la sua malinconia quel momento di immensa felicità - Perché non ci hai scritto nulla di questo corteggiatore nelle tue lettere? Parlavi solo di lavoro e dei Roosevelt e… insomma di tutto tranne che di lui!
Patty abbasso lo sguardo, improvvisamente pensierosa, e sospirò lievemente prima di rispondere a quella domanda che faceva leva sui nervi più scoperti del suo essere.
- Oh Candy. All’inizio non pensavo che fosse nient’altro che una simpatia. Sai, non sono abituata ad avere quel genere di attenzioni da parte dei ragazzi…
“Una volta forse” pensò Candy “prima di sbocciare in quel modo straordinario!”
– E poi – riprese Patty - quando divenne evidente che tra me e Harold stava nascendo qualcosa di più dell’amicizia, sono stata tanto confusa. Io… io non ho mai dimenticato Stear, Candy. In qualche modo è ancora qui, nella parte più nascosta del mio cuore. E’ lui che mi ha fatto conoscere l’amore. Grazie a lui sono uscita dal guscio di paure in cui mi ero barricata, esattamente come Julie nella sua corazza. Il dolore per la sua morte è stato devastante, lo sai… temevo davvero di non poter sopravvivere senza di lui: la mia roccia, il mio porto. La persona che aveva portato una perenne allegria nella mia vita, prima così solitaria e malinconica. Mi sembrava che non avrei mai più potuto sorridere. E invece Harold.. – continuò Patty, seguendo il filo dei pensieri ai quali dava voce per la prima volta con l’unica persona al mondo che sapeva avrebbe capito senza alcuna esitazione – non inventa strani e meravigliosi macchinari per far ridere le persone, ma ha lo stesso idealismo che ha portato il nostro Stear in quel maledetto campo di battaglia… e il senso di serenità e amore che mi trasmette con la sua personalità equilibrata e onesta è esattamente quello che provavo vicino a Stear. Non credo che potrebbe essere così se ci fosse qualcosa di sbagliato, non pensi, Candy?
- Patty – Candy guardò l’amica e le prese le mani, commossa fino alle lacrime per quelle emozioni che stava condividendo con lei in modo tanto sentito – non devi pensare neanche per un momento che vi sia qualcosa di sbagliato nel farsi abbracciare di nuovo dall’amore. Stear ti ha amato moltissimo e tu lo hai amato altrettanto. E’ stato un grande amore, che vi ha fatto crescere e che ha reso meravigliosa la sua vita. Adesso lui non c’è più, ma l’amore che avete condiviso vivrà per sempre dentro di te. Proprio come ha detto il mio Anthony…
“Come le rose una volta appassite rifioriscono più belle di prima, anche le persone una volta morte rivivono per sempre nel nostro cuore…”
Patty piangeva, adesso. Lacrime di gioia perché la sua amica capiva. Lacrime di tristezza per il suo amore perduto. Lacrime di speranza per il suo amore futuro.
- Patty, vivi il tuo amore e sii felice. Le seconde opportunità sono preziose, non sempre il destino ce le offre… - Candy si interruppe.
Patty fissò Candy, sentendo come se li provasse lei stessa la malinconia e il rimpianto della sua amica, alla quale voleva bene come ad una sorella, essendo stata la prima persona nella sua vita ad offrirle amicizia sincera ed a farle cominciare a vivere veramente la sua vita.
- Sì, Candy. Le seconde opportunità sono preziose. A volte arrivano in modo inaspettato – Candy capì che Patty adesso non parlava più di se stessa – e a volte la cosa più difficile è riconoscerle…

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 5/5/2013, 17:28
 
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A casa quella sera, dopo aver passato il pomeriggio alla Community of Hope, Candy fece una doccia e scese a cena con Albert, al quale aveva raccontato le meravigliose novità su Patty, che si sarebbe sposata il successivo autunno. Albert, a sua volta, le aveva raccontato lo stato di avanzamento dei suoi progetti a Washington.
- Franklin D. è veramente il miglior partner in questa avventura, Candy. E’ un uomo dal carisma eccezionale. Sta già cominciando a muovere le sue leve per raccogliere al Congresso la maggioranza che ci serve. La mia idea di “Stato Sociale” lo ha affascinato e incuriosito ed è completamente al mio fianco, anche con idee originali e personali per ampliare il progetto e farne un programma politico forte... Lui pensa a un vero e proprio “Patto” con la nazione!
Candy era abbastanza estranea ai meccanismi della politica e le sembrava che una cosa talmente etica come dare assistenza ai più deboli non dovesse nemmeno essere oggetto di discussione e contrattazione. Ma era affascinata dall’entusiasmo che leggeva negli occhi del suo caro Albert, un fuoco che non vi vedeva dai tempi dei suoi vagabondaggi erranti alla scoperta del mondo. Adesso aveva intrapreso un nuovo viaggio, ma lo spirito era quello del giovane che assisteva uomini e animali in quella clinica in Kenia, tanto tempo prima…
- Sai Candy, sabato prossimo andremo a un ricevimento presso la residenza dei Lansing. Devi cominciare a fare la tua parte e lasciarti sfoggiare come mia dama alle occasioni ufficiali, non credere che me ne sia dimenticato!
Da quando erano arrivati a Washington, Candy aveva accompagnato Albert a un paio di cocktail poco impegnativi, ma quella era la prima occasione in cui avrebbe presenziato ad un ricevimento vero e proprio. Sebbene la prospettiva non l’allettasse, sapeva di non potersi sottrarre.
- Oh, accidenti! – esclamò in tono fintamente esasperato – speravo di averla fatta franca! Sinceramente, Bert, mi auguravo che in breve tempo dal nostro arrivo qui, avresti conosciuto la figlia di qualche importante pezzo grosso del Governo e che saresti stato già fidanzato a quest’ora, sciogliendomi dai miei obblighi mondani!
- Mia cara – rispose Albert, sulla stessa falsariga scherzosa – non ho ancora trovato quella con le giuste parentele per favorire la mia ascesa politica. Purtroppo le figlie di Woodrow sono già tutte impegnate!
- Bert!
- Ah Ah Ah! - Albert scoppiò nella sua fragorosa e coinvolgente risata - Piccola, dovresti vedere la tua faccia!

Quel sabato, Candy e Albert si recarono al ricevimento in casa del Segretario di Stato, che avrebbe costituito il vero debutto di Candy nella rutilante alta società di Washington.
In passato Candy aveva già partecipato a diversi ricevimenti a Chicago insieme ad Albert, in occasione delle sue visite in città nelle pause tra un viaggio di lavoro e l’altro dell’amico. Sebbene non fosse una party addict, saltuariamente non le dispiaceva prendervi parte, avendo ormai una certa dimestichezza con l’aristocrazia del denaro della capitale dell’Illinois. Era tuttavia piuttosto preoccupata da quel “debutto” nella capitale, immaginando un mondo completamente diverso, ed avendo raccolto da Albert e da Patty diversi pettegolezzi sulle guerre di potere sotterranee tra i politici di mestiere e le loro ambiziosissime mogli. Si sentiva spesso dire che a Washington faceva fare più progressi a una carriera avere la consorte inserita nei giusti circoli mondani, che una maggioranza in Senato.
Per l’occasione Candy aveva scelto dal suo guardaroba (adeguatamente rifornito da Annie di una serie di vestiti da sera all’ultima moda) un semplice abito di impalpabile e lucida seta azzurra, morbido e drappeggiato, le pieghe elegantemente fermate da una spilla di perline su un fianco, e lungo fino alle caviglie, ma morbidamente aperto su un lato dal ginocchio in giù. La moderata scollatura terminava in due maniche corte e leggere, che si muovevano in morbide onde sulle sue spalle ad ogni movimento. Le gambe erano avvolte in calze di seta color crema, e ai piedi aveva delle scarpette col cinturino dello stesso colore del vestito. Aveva lasciato i capelli sciolti, guarniti solo da un cerchietto di perline all’ultima moda, ma molto semplice se paragonato ai vezzi di piume e lamé che molte signore avevano iniziato a sfoggiare in quegli anni, in cui sembrava stessero scoprendo per la prima volta la propria femminilità, di pari passo con il proprio seno, svelato da scollature vertiginose che facevano arrossire Candy al solo pensiero. L’unico gioiello che guarniva la sua pelle candida era il piccolo ciondolo di zaffiro, dal quale non si separava mai. Non portava guanti, una vera sfida alle convenzioni, in verità lanciata più per tenere alta la bandiera della comodità che quella dell’anticonformismo.
Albert, splendido nel suo frac con la camicia candida, in contrasto con la quale gli occhi azzurri spiccavano come splendide acquemarine, aspettava Candy in fondo alla scala e quando la vide scendere non poté nascondere un profondo moto d’orgoglio. La sua piccolina era diventata una meravigliosa donna!
- Candy, con te al mio fianco questa sera mi sarà molto difficile andare a caccia di doti!
- Peggio per te! Mi hai messo tu in questo guaio! Non so neanche come abbia avuto il coraggio di indossare questo abito, Bert! Non ho mai visto uno spacco del genere, è semplicemente indecente. Annie deve essere impazzita!
- Candy! Sei davvero una puritana! – sorrise Albert strizzandole un occhio.
Candy ricordò che quella era stata un’accusa rivoltale molte volte scherzosamente anche da Terence, e sulle labbra le aleggiò un dolce e malinconico sorriso, che Albert colse immediatamente. Pur non sapendo cosa nello specifico lo avesse causato, poteva facilmente immaginare chi fosse il soggetto dei pensieri della sua dolce piccolina, adesso diventata inequivocabilmente una donna, ma purtroppo non una donna felice. L’unico dettaglio che mancava per rendere perfetta l’elegante figura che Albert aveva dinanzi a sé era infatti quel particolare sfavillio di smeraldo negli occhi, che vi aveva visto brillare per l’ultima volta in un gelido mattino invernale, salutandola dalla finestra mentre lei si precipitava verso la stazione di Chicago, correndo incontro al suo amore che la aspettava a New York. Quel giorno lui aveva tremato all’idea di non vederla tornare indietro su quel viale dove stava saltellando di gioia, con il cuore già a New York insieme al suo uomo. Immaginava che Terence le avrebbe chiesto di restare con lui per sempre, se la disgrazia di Susanna non fosse stato il modo scelto dal destino per scatenarsi con tutta la sua violenza su quei due giovani. Allora era terrorizzato all’idea di perdere Candy. Non aveva ancora riacquistato la memoria e lei rappresentava tutto per lui: famiglia, affetto, cura, calore... Eppure quando l’aveva vista tornare da New York, così prostrata e vinta dal peso della scelta che aveva compiuto, aveva rimpianto mille volte quell’egoistico pensiero formulato alla finestra.
Nonostante avesse cercato più volte di mettere a posto ciò che il destino aveva disfatto, non ultimo facendo sì che Candy ritrovasse a Rocktown il suo Romeo disperato, aveva capito che non c’era forza che potesse opporre non tanto al fato, ma al peso che quelle due anime tormentate dal loro stesso altruismo avevano dato alle promesse che si erano scambiate. In un certo senso li ammirava molto, ma nel suo cuore non si rassegnava al sacrificio al quale si erano votati in un intreccio di onore, senso di colpa, pietà, pressioni esterne, generosità e sogni infranti del quale, ancora oggi a distanza di più di un anno dalla morte di Susanna, sembravano non riuscire a ritrovare il bandolo.
Più volte si era chiesto se non avrebbe dovuto far qualcosa per contattare Terence, ma alla fine aveva sempre desistito. Ne conosceva l’orgoglio e la fierezza che, provenienti dai geni paterni, si erano sposati con la raffinatezza e l’eleganza della madre, creando il più straordinario uomo che avesse mai incontrato, la cui potenzialità ruggiva già in quel vicolo del West End in cui si erano conosciuti anni prima. E conosceva anche la cocciutaggine di Candy e la sua risolutezza nel tener fede alla parola data. Ne aveva avuto una chiara dimostrazione quando il suo espediente di mandarla a Rocktown era fallito a metà dall’intento originario: riunire i due giovani e salvare Terence dal baratro di commiserazione bagnata nell’alcol nel quale era precipitato. Aveva ottenuto solo di rinnovare il dolore di Candy, la quale si era forzata a tenere fede all’impegno preso di rinunciare a Terence, ritenendo di donargli così l’unica sua speranza di felicità. Era ancora convinta che con Susanna in quelle condizioni per lei e Terence non potesse esserci legame possibile. Ma almeno grazie alla sua sola presenza e alla forza che gli aveva istillato, Terence era risorto ed era tornato alla vita.
E così da allora Albert aveva solo osservato, era rimasto vicino a Candy cercando di trasmetterle forza e aveva aspettato pazientemente che i fili delle vite di quelle due anime gemelle si intrecciassero di nuovo, certo che la trama delle loro esistenze li avrebbe guidati nuovamente e inevitabilmente l’uno verso l’altra, come un fiume trova sempre il modo di sfociare nel mare dopo lunghi e tortuosi tragitti, vincendo tutti i tentativi dell’uomo di deviarne artificialmente il corso.

Villa Costanza, la residenza del Segretario di Stato Robert Lansing, era una villa neoclassica dall’eleganza e dal lusso indiscutibili ma discreti. Tutta la Washington che contava era presente nel grande salone affrescato e illuminato a giorno. La musica di un’orchestra posizionata su un basso piedistallo ai margini della sala riempiva piacevolmente l’atmosfera.
Come Albert aveva anticipato a Candy, gli uomini politici, tra cui i massimi rappresentanti del governo e del Congresso, si raggruppavano a intervalli regolari in capannelli nei vari angoli della sala, inframmezzando opportunamente tali scambi alle danze con le proprie dame, in modo da dar tempo agli accordi appena stipulati davanti a un buon cognac di sedimentare, prima di passare ai successivi abboccamenti. Era come un consumato e studiato minuetto, in cui ogni soggetto recitava la sua parte: tutti sapevano di essere lì per stringere o disfare relazioni politiche, e fingevano invece di trovarvisi per divertirsi trascorrendo una piacevole serata danzante.
Albert la presentò a tutti i membri dello staff del Presidente, assente in quanto ancora a Parigi impegnato nella sua battaglia diplomatica per promuovere la Società delle Nazioni, e Candy incantò tutti indistintamente con la sua grazia elegante e semplice allo stesso tempo.
C’era anche Patty, giunta insieme all’entourage dei Roosevelt, dei quali grazie al fidanzamento con Harold, già ripartito per Boston, era divenuta una parente più che una dipendente. Candy era entusiasta di venire presentata a quella coppia di cui tanto aveva sentito parlare dall’amica e da Albert, e fu veramente sorpresa quando Mr. Roosevelt si rivolse a lei con tono amichevole dicendole:
- E così lei è la famosa Candice di cui Albert non fa altro che parlare, nei pochi momenti in cui non è concentrato sul lavoro. Credo che lei, signorina, sia l’unico bipede sul quale l’abbia sentito esprimersi con vero affetto. Tutti gli altri destinatari della sua ammirazione appartengono al mondo animale, tra cui anche una puzzola devo dire!
Questo commento, accolto tra le risate generali, stemperò la tensione di Candy e le fece capire il livello di intimità e amicizia raggiunto dai due uomini; allo stesso tempo le fece guardare con simpatia a quell’uomo così diretto e simpatico, a dispetto del ruolo istituzionale che rivestiva e dall’appartenenza ad una delle più importanti famiglie politiche d’America. Nonostante i modi schietti e amichevoli, brillava però nei suoi occhi la luce di un’intelligenza fuori dal comune e di una determinazione inossidabile.
- Sono veramente molto lieta di fare la sua conoscenza, Mr. Roosevelt. Posso dirle che anche lei è uno dei bipedi preferiti da Albert?
A quel commento irriverente le risate aumentarono d’intensità, in un clima piacevole e amichevole. Patty a quel punto si rivolse alla sua amica presentandole la donna che aveva a fianco:
- Candy, ti presento Mrs. Roosevelt, il mio capo.
- Mia cara, stiamo per diventare cugine, gradirei farla finita con questi formalismi – intervenne sbrigativamente Eleanor Roosevelt, rivolgendosi a Patty con un sorriso e stringendo con decisione una mano a Candy, che le rivolse un breve inchino.
- Sono onorata di fare la sua conoscenza, Mrs. Roosevelt.
Candy studiò affascinata la donna di circa trentacinque anni che aveva di fronte.
Non poteva essere definita una bellezza, ma si poteva essere assolutamente certi che, in qualunque stanza e alla presenza di qualunque compagnia, sarebbe sempre e comunque stata notata come la personalità più spiccata, in grado di mettere in ombra qualunque altra donna, anche la più radiosa delle bellezze, con la semplice forza del suo carisma naturale. Aveva capelli scuri pettinati all’indietro in uno chignon sulla nuca e il tratto dominante del suo viso era la bocca, dalla linea dura e decisa che si accompagnava ad uno sguardo tra i più espressivi che Candy avesse mai visto, in grado di attraversare tutto lo spettro delle emozioni: dalla più vivida simpatia all’odio più implacabile. Candy notò che Mrs. Roosevelt era l’unica donna presente nella sala a non vestire seguendo la moda ma ad indossare un abito nero dalla vecchia linea rigida e ampia, lunga fino ai piedi, retaggio di prima della guerra. Tuttavia, lo faceva con una disinvoltura e una noncuranza tali da fare invidia a tutte le regine della haute couture.
Candy ne fu immediatamente e totalmente conquistata, così come non poté fare a meno di notare gli sguardi carichi di orgoglio e amore che le rivolgeva il marito, assolutamente stregato da lei.
Eleanor si informò sulla sua attività di volontariato alla Community of Hope e parlarono a lungo degli effetti dell’epidemia di influenza, soprattutto sulla mortalità infantile. Eleanor e il marito furono anche molto colpiti dal’impegno di Candy nell’Indiana presso la casa di Pony.
- E’ veramente meraviglioso che Albert e lei, Candice, sebbene appartenenti a una delle più ricche famiglie di Chicago, dedichiate tante energie ai meno fortunati. E’ questo che dovrebbe fare il Capitale nel nostro paese: creare occasioni di sviluppo di cui tutta la società possa arricchirsi, anziché prodursi in mero accumulo personale.
Candy era affascinata.
La serata andò avanti piacevolmente, nonostante gli iniziali timori di Candy, la quale venne invitata a ballare oltre che da Albert da diversi brillanti giovani neolaureati presso le più prestigiose università degli Stati Uniti e d’Europa, già pronti ad occupare il proprio posto al sole negli assetti politici del dopoguerra.
In un momento di pausa tra un ballo e l’altro, mentre beveva un bicchiere di champagne per rinfrescarsi, la sua attenzione venne attratta da un uomo bruno sulla quarantina, molto elegante e affascinante nel suo impeccabile smoking di sartoria, che teneva banco, con la disinvoltura conferita da una chiara dimestichezza e dall’abitudine ad essere al centro dell’attenzione, in un capannello composto in massima parte da donne dallo sguardo estasiato.
Candy era certa che le fattezze di quell’uomo le fossero note, e cercò di mettere a fuoco dove potesse averlo conosciuto. Aveva una sensazione strana, come se quel volto fosse collegato a un ricordo dolce-amaro, e la sensazione si trasformò in certezza quando l’identità dell’uomo emerse dai suoi ricordi con la violenza di un gong suonato proprio al centro della sua mente. Quello era Robert Hathaway, il primo attore della compagnia Stratford, che aveva visto recitare nel Re Lear a Chicago tanti anni prima insieme a Terence.
Sì, non aveva alcun dubbio: si trattava proprio della sua figura elegante e del suo sguardo magnetico. Quello era il volto affascinante al quale aveva visto assumere le mille espressioni della tragica figura shakespeariana, mentre sprofondava lentamente e inesorabilmente nel buio della sua solitaria follia. Se anche non avesse riconosciuto in lui l’attore sul palcoscenico (cosa comprensibile dal momento che in quel frangente la sua attenzione e tutto il suo essere erano invece attratti inesorabilmente verso il re di Francia, intento a declamare con le mille vellutate sfumature della sua meravigliosa voce il proprio amore per Cordelia) ricordava però perfettamente di averlo visto dopo, in borghese, uscire insieme a tutti gli attori della compagnia dall’ingresso degli artisti, ricevendo il tributo della folla in delirio che le aveva impedito di farsi scorgere da Terence.
Robert Hathaway era lì a Washington, al suo stesso ricevimento. Forse la sua compagnia stava recitando in città. Sì, non c’era altra spiegazione e quindi forse…
In preda all’improvviso di un panico crescente, misto ad un’aspettativa tanto forte da essere dolorosa, Candy si voltò più volte a destra e a sinistra, scorrendo la sala freneticamente e ad occhi sgranati, cercando di scorgere tra gli uomini in tenuta da sera una lucente chioma castana e due brillanti zaffiri. Ma no, si disse prendendo un respiro con una mano sul cuore, Terence non poteva essere lì: lo avrebbe avvertito nel momento stesso in cui fosse entrata in quella stanza. Quel brivido e quell’ondata di marea interiore, che sempre la attraversavano quando si trovavano vicini, non le avevano annunciato la sua presenza con tutti gli altri suoi sensi, prima ancora che con la vista.
Tornò a fissare Robert Hathaway, cercando di regolarizzare il respiro accelerato dalla gamma di emozioni che aveva attraversato in pochi secondi.
Come spesso avviene quando si è osservati con estrema intensità, lo sguardo di Candy a Robert calamitò l’attenzione dell’uomo, mettendone in allerta i sensi senza che ne sapesse il perché. Il grande regista, nel bel mezzo di una banale conversazione con un gruppo di ammiratrici, si ritrovò ad alzare lo sguardo come se fosse stato telecomandato, e ad incrociare quello di smeraldo che gli veniva rivolto con tanta enfasi dall’altro lato del salone.
Robert non aveva mai visto prima quella ragazza vestita d’azzurro, dritta accanto a un tavolino con una mano che reggeva un flute di champagne e l’altra posata sul petto in una posa aggraziata, un’eleganza naturale che riluceva come un faro in quella stanza piena di gente. Ma ad attrarlo particolarmente fu lo sguardo, acceso di un tale fuoco da non potere evitare di esserne irresistibilmente attratto. Gli sembrava che nella stanza tutti fossero caduti nell’ombra, ad eccezione di quella fanciulla alla quale sentiva di essere unito da un legame ancora ignoto.
Si scusò educatamente con il gruppo di interlocutori e posò su un vassoio il bicchiere vuoto che aveva in mano; quindi si diresse con andatura elegante verso quella attrattiva creatura, ancora immobile, che ne seguiva l’incedere con gli occhi incollati ai suoi.
Quando la raggiunse le fece un breve inchino e disse:
- Buonasera, Miss. Sono Robert Hathaway. Mi scuso per la mia impudenza e spero che non troverà banali le mie parole, ma avendola scorta da lontano ho avuto come la sensazione che ci conoscessimo, anche se non saprei dire in quale occasione potrei aver avuto l’onore di averla già incontrata.
A Candy girava la testa per l’ansia.
- Buonasera, Mr. Hathaway. Io mi chiamo Candice Andrew. Ecco... non credo che lei possa avermi già visto prima. Io l’ho veduta una sera di circa cinque anni fa a Chicago, in occasione di una rappresentazione di beneficienza del re Lear…
No, non era semplicemente una delle tante fans che avevano incrociato il suo cammino professionale, Robert ne era certo. C’era in quello sguardo un richiamo e un’urgenza che lo distinguevano da tutti gli altri, che esprimevano solo pura e vuota adorazione e che aveva già visto migliaia di volte, in decine e decine di diverse città, sempre uguale.
- …Io…Io sono una conoscente di Terry Graham, Mr. Hathaway – si decise ad aggiungere Candy, sussultando nel pronunciare quel nome che non aveva più citato in pubblico, se non con le persone a lei più care.
A Robert non era nuovo quell’approccio: di tutti gli attori della compagnia, Terence era di certo il più ricercato dalle ammiratrici. E se durante e dopo la morte di Susanna, il suo giovane pupillo non aveva mai intessuto storie con nessuna di loro, non era stato certo per mancanza di opportunità, visto che lui stesso aveva assistito a scene a dir poco imbarazzanti in occasione dei pochi party ai quali l’amico partecipava (e solo se costretto da obblighi professionali). Non era quindi infrequente che qualche ammiratrice particolarmente zelante cercasse di arrivare a Terence tramite i colleghi, simulando una frequentazione personale del tutto inesistente.
Ma in quella ragazza c’era qualcosa di diverso.
Non fu l’espressione intrisa di profonda dolcezza e malinconia del suo sguardo, tanto diverso dalla malizia delle dozzinali ammiratrici cui era abituato. E neppure il fatto (che non gli era sfuggito) che avesse fatto riferimento a Terence usando con naturalezza la versione del suo nome con la quale lo aveva sentito chiamare solo dalla madre, Eleanor Baker. Dettaglio che, ne era certo, nessuno che non fosse in stretta intimità con il suo riservato amico poteva conoscere. No, c’era anche qualcos’altro, ed ebbe bisogno di qualche istante prima di rendersi conto che si trattava di quello sguardo, quello sguardo rilucente di ansia e di una scintilla che Robert aveva già visto nella sua variante color zaffiro solo in altri due occhi, quando Terence gli aveva parlato della sua salvatrice.
- Lei è un’amica di Terence, Miss Andrew? Posso chiederle come vi siete conosciuti?
- Io… e Terry ci siamo conosciuti a Londra, molto tempo fa, nel collegio dove studiavamo – che modo riduttivo di descrivere l’incontro che le aveva cambiato la vita, pensò Candy fugacemente… ma com’era possibile sintetizzare in poche parole (o milioni di parole, se per questo) ciò che rappresentava Terence per lei? – ma ci siamo… persi di vista da alcuni anni, in verità.
- Capisco, Miss Andrew – sì, adesso di fronte a quello sguardo e con la sua profonda sensibilità d’artista, Robert capiva tutto. Capiva come Terence, dopo essersi specchiato nella profondità di quei laghi di un verde trasparente e brillante, avesse rifiutato per sempre di accontentarsi di abbeverarsi a semplice acqua di fonte. Dopo essersi bruciato con quel fuoco ardente, qualsiasi altro calore sarebbe risultato ghiaccio. Lei doveva essere la donna che, come una volta gli aveva detto Terence, lo aveva salvato da se stesso. Robert non ebbe difficoltà a capire cosa l’amico avesse voluto dire, trovandosela adesso davanti.
- Lui… Terry è a Washington con lei, Mr. Hathaway? – Candy trattenne il fiato, in attesa di quella risposta che per lei significava tutto.
- No, Miss Andrew – era un sospiro di sollievo o di disperata delusione che vide sfuggire dalle labbra di quella incredibile creatura? – La mia compagnia è in città da una settimana per inscenare al teatro Ford l’Otello. Ma Terence non è con noi in questa occasione. Da circa tre mesi è dovuto partire per la Scozia ed è stato sostituito nel ruolo di protagonista per questa seconda parte della stagione. Pare che abbia ricevuto notizie poco confortanti da parte della sua famiglia, e che la sua presenza sia stata richiesta lì dal padre.
Terence era in Scozia... Candy riusciva ad immaginare solo una ragione talmente grave da avergli fatto interrompere la stagione teatrale.
- Terry… ha forse subito un lutto, Mr. Hathaway? – chiese con il cuore in gola.
- No, Miss Andrew – la rassicurò subito lui - Pare che il padre abbia subito un grave malore qualche mese fa e che la convalescenza si stia rivelando più difficile del previsto, per cui Terence ha deciso di fermarsi lì fino a quando non si sarà ristabilito almeno in gran parte.
Candy sospirò dal sollievo. Sapeva che nel groviglio inestricabile di contrastanti sentimenti che legava Terence al padre, la morte del duca avrebbe lasciato nel suo cuore un vuoto incolmabile e un rimpianto senza lenimento, se prima non fossero riusciti a chiarire le differenti posizioni che avevano portato alla loro definitiva rottura tanti anni prima. Il muro di silenzio e ostilità che avevano eretto tra loro era cresciuto nel tempo, e scardinarlo avrebbe riportato alla luce, costringendolo ad affrontarle, tutte le paure di un bambino che si era sentito dolorosamente rifiutato dal padre. E lei non avrebbe potuto in alcun modo essergli vicina stavolta, come invece aveva fatto in occasione della sua sofferta riappacificazione con la madre…
- Capisco Mr. Hathaway. La ringrazio.
- C’è… c’è qualcosa che posso dire a Terence da parte sua? Ci teniamo in frequente contatto epistolare, Miss Andrew. Desidera mandargli un messaggio? – Robert non riusciva a immaginare qualcosa che avrebbe potuto fare più piacere a Terence, nei difficili frangenti che stava attraversando.
- Io… no, Mr. Hathaway, la ringrazio. Io... credo di no. Spero che torni presto a recitare, perché ciò significherà che il padre sta meglio.
- Certo, Miss Andrew. E’ davvero sicura di non …
- Ne sono sicura! – gli occhi di Candy, fino a quel momento velati di amore e di rimpianto si accesero di determinazione.
Terence aveva un doloroso passato e la presente malattia da affrontare con il padre. Riportare alla luce altri fantasmi non lo avrebbe aiutato in alcun modo.
Qualunque dovesse essere la mossa successiva della partita a scacchi che il destino aveva iniziato a giocare con loro fin da quella notte di Capodanno sul Mauretania, adesso non toccava a lei muovere. La morte della regina nera non si era rivelata la mossa determinante, a quanto sembrava. Toccava ai due re affrontarsi adesso, il bianco e il nero, l’uno di fronte all’altro al centro della scacchiera, senza più difese.

Amore, dammi tu la forza,
ché solo di forza ora avrò bisogno! *



*Romeo e Giulietta, Atto IV, Scena I.

FINE CAPITOLO SECONDO



eleanorroosevelt franklindroosevelt
Franklin D. Roosevelt e la moglie Eleanor in una foto più o meno contemporanea agli eventi narrati



Edited by cerchi di fuoco - 22/5/2013, 08:18
 
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Capitolo 3°: Regina bianca e regina nera.



3reginabiancaereginaner




Aberfoyle, Loch Lomond,
Scozia

01 aprile 1919

Terence fissava la pregiata scacchiera di madreperla ed ebano troneggiante elegantemente sul tavolino intagliato da qualche artigiano del XVIII secolo, probabilmente lo stesso Maggiolini, per uno dei suoi antenati evidentemente appassionato del gioco degli scacchi. I due Re, i pezzi più importanti, quelli che determinavano la vittoria o la sconfitta nel gioco, erano al centro dello schema, l’uno di fronte all’altro, ma la sua attenzione era completamente attratta dalla Regina bianca. Anche se il Re costituiva il pezzo determinante della partita, dalla cui vita dipendeva la vittoria o la sconfitta, era la Regina la vera anima di quel gioco, colei che con i suoi movimenti poteva modificare ogni strategia. Ogni mossa della partita era una continua danza per conquistarla, e modificare così il corso del gioco. Lasciarla andare significava perdere tutto…
La grande biblioteca del castello scozzese dei Granchester era immersa nei giochi di ombre creati dalla tenue luce di alcuni lumi di Tiffany posizionati negli angoli strategici della stanza, mescolata al riflesso cremisi e dorato prodotto dal fuoco scoppiettante nell’imponente camino di pietra. L’effetto era di una particolare intimità, nonostante le enormi dimensioni dell’ambiente dall’altissimo soffitto a volta. Le pareti, laddove non ricoperte di librerie, erano guarnite di drappi e tendaggi vellutati, che coprivano le porte-finestre e nascondevano un cielo stellato come Terence ricordava di averne visti solo nelle notti scozzesi della sua infanzia e adolescenza. A Londra e New York, infatti, le mille luci della città coprivano con la loro artificiosa luminescenza il puro riflesso degli astri, che tornava a manifestarglisi nel proprio più limpido e profondo splendore dal cielo della sua Scozia. Come alla volta celeste, anche a lui nel tornare in quei luoghi era sembrato di lasciar scivolare via gli artifici e la corazza di Terence Graham, corazza della quale si era rivestito all’atto di lasciare l’Inghilterra, in sostituzione di quella precedentemente fornitagli dal nome dei Granchester.
Granchester Manor, la residenza avita, seconda per ordine di importanza solo alla casa di rappresentanza a Londra tra le proprietà di famiglia, nel cuore del giovane era indissolubilmente legata, più che al nome che portava e che gridava la sua storia da ogni angolo dell’edificio, all’estate del suo amore.
Nell’enorme crogiolo di contrastanti sentimenti che lo avevano turbato dal momento in cui aveva letto la lettera del padre ed aveva deciso di seguire il cuore che gli suggeriva di rispondere al suo accorato richiamo, c’era stato posto anche per il sollievo al pensiero che quell’incontro così temuto, sospirato, rimandato nella sua ineluttabilità, si sarebbe svolto lì ad Aberfoyle, tra le dolci colline del Loch Lomond che lo avevano visto amare, piuttosto che tra le tetre pareti neoclassiche di Granchester House a Londra, che conoscevano solo la sua rabbia e il suo rancore. O addirittura, Dio non volesse, a Windermere, nella più recente residenza dei Granchester scelta dalla sua matrigna, e nella quale lui si era sempre rifiutato di recarsi.
Stringendo in una mano la Regina di candido avorio, Terence si spostò verso il camino, davanti al quale e sopra al folto tappeto che ricopriva l’antico pavimento di quercia, era posizionato un divano di velluto cremisi guarnito da diverse coperte di lana ripiegate sullo schienale. Si sedette ad uno dei lati del divano e si sporse verso il fuoco con i gomiti poggiati sulle ginocchia. Rigirando tra le mani il pregiato pezzo degli scacchi, gli occhi di zaffiro che brillavano più del fuoco ardente che vi si rifletteva, si smarrì ancora una volta nei suoi ricordi di un’estate lontana, di un altro fuoco.
Di un’altra vita…

Terence accende le candele in giro per la stanza fino a quando tutto è circondato da un meraviglioso bagliore. All’improvviso all’esterno esplode un tuono e la pioggia comincia a scrosciare con un rumore simile a quello di un’onda che si infrange sugli scogli. Le finestre, che erano state chiuse per impedire al temporale di rovesciarsi all’interno, tremano sotto l’attacco di vento e pioggia, e taglienti spifferi penetrano dagli interstizi della finestre.
Di colpo, Candy rabbrividisce dal freddo e si stringe le braccia attorno alla vita.
Terence scompare all’improvviso per riapparire poco dopo recando con sé una vestaglia bianca dalla stanza accanto.
- Metti questa…
La vestaglia di seta che Terence le pone esitante sulle spalle emana un tenue e dolce profumo.
- E’ la vestaglia di mia madre… spiega Terence esitante, voltandosi dall’altro lato.
Candy alza di scatto il viso dalla vestaglia e il suo sguardo incrocia gli occhi di Terence dietro di lei; entrambi leggono la confusione negli occhi dell’altro.
- Terry..vuoi dire..?
- Eleanor Baker ha detto di riferire alla ragazza con le lentiggini che spera che in futuro le cose le vadano per il meglio.
- Davvero?...e, e..Terry…
E’ più che abbastanza. Terence sa che senza bisogno di parlare Candy ha capito come lui e sua madre si siano riappacificati, superando tutte le proprie incomprensioni e lasciando parlare solo il cuore.
Felice, Candy si stringe addosso con decisione la vestaglia un po’ troppo grande per lei. I suoi occhi sono diventati lucidi. Terence non aggiunge altro su sua madre e comincia ad accendere il fuoco nel camino. E’ piuttosto esperto in quel compito, e le fiamme divampano in un attimo. Il colore intenso delle fiamme si riflette negli occhi di Candy.
- Vieni vicino al fuoco!
Quella frase in realtà vuole dire: “Vieni vicino a me!”.
Terence si sente insolitamente nervoso.
Candy obbediente si avvicina al camino e siede sul tappeto di pelliccia. Prende a riscaldarsi le mani al calore del fuoco.
- E’ caldo…
Il riflesso delle fiamme danza sul profilo di Candy. Terence la fissa in silenzio.
- Quella notte, ho acceso un fuoco. Lei ed io siamo stati qui fino al mattino seguente, solo guardando la fiamma… Anche se non abbiamo parlato di niente di specifico, ho scoperto che lei avrebbe voluto vivere con me e il duca di Granchester, se fosse stato possibile, molto più che raggiungere il successo come attrice… se fosse stato per mio padre non lo avrei mai saputo.. e quel che è peggio, se fosse passato solo un altro po’ di tempo l’avrei cacciata via. E avrei compiuto un gesto dal quale non sarei più stato in grado di tornare indietro…
Terence torna a rivolgere un sorriso che nasce direttamente dal cuore a Candy, la quale improvvisamente si volta sorridendo.
Ci sono messaggi che si trasmettono con molta più forza con un sorriso che con le parole. Il cuore di Candy si riscalda completamente, e quello di Terence sussulta.
In quel momento il tempo sembra fermarsi. La mano di Terence si avvicina a Candy, esitante… ma poi, quando si trova a pochi millimetri dalle sue labbra si ferma e l’abbassa lentamente, come preda di una improvvisa paura.
Candy sospira, tornando a fissare il fuoco.
- C’è un camino anche alla casa di Pony. Miss Pony e suor Maria ci arrostiscono sempre i marshmallows.
- Le tue storie sono sempre piene di cibo.
Il tempo riprende a scorrere e la tensione di Terence si stempera in un sorriso, mentre si stiracchia le gambe sul tappeto.
- Mi piacerebbe venire alla casa di Pony, prima o poi, e vorrei anche vedere l’albero sul quale ti sei esercitata per il tuo ruolo di Tarzan.
- Davvero? Devi assolutamente venirci, va bene?
Parlano a lungo. Candy racconta a Terence dello zio William e di quanto per lei sia importante diventare una vera signora per far sì che lui possa essere orgoglioso di lei. Gli chiede di insegnarle a suonare uno strumento, cosa che le risulta particolarmente ostica tra le mille nozioni da assimilare alla St. Paul School.
Terence si alza, resistendo all’impulso di abbracciare stretta Candy, che ha sul volto un sorriso brillante.
Il fuoco si sta dissolvendo e il suono della pioggia va spegnendosi, la luce del sole comincia ad inondare la stanza filtrando dalle finestre.
Candy si alza e fissa con ammirazione le pareti rivestite di librerie, soffermandosi in particolare sulle opere di Shakespeare.
Quando sua madre è ripartita, ha chiesto al figlio di seguirla in America per studiare recitazione. Deve aver percepito che Terence ha maturato un’intensa passione per il teatro.
“Se fosse successo prima, sarei andato via con lei… Candy, se fosse successo prima di incontrarti…”.
Terence la guarda con occhi pieni di desiderio mentre lei continua a fissare la moltitudine di libri... *


Aggredito dalle fiamme, un ciocco di legno nel camino crepitò forte, e Terence fu repentinamente ricondotto al presente, gli occhi accesi dalle emozioni che aveva rivissuto e le guance arrossate per la vicinanza del fuoco. I capelli del colore del mogano risplendevano di bagliori ramati che si animavano e spegnevano allo stesso ritmo del fuoco scoppiettante.
“Se solo avessi saputo, Candy, quanto breve sarebbe stato ancora il nostro tempo insieme!”
Terence, continuando a stringere in una mano la Regina bianca degli scacchi, si adagiò indietro sullo schienale, appoggiandovisi e allungando elegantemente le gambe davanti a sé. Quindi, tese una mano a prendere una delle morbide coperte di lana sullo schienale del divano e si coprì con essa, rilassando mente e corpo in attesa che giungesse il sospirato sonno a dargli ristoro.
Nei suoi primi giorni a Granchester Manor, alloggiato nella vecchia stanza che aveva occupato da ragazzo, era stato altrettanto difficoltoso per lui trovare requie quanto nelle infinite notti newyorkesi. Ma nelle ultime settimane aveva preso l’abitudine di trascorrere un paio d’ore dopo cena nella camera di suo padre conversando e leggendo per lui ad alta voce, prima di lasciarlo al riposo necessario alla sua convalescenza, accudito da un’infermiera notturna. Allora si ritirava in biblioteca, dove sembrava che i suoi mille demoni non avessero accesso, bloccati fuori da un guardiano invisibile, e dove aveva scoperto di non faticare affatto a prendere sonno sul divano di fronte al camino, cullato dal riflesso del fuoco e dai suoi ricordi.
- E’ il tuo effetto, Tuttelentiggini. Hai lasciato la tua scia di serenità in questi luoghi, e a distanza di tanto tempo continuo a trarne beneficio. Solo tu hai questo effetto su di me. Solo grazie a te ogni tempesta si placa nel mio cuore … – mormorò tra sé, un sorriso malinconico sulle labbra e negli occhi il riflesso di visioni lontane.
A poco a poco le palpebre si fecero più pesanti e Terence si assopì con un lieve sorriso a increspargli appena le labbra.

Chi è colpito di cecità
non può dimenticare il prezioso tesoro
della sua vista perduta.
Mostrami ora una donna di bellezza insuperata:
a che mi servirà la bellezza
se non da foglio su cui leggere il nome
di quella che supera questa bellezza insuperata?
Addio, a scordare non potrai insegnarmi. **


_________________________




Aberfoyle, Loch Lomond,
Scozia

04 dicembre 1918

Terence aveva lasciato New York con il piroscafo Aquitania alla fine di novembre. Insieme a Robert Hathaway aveva organizzato la sostituzione più indolore possibile per i ruoli che avrebbe dovuto interpretare nella tournée che avrebbe occupato la compagnia nei successivi quattro mesi nelle principali città della costa orientale. Dopo aver faticato non poco a trovare un biglietto per l’Europa in quei giorni di delirio post-bellico, aveva compiuto la traversata di cinque giorni ed era sbarcato a Liverpool, da dove aveva proseguito in treno per la Scozia.
Al suo arrivo in Inghilterra era stato enormemente colpito dall’aspetto della città: la guerra non era passata senza lasciare tracce. Lungo le vie erano ancora visibili alcuni segni lasciati dai bombardamenti, per le strade circolavano migliaia di uomini in uniforme, diversi dei quali portavano nel corpo i segni delle ferite riportate in guerra, e in generale tutto era avvolto da un senso di devastazione materiale e morale dalla quale l’Europa cercava faticosamente di rialzarsi.
A poco a poco, allontanandosi in treno da Liverpool e inoltrandosi nella campagna verso nord, gli effetti della guerra sfumavano, e i territori della Cumbria e del Norfolk gli offrirono il noto e rasserenante paesaggio di colline verdeggianti e laghi trasparenti. Sebbene avesse tentato di rompere totalmente con quel passato, a mano a mano che si avvicinava alla Scozia le sue radici tornavano a reclamare il proprio tributo di emozioni sopite, e Terence non poté non ammettere con se stesso di provare una sensazione di familiare dolcezza nello scendere alla piccola stazione di Aberfoyle, a mala pena visibile in quella nebbia liquida di umidità che riscoprì sentire così familiare. Il capostazione, il vecchio Cavendish dalla pipa perennemente pendente ad un lato della bocca, si toccò immediatamente il cappello con deferenza, come se Terence fosse mancato da quei luoghi soltanto per pochi giorni, anziché da quasi sei anni. Gouz, l’autista tuttofare di Granchester Manor, lo aspettava per riportarlo a casa con una delle carrozze di famiglia. Pioveva la pioggia fitta e incessante che in Scozia cadeva senza soluzione di continuità da ottobre a dicembre, quando finalmente cessava all’improvviso e senza apparente motivo, per cedere alla neve lo scettro di regina dell’inverno. Uscendo dalla stazione, Gouz caricò il suo bagaglio sul retro della carrozza; il simbolo dei Granchester dipinto sulla fiancata fece a Terence l’effetto di una scossa elettrica. All’improvviso tutti i dubbi che avevano tormentato il suo viaggio fin dal momento in cui aveva aperto la lettera fatale tornarono ad assalirlo con forza.
Non poteva negare di essere rimasto profondamente turbato fin nel profondo dell’anima dalla lettera in cui, per la prima volta, il freddo duca della sua giovinezza sembrava aver lasciato il posto alle emozioni e all’affetto di un vero genitore. Le frasi con cui aveva cercato di arrivare al suo cuore erano riuscite ad aprire una crepa nel muro di rabbia e risentimento, edificato mattone per mattone negli anni dell’infanzia solitaria da quel bambino sensibile, tenuto a distanza dal padre e apertamente odiato e umiliato dalla presunta madre. Quel muro era stato poi cementato dalla scoperta del vile ruolo che il padre aveva interpretato nella fine della sua relazione con Eleanor. E Terence aveva poi definitivamente sollevato il ponte levatoio sul fossato che lo separava dal padre nel momento in cui, impotentemente furioso, era stato travolto dalla consapevolezza di averne replicato il copione, come in una sorta di maledizione familiare tramandatasi di generazione in generazione.
Se il duca gli avesse indirizzato una lettera eccessivamente compassionevole o, al contrario, nel tono autoritario che ben ricordava, Terence non sarebbe stato toccato come invece lo era stato dalla profonda dignità che aveva letto nelle parole composte di quel padre che, con grande lucidità, di fronte alla morte aveva ripensato al suo passato e trovato il coraggio di chiedere a lui e a sua madre perdono per gli errori del passato.
Lui, Sua Grazia, l’uomo al cui cospetto solo la famiglia reale e pochi altri Pari d’Inghilterra erano esentati dall’obbligo di chinare il capo.
Terence non sapeva se ciò sarebbe stato sufficiente a iniziare un nuovo corso, a ricomporre tutte le fratture del passato e a superare tutto il male che era corso tra loro come un fiume inquinato da torbide acque nere. Ma sentiva che doveva guardarlo in faccia e capire quanto il tempo avesse ammorbidito la rigida inflessibilità di quell’uomo. E, cosa ancora più importante, quanto il tempo avesse lenito (se lo aveva fatto) le ferite che lui stesso recava nell’anima e per le quali da troppo tempo incolpava il genitore. Per Terence era importante appurare se un reale e sincero mutamento potesse effettivamente essersi prodotto nel padre, non solo per ricucire il suo rapporto con lui, ma anche perché ciò avrebbe significato che poteva ancora nutrire una speranza di riparare agli errori da lui stesso commessi. Verso suo padre, certo. Ma soprattutto verso la dolce Giulietta che aveva lasciato scivolare via dalla sua vita senza saperla fermare.
Quando lui e Gouz erano arrivati al castello, Terence aveva alzato lo sguardo per fissare l’austera facciata secentesca del castello, con le sue mura merlate, torri e balconate. Come gli erano sembrate lontane le mille luci di New York! E quanto vicina la sua infanzia e giovinezza…
La duchessa e i fratellastri grazie al cielo si trovavano a Windermere, cosa che Terence aveva accolto come la migliore delle notizie da parte di Mrs. Gouz.
La fedele e affezionata governante che aveva maternamente accudito nelle solitarie estati della sua adolescenza un ragazzo alto e magro dalla capigliatura ribelle e dagli occhi malinconici, aveva represso a stento calde lacrime di commozione vedendosi comparire dinanzi un uomo affascinante ed elegante, i capelli come allora più lunghi di quanto la moda imponesse, ma pettinati più sobriamente ad esaltarne i lineamenti perfetti, tirati per la tensione del prossimo incontro con il padre. La sua aristocratica bellezza era esaltata da un semplice ma impeccabile abito di sartoria grigio indossato sopra una camicia nera, e da uno sguardo ancora profondamente malinconico, dietro il quale la donna aveva però intuito la stessa fiamma di un tempo covare sotto la cenere.
Dopo averla salutata con affetto, Terence aveva posato il cappotto nero ripiegandolo accuratamente sulla panca imbottita a lato dell’ingresso e, in un silenzio assorto, si era diretto verso la scalinata che portava al piano superiore, dove il padre riposava nella camera da letto patronale.

Con il cuore in gola e la mano tenuta saldamente sulla maniglia dalla forza di volontà, per bloccarne pervicacemente il tremito, Terence bussò e una infermiera di mezza età in un’uniforme candida gli aprì la porta della camera da letto. Senza bisogno di presentazioni, la donna gli si rivolse con deferente efficienza, facendogli cenno di accomodarsi nell’anticamera da cui si apriva l’ingresso alla camera vera e propria, che si poteva già intravedere attraverso l’arco scolpito nella parete di fronte:
- Lei deve essere il figlio di Sua Grazia, il Marchese? - Terence sussultò, imbarazzato nel sentirsi rivolgere a lui con quel titolo dimenticato - Sono nurse Robbins, l’infermiera diurna. Sua Grazia la sta aspettando. Abbiamo posticipato di un’ora il suo cordiale pomeridiano: Sua Grazia ci teneva ad essere il più lucido possibile per il suo arrivo. Devo avvertirla, però: potrebbe fare fatica ad abituarsi al suo aspetto, se non lo vede da prima del suo malore. Il fisico è fortemente indebolito e potrebbe anche notare un lieve cedimento del lato destro del volto e del corpo, per fortuna non totale e, anzi, in fase di ripresa. Il dottore infatti ritiene che all’infarto si sia sommata anche una piccola ischemia che ha prodotto questo problema.
- Vorrei parlare con il dottore domani, se possibile, nurse Robbins – interloquì Terence, fortemente preoccupato per le parole dell’infermiera.
In che condizioni realmente era suo padre? Qual era la gravità del suo stato? Il fatto che fosse stato in grado di scrivere di suo pugno (era la sua grafia, su quello non nutriva dubbi di sorta) la lunga confessione a cuore aperto che gli aveva inviato lo aveva inizialmente rasserenato, ma adesso le parole di nurse Robbins riaprivano le porte all’ansia. Terence si stupì di provare un così sincero coinvolgimento e turbamento per lo stato di salute di un uomo che si era impegnato con tutte le sue energie a cancellare dalla sua vita negli ultimi cinque anni.
- Sir Augustus Pritchard, il medico personale di Sua Grazia, sarà qui domani mattina e potrà aggiornarla con dovizia di particolari sulle sue condizioni, signor Marchese.
- Le sarei grata se potesse chiamarmi semplicemente Mr. Granchester, nurse Robbins.
Terence vide la donna sgranare gli occhi per lo stupore, e capì di averla quasi offesa, da esemplare suddita conservatrice di Sua Maestà, con l’anticonformismo di un futuro Pari d’Inghilterra che chiedeva di non anteporre il titolo al suo nome. Tuttavia, l’infermiera chinò il capo e acconsentì, come riteneva fosse dovere di una donna del suo rango di fronte agli ordini, persino ai più fantasiosi come quello che aveva appena ricevuto sotto le mentite spoglie di una gentile richiesta.
- Molto bene, signor Mar… Mr. Granchester. Se è tutto, io mi recherei nelle cucine per un tè con Mrs. Gouz. Il mio turno termina alle sei del pomeriggio, quando nurse Simmons, l’infermiera di notte, viene a darmi il cambio.
- Le sono molto grato, nurse Robbins. Vada pure. A domani! – le rispose Terence rivolgendole per la prima volta il suo sorriso, quel raro sorriso che non mancava mai di produrre il suo incantesimo su chiunque fosse così fortunato da esserne il destinatario, e la donna si sentì tremare le gambe. Il marchese era veramente il giovane più bello che avesse mai visto in vita sua. Sua Grazia era un uomo affascinante, certo, sebbene la purezza dei suoi lineamenti fosse al momento lievemente alterata dalla paresi. Ma il figlio possedeva in aggiunta quel qualcosa di indefinibile che lasciava senza fiato una donna, ecco cosa pensava Mrs. Robbins. Fortunatamente lei non aveva venti anni di meno, altrimenti Mr. Robbins avrebbe avuto il suo bel daffare per farle togliere dalla testa quel giovane, quella sera.
Rimasto solo, Terence trasse un profondo respiro e si diresse a passo lento verso la camera da letto. Ad ogni suo passo verso l’arco che dava accesso alla camera vera e propria, si apriva uno squarcio di visuale sempre più ampio, con lo stesso intenso effetto di un sipario che venisse lentamente aperto a mostrare porzioni sempre più vaste della scena principale di un dramma.
La camera era enorme, intrisa della stessa gelida atmosfera che Terence ricordava bene, sebbene la temperatura venisse mantenuta calda grazie al fuoco scoppiettante nell’enorme camino dominante la parete di fronte al letto, ed a un enorme e folto tappeto che ricopriva pressoché l’intero pavimento di pietra. Tutto l’arredamento, dalla poltrona in legno massiccio di fronte al camino, al tavolo rotondo con le quattro sedie sotto la grande finestra chiusa da pesanti tendaggi, al secrétaire istoriato d’oro, era di pregiato legno massiccio e chiaramente ogni pezzo si trovava esattamente nello stesso punto in cui era stato posizionato dai primi abitanti di quel castello, nel XVI secolo. A dominare l’ambiente era comunque l’enorme letto a baldacchino, guarnito da pesanti tendaggi di velluto rosso e oro, i colori di famiglia, raccolti morbidamente in onde che si avvolgevano attorno alle colonne elaboratamente intagliate.
Semi-sdraiato su quel letto, con la schiena poggiata su un numero spropositato di guanciali a sostenerlo e le gambe allungate davanti a sé sotto una coltre di coperte, una veste da camera di velluto damascato rosso poggiata sulle spalle e metà del volto in ombra per effetto del drappeggio che schermava il letto, Sua Grazia Richard Charles Stanton, Lord Cobton e Duca di Granchester, fissava verso l’ingresso della camera la slanciata ed elegante figura del figlio, immobile nella lama di luce che filtrava dall’anticamera.

*Liberamente da me tradotto da: Kioko Mizuki, Final Story, Volume II, Pagine 83-92.
**Romeo e Giulietta, Atto I, Scena II


...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 20/5/2013, 12:16
 
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Terence rimase lì per qualche secondo, assimilando la sensazione di trovarsi nella stessa stanza con suo padre, di respirare di nuovo la sua aria. Aspettava che la familiare ondata di rabbia lo travolgesse, nel modo che ben ricordava, prima di defluire lasciando dietro di sé la risacca della frustrazione. E invece non sentì nulla. Era lì, ogni muscolo del corpo teso allo spasimo, i pugni stretti tanto forte da fargli male e lo sguardo, ombreggiato dai lunghi capelli che gli spiovevano sul volto, fisso verso il letto, cercando di trarre la giusta battuta d’esordio dal vasto repertorio di frasi che da tanti anni desiderava rivolgere a quell’uomo.
- Terry… avvicinati figliolo!
Non fu il fatto che lo avesse chiamato Terry, come non avveniva più da quando era bambino; né che lo avesse chiamato figliolo, come forse non era mai avvenuto.
Fu la sua voce.
Era quella la voce di suo padre? C’era un inflessione diversa, forse dovuta alla malattia o forse all’imbarazzo. O ad un qualche timore, non avrebbe potuto dirlo.
Nel corso di ogni vita vi sono poche, determinanti occasioni in cui il tempo risulta come sospeso, e la scelta della direzione prendere da quell’esatto punto darà un’impronta piuttosto che un’altra a tutto il proprio destino. Terence lo sapeva, ed era consapevole di trovarsi in uno di quei momenti, così come era certo che quando fosse uscito da quella stanza in un modo o nell’altro niente sarebbe stato più lo stesso.
Si avvicinò lentamente al letto, i drappeggi scoprivano a poco a poco il volto del padre a mano a mano che riduceva la distanza che li separava e, sebbene fosse preparato ad affrontare il segno degli inevitabili cambiamenti intervenuti nel corso degli anni di lontananza, Terence non era preparato a ciò che vide e sussultò, bloccandosi a circa un metro da lui.
Il duca di Granchester aveva 45 anni, ma ne dimostrava dieci di più. L’affascinante aristocratico dallo sguardo di ghiaccio e dai lineamenti cesellati ma terribilmente virili, le spalle larghe e la corporatura slanciata identica a quella del figlio, aveva ceduto il passo a un uomo di mezza età, magro e leggermente curvo, l’incarnato grigiastro e le guance scavate. Gli occhi erano cerchiati di blu e avevano perso l’espressione di alterigia che li aveva sempre illuminati. Come nurse Robbins aveva avvertito Terence, il lato destro del volto, dal sopracciglio al mento, aveva lievemente ceduto, fortunatamente non tanto da privarlo dell’espressività del volto o da alterarne i tratti, ma piuttosto contribuendo ad accentuare un’idea di sofferenza, di sconfitta, che nel complesso caratterizzava ogni tratto di quell’uomo che in passato aveva espresso, al contrario, potere e autorità con ogni suo gesto e parola.
Terence non disse nulla, ma le sue iridi di cobalto si accesero di una fiamma più intensa quando arrivò al cospetto del padre e si ritrovò a fissarlo negli occhi grigi, sospeso tra il timore e la speranza di ritrovare qualche traccia dell’uomo che ricordava.
- Grazie per essere venuto, Terry – gli disse il padre, facendo il gesto di allungare una mano verso di lui ma bloccando il movimento quasi subito, lasciando ricadere di nuovo il braccio sulle coperte con un movimento lento - Non so dirti quanto questo significhi per me. Siediti figliolo, ti prego…
Il duca gli indicò una poltroncina di velluto scuro accanto al letto e Terence vi sedette, molto teso. Con i gomiti poggiati sui braccioli incrociò le mani in grembo e si appoggiò allo schienale, continuando a tenere gli occhi fissi sul padre. Non aveva ancora detto una parola all’uomo che si trovava dinanzi a lui per la prima volta da più di cinque anni a quella parte, ed era interiormente squassato da una lotta tra le contrastanti emozioni che quell’incontro aveva risvegliato in lui. Lo shock di vedere di fronte a sé il genitore così fragile e indebolito, rispetto al titano che aveva dominato la sua infanzia e giovinezza, si mescolava con il vecchio rancore tornato a rialzare il capo, subitaneamente risvegliatosi alla vista di quegli occhi plumbei che tante volte avevano osservato con indifferenza il suo dolore di bambino prima di voltarsi crudelmente dall’altra parte.
Il duca, osservandolo con quanto di più vicino a un sorriso Terence ricordasse di essersi visto da lui rivolgere fin da quando era molto piccolo, gli disse:
- Sei diventato un uomo Terence. Un vero Granchester.
Quelle parole ebbero l’effetto di rompere l’incantesimo che lo aveva paralizzato fino a quel momento. Sentire il padre, quasi a volerlo gratificare, chiamarlo con quel nome che lui stesso aveva scagliato contro se stesso migliaia di volte nelle sue notti insonni, quale peggiore delle accuse da rivolgere a un uomo, fu come ricevere una secchiata di acqua gelida in pieno volto. E altrettanto glaciale fu il tono in cui Terence gli rispose.
- Non uso più quel nome da molto tempo, padre, e vi sarei grato se vi atteneste anche voi a questa accortezza. Sono solo Terence Graham, adesso. Come sapete non ho mai attribuito particolari motivi d’orgoglio all’appartenenza al casato che avete citato.
- Non disprezzare l’onore del quale decine e decine di tuoi antenati hanno colmato questo nome, figliolo, spesso a costo della loro vita. E non vanificare secoli di servizio al Regno solo per il disprezzo che nutri nei confronti di uno solo di loro – gli rispose il duca, con un breve sfavillio a illuminargli gli occhi.
- L’onore è un concetto sopravvalutato a mio modesto parere, padre – rispose Terence con voce tagliente di sarcasmo - ho avuto modo, purtroppo, di approfondire questa riflessione in molteplici occasioni in questi anni. Sebbene potrei dire che il primo insegnamento in tal senso mi sia giunto proprio da voi!
- Non dire così, figliolo. L’onore non è mai sopravvalutato, né sarebbe possibile. E’ la spina dorsale attorno alla quale un vero uomo non può non costruire il proprio codice di valori. Sono le nostre azioni più abiette, per le quali troviamo opportuna copertura al riparo del suo nome, che talvolta ne distorcono il significato. Più spesso di quanto vorremmo, ne facciamo un alibi per agire non come “è giusto” ma come “dobbiamo”. Ho imparato a mie spese nel corso della mia vita la differenza tra onore e dovere, quante volte li abbia stupidamente confusi, e quanto avrei dovuto invece imparare da mio figlio quale sia il comportamento di un vero uomo d’onore.
Terence era allibito.
Sentire pronunciare direttamente con quella voce affaticata dalla malattia quei concetti che suo padre gli aveva già scritto, quelle parole di pentimento e ripensamento di tutta la propria esistenza, era quanto di più straniante avrebbe mai potuto immaginare. I lineamenti, la voce, i pensieri stessi di quell’uomo erano quelli di una persona diversa rispetto al padre che ricordava, e gli toccavano corde sensibili e messe a tacere da troppo tempo. Si chiese quanto del cambiamento di cui stava appena cominciando a valutare la portata fosse dovuto all’essersi trovato faccia a faccia con la morte.
- Come vi sentite, padre?– gli chiese quindi, con voce ancora dura ma consapevole in maniera dolorosa di quanto l’uomo di fronte a lui dovesse essersi sentito vicino alla fine dei suoi giorni.
- Ho passato dei momenti difficili, figliolo. Il mio cuore pare non sia mai stato così forte e saggio come lo avevo valutato in passato… - il duca fece una pausa guardando intensamente Terence – comunque, forse devo ringraziarlo per avermi dato un segnale. Sì, considero l’accaduto quasi come una benedizione
- E cosa dice il dottore circa la vostra ripresa? – si informò Terence mentre il suo tono, inconsapevolmente, si addolciva di una infinitesimale ottava.
- Il dottore innanzitutto ci ha tenuto a farmi sapere quanto io sia fortunato a essere ancora con voi, Terence. Ovviamente solo tu puoi dirmi se (e quanto) condividi personalmente questo punto di vista di Sir Pritchard... – il duca si interruppe fissandolo e Terence sostenne il suo sguardo senza dire nulla e senza mutare espressione – ...ma io non intendo più sprecare ulteriore tempo di quello che mi è stato concesso, breve o lungo che sia. Ad ogni modo, per rispondere da un punto di vista squisitamente medico alla tua domanda, il vecchio duca di Granchester, il leone della camera dei Lord, il “feudatario” sempre in viaggio per i suoi vasti possedimenti al fine di terrorizzarne gli abitanti, è ormai un ricordo del passato. E senza arrivare ad affermare che sarò relegato in questo letto per il resto della mia vita, figliolo, le mie attività dovranno molto allentarsi in futuro.
- “Allentarsi”? – chiese Terence, domandandosi a quali limitazioni il padre andasse incontro in concreto.
- A qualcuno potrebbe sembrare una piacevole prospettiva quella di dedicare la seconda parte della propria vita ad attività puramente meditative e riposanti, come la lettura del giornale al club, ovviamente privato dell’accompagnamento di un buon scotch, le sedute meno controverse e dibattute del Parlamento e la visita dei propri nipoti, quando avrò tale benedizione.
- Non a voi, padre… - Terence sorrise suo malgrado, ricordando quanto poco nella sua infanzia avesse potuto godere della vicinanza, sia pure indifferente, del padre.
Egli era stato costantemente impegnato in qualche importante dibattito in Parlamento, piuttosto che nel frequente giro delle sue terre per aggiornarsi di ogni cosa vi avvenisse, premurandosi anche di tenere in costante allarme ogni suo dipendente e servitore a causa di quella durezza dei suoi modi con cui era solito evidenziare ogni dettaglio del loro lavoro che non incontrasse la sua approvazione.
- D’altro canto, Terence, aver tempo di meditare non è certo qualcosa di negativo a priori… - Terence capì che era giunto il momento del confronto aperto - ...per cui credo sia giunto il tempo di parlare a cuore aperto di noi due e di ciò che ci ha allontanati. E ti prego di non rispondermi, come hai fatto in occasione del nostro ultimo incontro, che io non ho un cuore: nelle mie condizioni potrebbe suonare come un’affermazione di pessimo gusto.
Terence era allibito: il duca di Granchester aveva davvero appena fatto una battuta di spirito?
- In questo caso mi limiterò a constatare che lo tenevate evidentemente ben nascosto negli anni della mia infanzia, padre.
- Terry – esordì il duca, senza abboccare alla provocazione del figlio. Conosceva bene il suo temperamento e non si aspettava certo una pronta ed entusiastica accettazione delle sue scuse, da quel fiero e orgoglioso uomo nel quale era maturato il suo ribelle ragazzo - la mia vita non è stata costellata solo di errori, ma devo ammettere di averne fatti parecchi, soprattutto con te. A mia parziale attenuante potrei dire che da quando hai raggiunto l’età della ragione tu non hai fatto molto per impedirli. Anzi, ti sei divertito a gettare benzina sul fuoco come se, più alte fossero state le fiamme del nostro risentimento, meglio ti facesse sentire odiarmi. Ma lasciamo per il momento da parte tali considerazioni, giacché non ti ho fatto attraversare l’oceano per ascoltare recriminazioni da parte mia. Quali che fossero le tue colpe, tu eri un bambino, e poi un ragazzo, e io un uomo e un padre che avrebbe dovuto coltivare la tua anima, invece di rifornirti sbrigativamente solo di un codice di condotta esteriore con cui rivestirla. E considerando la mia assenza, anzi, oserei dire il mio ostruzionismo in questo, non posso che essere orgoglioso dell’uomo che sei diventato senza il mio aiuto.
“Come pensa di conoscere il tipo d’uomo che sono diventato?” si chiese Terence, ma senza dar voce a quella domanda, affascinato dal fatto di poter ascoltare, messi a nudo per la prima volta, gli intimi pensieri del genitore.
- Quando sei andato via, Terence, ero furioso di rabbia per l’estremo epilogo della tua costante ribellione alla mia autorità…
- Io non mi sono ribellato alla vostra autorità, padre – lo interruppe Terence - Ma alla vostra distanza da tutto ciò in cui io credevo. Ed alla vostra pervicacia nell’impormi di diventare ciò che non sono e non sarò mai.
- E’ vero, Terry. Tu non sarai mai come me!
Terence spalancò gli occhi, le meravigliose iridi blu dilatate, colpito al cuore nel sentir pronunciare proprio da suo padre il mantra della propria ribellione a lui. Se lo era recitato per anni, ma poi gli si era ripercosso contro: nel momento supremo della sua vita, quello in cui avrebbe dovuto trasformare le parole in fatti, lottando per colei che più amava al mondo contro il destino avverso, aveva invece replicato proprio l’odiato stereotipo paterno, perdendo tutto ciò che per lui avesse un valore. La rivelazione ancora una volta lo colpì dolorosamente, come un pugno in pieno sterno che gli mozzò il respiro.
Era quello, sì, era quello, ciò che non riusciva a perdonargli!
Mille volte di più dei lunghi anni di solitudine e incomprensione in cui il padre lo aveva fatto crescere con la sua assenza e i suoi silenzi. Mille volte di più delle vessazioni a cui lo avevano sottoposto la sua matrigna e i suoi fratellastri, nel silenzio indifferente e quindi complice di suo padre, almeno fino a quando lui non aveva raggiunto l’età per ribellarsi con violenza contro di loro. E ancora di più del dolore e dell’umiliazione che il duca aveva inflitto a sua madre. Era l’avergli trasmesso quel senso dell’onore che gli era costato l’amore della sua vita. Ma ora, di fronte al padre e a se stesso, doveva avere l’onestà di domandarsi se fosse proprio il genitore il reale e giusto oggetto del suo odio. O forse lui era stato solo il più comodo dei paraventi dietro il quale nascondere la propria debolezza?
Era giunto il momento di fare i conti con la realtà.
- Padre, io… io credo di essere più simile a voi di quanto voi stesso possiate immaginare!
Il duca aggrottò le sopracciglia:
- Cosa intendi dire, figliolo?
- Che il motivo per cui sono qui oggi, al di là della vostra lettera e della preoccupazione per la vostra salute, è che il tempo ha aiutato anche me a comprendere quanto sia difficile interpretare il ruolo di uomo – Terence chinò lo sguardo, fissando con occhi ardentemente brillanti le proprie mani ancora intrecciate in grembo.
Il duca evidentemente non si aspettava una tale aperta confessione, perché rimase per qualche secondo in silenzio e sospirò ad occhi chiusi, assimilando la portata delle parole appena pronunciate da Terence, e cercando di immaginare quali dolori e quali sofferenze potessero aver causato un tale triste bilancio nel suo amato figlio poco più che ventenne.
- So che la tua fidanzata è morta circa un anno fa, Terry….
- Desidererei non parlare di lei, padre – lo interruppe Terence con un tono tagliente come una lama d’acciaio. Un tono che non ammetteva repliche.
Il duca annuì. Ci sarebbe voluto del tempo, se mai fosse successo, perché il muro tra lui e suo figlio potesse venire completamente sgretolato. Non intendeva rovinare tutto sfilando il mattone sbagliato prima che fosse giunto il momento.
- Figliolo, la distanza creatasi tra noi ha radici molto lontane, che affondano in errori da me commessi ancor prima della tua nascita. E, per essere completamente chiari, desidero dire che quando parlo di tali errori non mi riferisco all’avere amato tua madre – Terence rimase allibito nell’udire per la prima volta il padre associare la parola “amore” al nome di sua madre – ma piuttosto al non essere stato capace di riconoscerne il reale valore. Tua madre mi ha mostrato cosa fosse la vera grandezza d’animo, Terence, sì. Non posso riparare a ciò che le feci. Non tanto con il mio allontanamento, che considero ancora oggi inevitabile, ma per il modo in cui lo gestii: da ragazzino immaturo e impreparato ad affrontare una situazione più grande di lui. Posso solo domandarle perdono.
Terence ascoltava in silenzio quel tributo alla madre pronunciato dall’uomo che le aveva causato l’enorme sofferenza che sarebbe poi stata compagna di gran parte della sua vita. Colui che, approfittando del suo amore, le aveva strappato il figlio amatissimo per più di dieci anni, facendoglielo poi ritrovare intriso nel rifiuto causato dai lunghi anni di lavaggio del cervello a cui era stato sottoposto da suo padre e dalla sua matrigna.
Il duca continuò, raccontando di come Eleanor si fosse sottomessa per amore del figlio: gridare al mondo lo scandalo avrebbe significato privarlo dei suoi diritti come erede legittimo del duca e della sua nuova moglie, figlia di esponenti di nobiltà minore, che aveva accettato la situazione in cambio del titolo di duchessa, salvo covare poi una rabbia sorda e implacabile contro quel bambino che con la sua sola esistenza privava i suoi figli naturali dei diritti di successione. Da lì erano derivate le vessazioni e le crudeltà psicologiche con le quali quella donna, frustrata da un matrimonio senza amore e dall’invidia verso quel bambino che possedeva, anche nell’aspetto e nell’intelligenza, tutte i doni che mancavano ai suoi figli, aveva tormentato l’infanzia di Terence. Il duca, dal canto suo, non era stato in grado di porre fine a questa spirale di rancore e rabbia, prigioniero delle proprie scelte che tanta infelicità e sofferenza avevano causato in tutti coloro che amava, aveva amato, gli stavano accanto.
- La duchessa qualche anno fa ha ritenuto di aver concesso abbastanza al nostro matrimonio in cambio di ciò che aveva ricevuto, e da allora viviamo vite separate: lei a Windermere e io tra Londra e la Scozia. Per quanto io sia consapevole delle sofferenze che ti ha causato in passato, non riesco a odiarla, Terry. Credo che anche lei sia stata una vittima delle mie azioni scellerate.
- Non credo ancora di essere in grado di separare la razionalità dall’emotività, quanto a questo, padre. Spero vorrete scusarmi ma la duchessa e i suoi figli dovranno attendere ancora il mio perdono! – replicò Terence con un tono fortemente sarcastico che non riusciva a nascondere profonde cicatrici. Il suo tono non ammetteva repliche.
- Capisco, figliolo. Ho il cuore lacerato al pensiero di ciò che ho lasciato ti accadesse da bambino. E dall’averti poi abbandonato fin dalla tenera età in collegio, invece di fare il mio dovere di padre, lasciandomi respingere dalla tua ribellione.
Terence sorrise per la prima volta dall’inizio di quel difficile colloquio:
- Di tutte le cose di cui vi dolete, padre, questa è l’unica per la quale potete assolvervi fin da subito. Non potrei esservi più grato di quanto sono per avermi fatto studiare alla St. Paul School – Terence chiuse gli occhi, i lineamenti improvvisamente distesi e addolciti, al pensiero di un ragazzo in costume del settecento e di una ragazza vestita da Giulietta che ballavano su una collina, la brezza leggera di un maggio in fiore ad accarezzarli dolcemente e il cuore pieno di sentimenti nuovi e sorprendenti per la loro stessa intensità. Un bacio, per Terence la promessa di tutto ciò che di radioso il futuro avrebbe potuto portare per entrambi, se solo le cose fossero andate come sembrava possibile in quel lontano giorno di primavera.
Mai più! Mai più aveva provato quella sensazione di totale gratitudine per la vita.
Il duca sembrò capire, ma non chiese nulla. Ci sarebbe stato tempo, se Dio gli avesse fatto dono dell’affetto del figlio che aveva creduto perduto, di recuperare i pezzi del passato che avevano perso l’uno dell’altro.
- Padre, la cosa che conta di più per me è la vostra ammissione di responsabilità verso mia madre e verso ciò che c’è stato tra voi. Il passato non può essere cambiato, ma il fatto che chiediate perdono a lei costituisce per me il presupposto di qualunque possibile evoluzione nei nostri rapporti in futuro. La mia vita d’adulto mi ha insegnato (e purtroppo a mie spese) quanto sia difficile affermare i propri principi e tutto ciò in cui si crede in quei pochi istanti in cui la vita ci impone scelte particolarmente dolorose. E soprattutto... – a Terence si spezzarono le parole, ma si sforzò di concludere con voce roca – quanto sia facile fare soffrire proprio coloro che amiamo di più al mondo… e per la quale il nostro unico desiderio è amarla, accudirla, proteggerla… poterla avere vicina per sempre… o forse solo per quell’unico istante ancora, per un’ultima occasione di dirle quanto la amo e l’amerò sempre.
Terence non si era accorto di aver mutato i termini del suo costrutto mentre parlava dando voce ai suoi sentimenti, e di aver completato la frase parlando al singolare, rivolgendo il suo pensiero direttamente all’unica persona che da sei anni occupava il suo cuore, prima con la forza del suo amore e poi con il vuoto lasciato dalla sua assenza.
Il duca annuì. Tutto gli era chiaro, adesso. Fu acutamente colpito dall’immane rimpianto che aveva percepito nelle parole del figlio. Poteva cercare di riparare ai suoi errori ma, cosa di cui ogni genitore si rende conto a un certo punto della sua vita, era impotente al cospetto del dolore che il fato sembrava avere riversato a piene mani sul figlio.
- Figliolo, accetta le mie più profonde scuse per ogni sofferenza che ti ho causato in passato. Il mio unico impegno da ora innanzi è di essere un vero padre, degno non soltanto del nome che porto, ma soprattutto di quello che lascerò a te.
Terence all’improvviso avvertì la tensione abbandonarlo e le lacrime salirgli agli occhi, il turbinio di emozioni causato dalle confessioni e dalla richiesta di perdono del padre si mescolava alla rievocazione dei propri più profondi sentimenti per il suo amore perduto.
Adesso più che mai comprendeva suo padre. Sentiva di poterlo perdonare, come già aveva fatto sua madre, per aver compiuto la scelta sbagliata di fronte al bivio che si era trovato a incrociare troppo presto e impreparato. Ma solo il tempo avrebbe detto se tutte le successive fratture scavate fra di loro in un passato fin troppo doloroso sarebbero state ricomposte, con pazienza e perseveranza.
Pensò a Candy, alle parole che lei gli aveva lanciato tra le lacrime quando lo aveva spinto a riconciliarsi con la madre:
"Se io fossi stata così fortunata da avere dei genitori non avrei mai permesso a niente e nessuno di separarci… hai la più grande delle fortune e la stai gettando via per inutile orgoglio! L’orgoglio non ti consolerà quando resterai solo!"
Era sempre stata lei a ispirargli i migliori sentimenti, gli unici incontaminati, che avesse mai provato nella sua vita! A indicargli la strada di ciò che poteva renderlo felice e che per pura arroganza lui si rifiutava di vedere. Ma non si era mai limitata a spronarlo: lo aveva sempre accompagnato per mano verso la giusta direzione, con quel suo meraviglioso e caldo sorriso che avrebbe sciolto i ghiacciai. Da quando l’aveva lasciata andare, vagava come un cieco senza una meta. Era giunto il momento di far cadere quel velo che gli aveva occluso la vista per troppo tempo e di riprendere la rotta maestra, seguendo la sua stella polare.
- Accettate anche voi le mie scuse per aver perseverato nell’orgoglio e nel rancore in tutti questi anni, invece di compiere io per primo il difficile passo che adesso voi, da vero padre, mi state insegnando a fare: quello del perdono. Non so quanto tempo occorrerà, ma spero di riuscire ad essere un vero figlio per voi.
Il duca, profondamente commosso dalle accorate parole del figlio ritrovato, affaticato dalle emozioni della giornata e debilitato dalla malattia, si appoggiò ancora più indietro sui cuscini e sospirò chiudendo gli occhi.
- Sei il migliore dei figli, Terry. E oggi hai fatto per il mio cuore più di quanto abbia fatto il pur ottimo dottor Pritchard nell’ultimo mese…
Terence sorrise. Non era la fine, bensì l’inizio di un cammino per lui e suo padre. Ma la porta era stata aperta, e la brezza del perdono era entrata nel suo cuore. Si alzò dalla poltrona e si sentì molto più lieve di quando vi si era seduto.
- Padre, adesso dovete riposare. Non temete, mi fermerò qualche tempo qui con voi a Granchester Manor. Ho annullato tutti i miei impegni nell’immediato futuro.
Terence sentiva il bisogno di fermarsi a riflettere attentamente sui suoi prossimi passi. La sua vita stessa era al bivio più importante.
- Vuoi dire che il pubblico di Broadway per un po’ di tempo dovrà rinunciare alla tua meravigliosa interpretazione di Otello, Terry?
Terence era stupefatto:
- Voi avete seguito la mia carriera, padre?
- Ho seguito la carriera di uno dei più stupefacenti interpreti shakespeariani dei nostri tempi. Il mio vecchio amico Sir Francis Robert Benson mi ha magnificato personalmente le tue straordinarie doti dopo averti visto interpretare Amleto l’anno scorso a New York.
Terence represse un moto d’orgoglio: Sir Benson era uno dei maggiori attori teatrali degli ultimi trent’anni, nonché da tempo immemorabile direttore dello Shakespeare Memorial Theatre di Stratford-upon-Avon. Si trattava della più prestigiosa compagnia teatrale shakespeariana d’Inghilterra, arena di puristi indefessi schierati a testuggine in difesa della versione originale del first folio contro tutte le sue successive contaminazioni. Terence stesso, insieme a Robert Hathaway, aveva spesso in passato combattuto vere battaglie contro alcuni sedicenti registi, autori di versioni rimaneggiate delle opere di Shakespeare, semplicemente inaccettabili dal suo punto di vista di amante appassionato del grande drammaturgo.
- Spero di riuscire a vederti recitare, figliolo. E’ un mio grande desiderio.
- Succederà, padre, ne sarei molto orgoglioso! – rispose Terence con sincerità – Adesso riposate, ve ne prego, non vorrei che il vostro cuore affaticato tornasse a rintanarsi in qualche oscuro recesso dove sarà di nuovo impossibile cogliere qualche segno della sua presenza…
Il duca sorrise e Terence proseguì:
- Ci rivedremo domani e magari potrei cominciare col leggervi qualcosa dalla nostra biblioteca…
- Sarebbe splendido, figliolo. Terry… grazie!
Quel ringraziamento, Terence lo capì, non era relativo all’offerta di leggere per lui. Il padre era grato per la seconda occasione che il figlio e la vita gli avevano concesso.
Con un ultimo sguardo all’uomo che aveva già chiuso gli occhi, Terence si voltò e lasciò la camera, sentendosi, come mai prima di allora al cospetto del padre, un uomo, e non più un ragazzo pieno di rabbia incontrollabile e autodistruttiva.

_________________________



... CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 20/5/2013, 12:21
 
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Care amiche, questo brano è accompagnato da un video che ne costituisce la colonna sonora.
Se vi va, avviatelo quando lo incontrate e andate avanti nella lettura ascoltando le sue note.


Aberfoyle, Loch Lomond,
Scozia

02 aprile 1919


Fu la luce del mattino a svegliare Terence.
Disteso sul divano di fronte al camino il cui fuoco si era ormai esaurito, lasciando al suo posto un cumulo di cenere fumante, teneva la regina bianca ancora stretta nella mano.
Era già giorno fatto: aveva dormito tutta la notte, notò aprendo gli occhi mentre le nebbie di un sonno ristoratore si diradavano attorno a lui e prendeva coscienza con gratitudine del fatto che sul suo volto aleggiava un sorriso appagato. Si voltò alla sua sinistra, verso la grande finestra nello spazio tra i cui pesanti tendaggi si faceva strada con decisione una netta lama di luce, e si alzò per aprire le cortine che impedivano al sole di penetrare pienamente nella stanza. Per un attimo rimase completamente abbagliato e strinse d’istinto gli occhi, per riaprirli però subito e lasciarsi inondare dalla meravigliosa vista della lussureggiante campagna attorno al castello, splendente nella luce abbacinante di uno spettacolare e radioso mattino di sole.
La primavera era ormai davvero alle porte, e quell’angolo di mondo si mostrava in tutta la gioia della propria orgogliosa rinascita al termine di un lungo inverno. L’erba del prato digradante era di un verde brillante, inframmezzato da stille di diamanti che vi giacevano come dimenticate dalla pioggia della sera prima, ed ai lati della casa si allargavano dei vialetti costeggiati da arbusti d’erica sempreverde, che ondeggiavano dolcemente nella lieve brezza del mattino. Il bosco in lontananza sembrava tracciato dalle pennellate di un pittore impressionista, con le sue macchie di marrone e di verde in decine di tonalità diverse, ciascuna esaltata dai raggi dorati del sole che filtravano guizzando attraverso le fronde. E, quasi per magia, sullo sfondo di tutto, tra due macchie di regali faggi, faceva imprevedibilmente capolino un frammento di azzurro trasparente e sfavillante, sul quale il riverbero dei raggi del sole accendeva simultaneamente milioni di scintille di platino. Era il lago di Loch Lomond, il più grande della Scozia, che bagnava tra le altre la contea di Stirling, dominata da Granchester Manor.
A Stirling nel XIII secolo, sotto la guida dell’eroe nazionale ancora oggi venerato da ogni cittadino scozzese, il condottiero e martire William Wallace, un esercito di indomiti e coraggiosi fanti armati solo del proprio coraggio aveva strappato agli inglesi una delle più memorabili ed epiche vittorie nella storia delle guerre di indipendenza scozzesi. Terence aveva sempre ammirato la tempra scozzese, che gli inglesi non erano mai riusciti a piegare nonostante secoli di oppressione tra le più feroci che la storia ricordasse, e la loro straordinaria capacità di aggregarsi attorno all’icona della propria libertà e identità nazionale. Sentiva molto forte in sé il retaggio di tali antenati, che gli avevano fatto dono, attraverso secoli e secoli di storia, di quell’istinto alla ribellione di fronte a ogni autorità non riconosciuta. Quell’istinto che lo aveva acceso contro suo padre e la sua matrigna, prima, e negli anni della scuola contro l’ipocrita Suor Grey; e da adulto quell’istinto lo aveva portato alla più vile e abietta delle ribellioni, quella contro il suo destino. Anche se in quel caso nel peggiore dei modi, che lo aveva fatto precipitare, col passo reso sempre più incerto dai fumi dell’alcol, fino a Rocktown…
Si riscosse dai suoi pensieri. Quella giornata era troppo bella per non approfittarne…
Fece colazione in cucina con Mrs. Gouz, bevendo del tè con latte e zucchero e mangiando di gusto delle ottime uova strapazzate accompagnate da soffici pancake allo sciroppo d’acero, amorosamente preparati dalla materna governante in omaggio alle abitudini yankee assunte negli ultimi anni dal Marchese. Quindi, dopo essere passato a salutare suo padre, Terence indossò la tenuta d’equitazione, prese dal comodino della sua stanza l’armonica donatagli da Candy, da sei anni il più sacro dei suoi tesori, la ripose con gesti intrisi di delicatezza nel taschino interno della giacca e si recò alle scuderie.
In quelle settimane Terence e il padre avevano trascorso lungo tempo insieme, parlando e ripercorrendo quel passato di cui a poco a poco stavano tentando di dissipare le ombre; giocando a scacchi, attività nella quale il duca eccelleva, ma rispetto alla quale aveva trovato nel figlio un rivale ben più temibile e ostico rispetto al bambino di dieci anni al quale aveva svogliatamente insegnato con l’unico intento di placarne per brevi periodi le ribellioni; leggendo brani di Shakespeare che Terence declamava in intime serate in camera del padre, davanti al camino acceso. Il duca di Granchester, vibrante d’orgoglio, restava in quei momenti immobile, gli occhi incollati agli eleganti e armoniosi gesti del figlio intento a interpretare gli immortali versi del bardo, che sapeva accendere con la sua voce di un calore simile a fuoco liquido nel rivolgersi a Desdemona folle di gelosia o, in un solo istante, trasformare in raggelante acciaio capace di trapassare con facilità l’anima dello spettatore, incarnandosi nell’anima oscura e tenebrosa di Macbeth.
Sir Augustus Pritchard aveva rassicurato Terence sulle possibilità di ripresa di Sua Grazia: passati i primi due o tre mesi di osservazione, se il decorso fosse continuato serenamente come le attuali condizioni lasciavano sperare, le probabilità che il duca potesse tornare a una vita pressoché piena erano molto alte. Certo, avrebbe dovuto seguire un regime regolare e scandito da riposo, alimentazione controllata e la messa al bando del suo scotch e dei suoi tanto amati sigari, ma, a parte questo, probabilmente pochi strascichi avrebbero ricordato a Sua Grazia di avere guardato la morte in faccia così da vicino.
Terence aveva quindi deciso di restare al suo fianco in quelle prime settimane di riabilitazione, tanto più che con Robert avevano stabilito che sarebbe stato sostituito fino al termine della tournée negli stati orientali. Sarebbe rientrato in tempo per l’inizio delle prove della nuova stagione che lo avrebbe visto in palcoscenico, per la prima volta da quell’inverno fatale di tanti anni prima, nei panni di Romeo.
Quando non era col padre, che lentamente cominciava a muovere qualche passo con l’aiuto di un bastone, Terence trascorreva le sue giornate leggendo nella grande biblioteca, o facendo lunghe passeggiate a cavallo nel parco e nei dintorni del castello, nonostante il tempo inclemente. Ma, qualunque fosse l’attività alla quale si dedicava, era costantemente immerso nei propri malinconici pensieri e intrappolato nella rete da cui si sentiva ancora avviluppato, senza riuscire a sciogliere del tutto i nodi che la serravano. Nonostante Candy gli mancasse come manca l’aria a colui che stesse annegando e la luce a chi fosse rinchiuso da troppo tempo in una cella senza spiraglio alcuno, non riusciva ancora a decidersi a spezzare quel silenzio che era calato tra loro dopo la notte in cui si erano separati.
Sì, il giorno in cui la guerra era finita, in quella festosa euforia che preludeva a un futuro meraviglioso, aveva sentito dentro di sé che era giunto il momento di rompere gli indugi e tornare da lei, supplicandola - se necessario - di perdonare la sua vigliaccheria per non averla fermata, e la sua cecità nel non avere riconosciuto in tempo la semplice verità: che lasciandolo lei si stava portando via quella stessa vita di cui Susanna gli aveva fatto dono col suo sacrificio. In quella euforica mattina di novembre aveva davvero sperato che potesse non essere troppo tardi per cancellare tutto ciò che li aveva divisi da quando lei aveva girato l’angolo di quella piazza spazzata dalla neve, scomparendo alla sua vista e spegnendo la luce del sole sugli infiniti e tormentati giorni, mesi e anni che erano seguiti.
Ma da quando era tornato in Scozia la paura era tornata a bloccare la sua volontà.
Ritrovarsi nei luoghi in cui aveva vissuto il suo amore e donato il proprio cuore alla sua dolce Giulietta gli aveva fatto sentire con ancora maggiore intensità il rimorso per tutto il dolore che le aveva causato amandola. Quando l’aveva conosciuta, lei gli aveva restituito la vita che allora lui stava buttando al vento, cieco e smarrito nei suoi labirinti di rancore. E lui con cosa aveva ricambiato quel miracolo che lei aveva saputo compiere con la sua dolcezza ed il suo amore? Solo con lacrime e sofferenze. Dal momento in cui aveva rischiato l’espulsione dal collegio fino all’epilogo su quelle scale, il suo amore le aveva causato solo lacrime. Come poteva tornare da lei?
Eppure…
Eppure: dirle che l’amava ancora! Dirle che l’aveva sempre amata e che il suo cuore sarebbe sempre appartenuto solo a lei, come uno scrigno di cui solo lei possedeva la chiave. Almeno quello: dirle le parole che da sei anni urlavano nel silenzio e rimbombavano nel vuoto del suo cuore, che non aveva mai potuto confessarle e che da allora aveva cercato invano di sublimare migliaia di volte sul palco rivolgendole a Cordelia, a Desdemona, a Ofelia, a Viola, ma in realtà desiderando solo sussurrarle alla sua unica Giulietta.
Almeno quello! Che lei sapesse che era da sempre e per sempre al centro del suo cuore e del suo universo...
Terence spronò al galoppo lo stallone dal lucente manto nero che aveva preso il posto dell’anziana Teodora, fedele compagna della sua gioventù, e si lanciò a velocità folle verso la riva del lago, col vento a scompigliargli selvaggiamente i lunghi capelli scuri, allo stesso modo in cui l’immagine della sua dolce ragazza agitava i pensieri nella sua mente.
Giunto sulla riva del lago Terence rallentò l’andatura e mise il cavallo al passo, seguendo il corso dello specchio d’acqua per qualche centinaio di metri, fino ad arrivare alla radura cui era diretto.
Era un largo spiazzo erboso circondato da alti faggi che guardava a strapiombo da un altezza di circa dieci metri sull’acqua. Dopo aver legato il cavallo, Terence si diresse verso uno degli alberi più alti, si sedette sull’erba appoggiando la schiena all’ampio tronco, con lo sguardo rivolto verso il riverbero accecante del sole sulle acque del lago, e trasse dalla tasca l’armonica scintillante che aveva ricevuto quale pegno, in cambio della promessa di non fumare più su una collina considerata sacra.
“Ti ho reso la vita difficile, con le mie intemperanze da sbruffone, Tuttelentiggini!” sorrise teneramente il ragazzo a quel ricordo, i lineamenti immediatamente addolciti e rilassati, come ogni volta che due occhi di smeraldo prendevano possesso di lui con la forza possente dei ricordi .
Era incredibile che le immagini di un tempo così lontano fossero ancora tanto vividamente scolpite nella sua mente.
Portò l’armonica alla bocca, chiuse gli occhi, e lasciò che i ricordi fluissero ancora, accompagnati da una dolce melodia originaria proprio di quei luoghi, la ballata di un amore perduto...



Candy è distesa sull’erba alta, lucente e serica, e i morbidi capelli biondi sono sparsi attorno a lei creando uno straordinario contrasto con il verde intenso del prato. Le sue lentiggini spiccano con più evidenza che mai sul colorito color miele del quale il sole ha fatto omaggio al suo incarnato solitamente tanto candido. Il silenzio è rotto solo dal canto ritmico e ossessivo delle cicale.
Terence la stava aspettando da diversi giorni: sapeva perfettamente che lei sarebbe giunta per trascorrere l’estate presso la scuola estiva di Aberfoyle, poco distante da Granchester Manor, e in realtà deve confessare che è proprio Candy il motivo per cui lui stesso ha scelto di trascorrere l’estate in quei luoghi, nei quali non tornava da tanto tempo.
Freme per rivederla.
Quella ragazza gli ha rubato il cuore, gli è entrata nel sangue, e la quotidiana abitudine alle loro schermaglie, di cui si servono per mascherare il reciproco desiderio di stare insieme, gli è terribilmente mancata da quando ha lasciato la St. Paul School. Ha atteso il momento opportuno per trovarla da sola, senza i suoi importuni amici che in quel momento si stanno divertendo in barca sul lago.
Si avvicina a lei silenziosamente e si sente mancare il fiato nel rivederla dopo quei pochi giorni che gli sono sembrati infiniti. Prende atto della sensazione improvvisa di vuoto allo stomaco che accoglie l’ingresso di quei capelli color del grano nel suo campo visivo, sensazione che ha imparato ad attendersi ogni volta che sta per rivederla. Ma stavolta ha un’intensità diversa. Possibile che gli sia mancata tanto? Ormai il sole per lui sembra sorgere e tramontare con lei. Vorrebbe baciarla ancora, prova lo stesso travolgente desiderio che gliel’ha fatta attirare al petto alla festa di Maggio, lasciando cadere ogni prudenza, ma sa che lei non glielo perdonerebbe, non ancora… Resta lì a fissarla per un po’, un sorriso inconsapevole e struggente nella sua dolcezza che non vuole saperne di abbandonare le sue labbra. Sembra che lei stia dormendo o pensando intensamente a qualcosa… o a qualcuno…

Qualcosa le sfiora il viso e Candy sussulta e si solleva a sedere di scatto, allarmata, guardandosi a destra e a sinistra ma senza scorgerlo, perché lui sta alle sue spalle.
- Un serpente potrebbe salirti addosso se stai distesa nell’erba, non lo sai Tuttelentiggini?
Candy si gira e vede Terence che le sorride guardandola dall’alto, in mano un lungo rametto di erica con cui le ha accarezzato il volto. Arrossisce, pensando che Terence si è materializzato proprio nel momento in cui stava pensando intensamente a quanto lui le mancasse. Le sembra di averlo evocato con l’intensità stessa del suo desiderio.
- Terry, riesci sempre a sorprendermi! E smettila di tormentarmi con questo ramo! – esclama con un tono fintamente risentito che ha imparato con l’esperienza a sfoderare, per mascherare l’incontenibile gioia di rivederlo che puntualmente la coglie quando lo spazio attorno a lei si accende del riflesso blu dei suoi occhi.
Si rende conto con la forza di una certezza di quanto le sia mancato. Capisce di non essere più la stessa, da quando Terence è entrato nella sua vita, da quella nebbiosa notte di capodanno sul Mauretania.
- Se qualcuno deve sorprendersi sono io! Cosa ci fai qui da sola, Tuttelentiggini? Dunque non hai paura dei serpenti? No, hai ragione, sono loro che dovrebbero spaventarsi all’idea di avvicinarsi a te. Sei manesca, se ben ricordo… - le dice Terence ironico, con un sorriso irresistibile sulle labbra che si trasmette fino agli occhi, illuminando ancora di più, se mai fosse stato possibile, quella scintillante giornata estiva.
Quell’accenno allo schiaffo seguito al bacio che si sono scambiati fa arrossire Candy, esattamente come era nelle intenzioni di Terence, e il ragazzo ne approfitta per metterla ancora più in imbarazzo:
- Mi stavi forse aspettando? – le chiede sempre sorridendo, ma stavolta con una straordinaria dolcezza negli occhi.
Si fissano in silenzio, due smeraldi che si specchiano dentro due zaffiri; entrambi sorridono e Candy gode della semplice e straordinaria felicità di essere di nuovo vicina a lui. Anche lei sta pensando a quel bacio. Il cuore le batte all’impazzata da quando è apparso Terence, e un calore piacevole le attraversa il corpo, repentino e intenso come un fulmine. Si sente bene come non mai. Ha paura di ciò che sente, ma non vuole più negarlo. E’ quello l’amore? Non prova quella piacevole e rassicurante serenità che sentiva sempre vicino ad Anthony. Quando è con Terence si sente precipitare dal più alto dei burroni, ma non c’è niente a cui aneli di più: insieme a lui sa di poter volare…
- Cosa stai leggendo, Terry? – chiede, indicando il libro che Terence ha tra le mani, per spezzare quel silenzio che le dà le vertigini.
Lui si siede accanto a lei, così vicino che le loro braccia si sfiorano, e un fremito di desiderio li percorre entrambi, passando dall’uno all’altra attraverso il lieve contatto dei loro corpi.
- Non sono affari tuoi, Tarzan! – le nasconde il libro dal lato a lei più lontano e Candy si sporge sopra di lui per afferrarlo. Lottano per un po’, finché lei riesce a prendere il libro, cioè finché Terence lascia che lei lo raggiunga. Si immobilizzano così: i loro corpi che si toccano adesso, anziché sfiorarsi soltanto.
Un brivido.
Candy si sente invadere dalla consapevolezza che se Terence la baciasse in quel momento, stavolta non lo respingerebbe. Adesso non c’è niente al mondo che desideri di più che sentire di nuovo il sapore e il contatto di quelle labbra sulle sue. Terence la guarda e sembra esitare, ma poi la allontana con dolcezza, fissandola negli occhi e tenendole le mani sulle spalle. Non vuole sbagliare ancora: quei momenti sono un dono troppo prezioso.
- E’ Shakespeare! – esclama lei, abbassando lo sguardo verso la copertina del libro, nel tentativo di spezzare la palpabile tensione di quel momento – non sapevo che ti interessassi di teatro, Terry!
- Non lo faccio – si schernisce lui, imbarazzato.
- Non mentire, questo libro è sottolineato mille volte! Lo hai letto e riletto, scommetto che vorresti recitare questi drammi! – lei lo guarda con quello sguardo limpido che immancabilmente gli fa battere più forte il cuore. Quanto vorrebbe essere l’unico destinatario degli sguardi di quegli occhi dal riflesso di giada – ...ed io potrei interpretare la protagonista femminile!
Terence scoppia in una risata di cuore. Quanto è raro sentirlo ridere! A Candy si apre il cuore per la felicità…
- Così questi drammi diventerebbero farse, Tuttelentiggini!
Lei lo schiaffeggia delicatamente ed atteggia il viso a un finto broncio per quella insolenza.
E poi, lui comincia a raccontarle della propria passione per il teatro e del suo sogno di calcare il palcoscenico, un giorno.
- Lo farai, Terence. Sarai un grande attore, lo so! Tu sei intelligente, carismatico, coraggioso, orgoglioso ma anche onesto, generoso e… potrai diventare qualsiasi cosa tu vorrai, nella vita. Devi solo decidere quello che vuoi, veramente!
Terence, incantato da quelle parole che scendono come un balsamo ristoratore sul suo cuore di figlio rifiutato e schernito, la fissa intensamente:
- Io so esattamente quello che voglio, Candy…
Candy ha gli occhi incatenati ai suoi, rapita dal riflesso color fiordaliso che fa impallidire quello del Loch Lomond sotto di loro.
Senza bisogno di leggerli dalle pagine del suo libro, e senza staccare gli occhi dai suoi, Terence inizia a recitare con la sua voce musicale:

“E se fossero i suoi occhi, lassù, e loro, le stelle, in fronte a lei?
Allora la luce del suo viso farebbe impallidire di mortificazione
le due stelle come lampade in pieno sole;
e di lassù i suoi occhi versano per i campi dell’etere
un tal fiume di luce che gli uccelli,
credendo finita la notte, tutti insieme si mettono a cantare.” *



Il tempo sembra fermarsi, i loro sguardi sono incatenati… tutto può succedere….
E, all’improvviso, le urla di Iriza che precipita in acqua rompono l’incantesimo…


Il suono dell’armonica cominciò la sua parabola di chiusura in un accordo sempre più sofferto, che esprimeva tutto lo strazio dell’amore perduto, fino a che la radura non fu di nuovo completamente avvolta nel silenzio. Terence allontanò lo strumento dalla bocca e alzò lo sguardo a fissare il lago, tornando al presente. Sebbene fosse già aprile e splendesse il sole, all’ombra degli alberi la brezza era ancora pungente. Con un brivido che poteva essere provocato dal freddo, oppure causato dalla rimembranza appena vissuta, Terence raggiunse il cavallo e, lanciando dietro di sé un’ultima occhiata alle acque trasparenti del lago, diede l’addio a quei luoghi e spronò l’animale al galoppo verso casa.

*Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 20/5/2013, 19:39
 
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Appena rientrato al castello, fu immediatamente intercettato da Mrs. Gouz, la quale lo bloccò nell’atrio:
- Mr. Terence….
Terence non aveva voluto sentire ragioni e, di fronte al primo tentativo da parte della donna di rivolgersi a lui col titolo di marchese, le aveva intimato con sguardo severo di rivolgersi a lui con il suo nome di battesimo, come era solita fare da ragazzo. Di fronte al pallore terrorizzato che si era a quel punto diffuso sul volto di Mrs. Gouz, avevano trovato un compromesso nell’anteporre quel “Mr.” che almeno consentiva alla governante di dormire la notte.
– Mr. Terence, è arrivato questo per lei mentre era fuori per la sua cavalcata.
Mrs. Gouz gli porse un pacchetto di medie dimensioni, avvolto in anonima carta marrone e accompagnato da una busta, sulla quale Terence riconobbe la grafia della madre.
Da quando era in Scozia si era tenuto regolarmente in contatto epistolare con Eleanor, aggiornandola, dietro sua richiesta, sullo stato di salute del padre e sulla sua permanenza a Granchester Manor. Sembrava che Eleanor comprendesse quanto potesse essere delicato per Terence rivivere il suo passato tra quelle mura e che volesse, nel suo modo discreto e rispettoso, far sentire al figlio la sua vicinanza in quel difficile frangente, almeno tanto quanto le consentisse l’oceano che li separava. Terence riteneva che i sentimenti della madre nei confronti del duca si fossero lentamente modificati dalla rabbia e dal rancore dei lunghi anni che erano seguiti alla separazione dal figlio, a una accettazione quasi materna dei limiti di quell’uomo che aveva amato con tutta se stessa e che, una volta ritrovato l’affetto del sangue del suo sangue che credeva perduto per sempre, riusciva adesso quasi a compatire. Quando scriveva e parlava di lui, le espressioni e lo sguardo della donna non erano più colmi dell’amore di un tempo, ma di una certa indulgente benevolenza che la rendeva ancora più cara agli occhi di suo figlio, per il grande spessore morale che denotava da parte di lei aver saputo concedere il perdono a chi un tempo aveva amato e che tanto l’aveva ferita, approfittando proprio del suo amore.
Doveva ancora rispondere all’ultima lettera della madre, che aveva ricevuto solo cinque giorni prima, e quindi a Terence apparve molto strano riceverne un’altra, tanto più accompagnata da un pacco.
Sembrava contenere della carta. Che fosse un nuovo copione, sul quale desiderava il suo parere? Spesso negli ultimi anni si erano scambiati consigli professionali ed essere considerato dalla grande attrice degno di considerazione e rispetto nel lavoro che aveva intrapreso spinto proprio dall’emulazione per lei, era per Terence la più grande delle gratificazioni.
Ringraziò Mrs. Gouz e portò l’involto con sé in biblioteca, dove lo posò sul tavolino di fianco al divano. Salì in camera sua per fare una doccia e ripulirsi della fatica della lunga cavalcata, e chiese alla governante di preparargli un ginger-ale, l’unica bevanda rigorosamente analcolica che si concedesse da tre anni a quella parte.
“Di certo, io sarò l’unico americano a non avere problemi, l’anno prossimo, quando entrerà in vigore il proibizionismo…” pensò Terence con un sorriso, riferendosi al Volstead Act e al XVIII emendamento, già approvati dal Congresso e che sarebbero entrati in vigore nel gennaio dell’anno successivo, con l’intento di bandire il commercio e il consumo di alcol in tutti gli Stati Uniti, ma di fatto consegnandoli soltanto ai canali criminali e sotterranei, facendo la fortuna di gangster e intrallazzatori di ogni genere.
Terence tolse l’armonica dal taschino e, dopo averla accarezzata con un ultimo intenso sguardo, la posò di nuovo sul comodino, accanto al volume dei sonetti di Shakespeare che stava rileggendo. Quindi, si concesse un piacevole ristoro sotto il getto d’acqua bollente della doccia, che non riuscì però a lavare via le dolci sensazioni che i ricordi e quei luoghi tanto cari gli avevano lasciato sulla pelle. Con i capelli ancora umidi e vestito di una morbida camicia bianca su comodi pantaloni grigi, si diresse in biblioteca. Lì, seduto sul divano con le gambe distese di fronte a sé di fronte al fuoco, e con in mano la sua bevanda, allungò finalmente la mano verso la lettera della madre che giaceva sopra il pacco ancora chiuso.
Sorbì un sorso del liquido ambrato, posò sul tavolino il bicchiere pieno a metà, aprì la busta e si appoggiò al comodo schienale, completamente rilassato, accingendosi a quella lettura che avrebbe totalmente rovesciato le coordinate del suo mondo:

New York,
15 marzo 1919

Carissimo Terence,
so che la mia lettera ti lascerà sorpreso, ma ho ritenuto mio dovere scriverti in accompagnamento al contenuto del pacco che ti verrà consegnato insieme alla presente.
E’ bastata una semplice occhiata per capire l’importanza di ciò che Mrs. Greppi, quella meravigliosa donna che grazie al cielo si prende cura di te, mi ha portato oggi pomeriggio. E senza ulteriori approfondimenti, che non sono certo di mia competenza, lascio a te l’onere della scoperta.
Devi sapere che ieri Mrs. Greppi stava effettuando le sue annuali pulizie di primavera. Non ho dubbi circa l’accuratezza di tale attività, evidentemente ancora più approfondita rispetto all’anno scorso poiché, spolverando fin nei più nascosti interstizi lo scrittoio posto nella camera in precedenza occupata da Susanna, uno dei profondi cassetti ha ceduto, rivelando un doppio fondo e il contenuto del pacco che adesso ti invio.
Puoi immaginare l’agitazione e la perplessità della buona governante nel venire in possesso, in maniera così singolare, di documenti tanto intimi e personali… e non posso che rendere il massimo merito al suo intuito che, invece di farle mettere da parte il tutto in attesa del tuo ritorno, le ha fatto presumere che si trattasse di una scoperta di tale importanza da rendersi necessario metterne immediatamente a parte qualcuno che godesse della sua fiducia.
E così, questa mattina Mrs. Greppi ha bussato alla mia porta, scusandosi per il disturbo arrecatomi in nome di svariati Santi e Martiri di cui non saprei purtroppo riproporti l’elenco completo, ma dicendo che riteneva importante consultarmi su tale ritrovamento, di cui mi ha spiegato le particolari circostanze in cui era avvenuto.
Mi è bastata una sola occhiata per immaginare di cosa potesse trattarsi e di fronte a cosa mi trovassi.
Ci sono molte parole per descrivere la storia che rivelano, e non ho remore ad usarle tutte: tradimento, viltà, menzogna, egoismo, miseria… l’elenco potrebbe essere più lungo, ma lascio a te di completarlo dopo che avrai visto e approfondito il contenuto di quanto ti spedirò oggi stesso con la posta della sera.
Credo che dopo aver letto quanto ti sto inviando, ogni tuo dubbio e indugio rispetto al passato, al presente, e soprattutto al futuro, scomparirà. Ed è per questo che, senza attendere il tuo ritorno, ti inoltro immediatamente ciò che ti farà soffrire, sì, ma credo ti darà anche la forza per far cessare rimpianti e sensi di colpa, una volta e per tutte.
Ti voglio bene e prego per la tua felicità, con tutto il mio cuore.
Tua madre
Eleanor Baker.

Terence rimase immobile con il foglio in mano, perplesso e sempre più in preda a un orribile quanto oscuro presentimento, mano a mano che proseguiva nella lettura, sgranando gli occhi di fronte alla serie di possibili verità che si andavano lentamente dispiegando, evocate dalle parole della madre.
Quasi ipnotizzato abbassò i fogli, le cui parole sembravano vergate a fuoco sulle pagine e gli danzavano davanti agli occhi, in un vortice. Come al rallentatore, si voltò verso il pacco alla sua destra, che gli sembrava minaccioso quanto un tenebroso vaso di pandora. Gli pareva che la stanza fosse piombata nel buio e che tutta la luce del mondo si fosse concentrata su quel piccolo involto, che aveva le dimensioni di un libro di medie dimensioni e sembrava lampeggiare al ritmo di un segnale di pericolo…
Sapendo di non avere altra scelta, trasse un profondo respiro e allungò il braccio verso il pacchetto. Lo prese e se lo pose in grembo, tenendolo tra le mani e fissandolo per qualche secondo. Quindi, non potendo più rimandare l’inevitabile, cominciò a sciogliere il laccio che lo chiudeva e a svolgerlo con mani tremanti.
Ciò che comparve tra i lembi di carta da imballo che si andava via via allargando come una corolla tutto attorno, fu un gruppo di buste aperte. Erano identiche l’una all’altra, una semplice carta da lettere rosa senza fregi e un piccolo adesivo a forma di cuore a chiuderle, almeno fino a quando qualcuno non le aveva violate senza pudore.
Terence sussultò e il suo cuore mancò un battito, nel riconoscere fin dalla prima occhiata sia la carta da lettere che la grafia ampia, tondeggiante e piacevolmente infantile che tanto assomigliava al carattere di chi aveva tratteggiato il suo nome su quelle buste. Aprì la bocca e, senza accorgersene e prima di potersi trattenere, il nome tanto amato gli sfuggì dalle labbra, come riportato alla vita dal suono della sua voce, che si concedeva di modulare quelle due sillabe per la prima volta da tempo immemorabile, richiamato da quelle buste che lei aveva sfiorato:
- Candy….
Quelle lettere erano indubbiamente di Candy. La carta era identica a quella con la quale gli aveva indirizzato le poche missive ricevute da lei nel periodo in cui lavorava all’ospedale Santa Johanna a Chicago, da quando si erano ritrovati in occasione della rappresentazione di beneficienza del Re Lear fino a quando si erano separati dolorosamente a New York… Ma se anche si fosse trattato delle più anonime tra le buste, sarebbe bastata la prima veloce occhiata al nome del mittente, vergato in alto a sinistra, quella firma che non avrebbe potuto mai confondere con nessun’altra:
Candice White Andrew….
Quanto l’aveva presa in giro durante la loro corrispondenza per quel vezzo di usare il suo nome completo, quasi fossero due estranei, invece di firmarsi come sarebbe stato più opportuno e confacente al suo personaggio “Tarzan Tuttelentigini”! Eppure lei, nelle poche risposte che gli aveva inviato, aveva sempre ignorato tale provocazione, tanto più stranamente quanto più Terence ricordava come lei fosse invece solita non lasciarsi sfuggire alcuna occasione per rimbeccare i suoi scherzi con altrettanto pepe. Tanto che alla fine lui era arrivato a chiedersi se la sua Candy non stesse crescendo e non cominciasse a sentirsi seriamente infastidita da quelle loro schermaglie, preferendo lasciarle cadere nel vuoto…
Un tremendo, inammissibile sospetto cominciava però a prendere adesso forma nella sua mente. Un pensiero talmente orribile che dovette chiudere per un attimo gli occhi, stringendosi forte la base del naso tra due dita per fare cessare il dolore pulsante che cominciava ad aggredirlo alle tempie. Eppure la verità si stava rivelando nella sua cruda essenza dinanzi a lui, senza possibilità di equivoco.
Tutto adesso trovava una sua collocazione: lo spazio temporale così diradato tra una lettera e l’altra di Candy; le risposte che spesso arrivavano dopo che Terence le aveva inviato due o tre delle sue lettere, nelle quali aveva dato finalmente voce, sia pure tra scherzi e battute, a tutta la nostalgia che provava per lei. Dopo tutto quel tempo non poteva certo confessarle la profondità dei suoi sentimenti per lettera! Ecco perché aveva deciso di aspettare il debutto di Romeo e Giulietta, per averla di fronte a lui in carne e ossa, guardarla in quegli occhi trasparenti di un verde che lo faceva ancora fremere al solo pensiero, prenderle le mani e chiederle di non lasciarlo mai più. Tanto più che lei nelle sue lettere manteneva sempre quel suo tono pudico e attento a non scivolare mai nell’aperta espressione dei propri sentimenti… Quindi si era sforzato di contenere la sua irruenza e di aspettare. E poi c’era da considerare la sporadicità della corrispondenza di lei, che solo la granitica certezza nei propri sentimenti, che nutre solo chi ha la fortuna di avere incontrato la propria anima gemella, aveva indotto Terence ad attribuire non ad un raffreddarsi del legame che li univa, ma all’impegno di lei per conseguire il diploma da infermiera e prendersi cura di Albert durante la sua convalescenza.
E invece quelle buste rosa sul suo grembo aprivano un nuovo scenario, rivoltante anche solo a immaginarsi.
Senza che ve ne fosse bisogno, diede un’occhiata al timbro di spedizione delle lettere: tutte inviate tra l’agosto e l’inverno del 1914, terminavano poco prima di quel Romeo e Giulietta che avrebbe posto fine anche a tutta la sua vita…
Terence singhiozzò di disperazione e immediatamente dopo sentì la rabbia crescere come un’onda nera, invadendo ogni parte del suo corpo dal basso verso il suo cuore e la sua mente, sommergendolo e infiammandolo, accendendo i suoi occhi di un lampo oscuro che li rendeva quasi neri.
“Susanna, come hai potuto????”
La terribile verità di ciò che era accaduto lo colpì in tutta la sua violenza.
Susanna aveva trovato il modo di intercettare e violare le lettere che Candy gli aveva mandato! Prima dell’incidente, prima della maledetta notte su quella terrazza, prima di quanto il dottor Collins gli aveva rivelato circa il suo stato mentale dopo l’amputazione! Prima di tutto ciò che aveva sconvolto la sua esistenza, come se questo potesse comunque costituire un’attenuante per tale miserabile abiezione! E Dio non volesse che in qualche modo quella ragazza dalla mente malata e deformata dall’egoismo fosse riuscita a trovare il modo anche di intercettare le sue lettere a Candy! Quelle lettere scritte in lunghe notti solitarie, al termine delle estenuanti prove per il debutto teatrale nelle quali, come solo con lei era mai riuscito a fare, aveva messo a nudo la sua anima e i suoi sogni più riposti, di cui il più grande era proprio lei: il suo amore, la sua Candy, l’unica Giulietta del suo cuore. Allora e per sempre.
L’idea che Susanna, con le sue mani avide e la sua mente depravata avesse potuto violare i loro pensieri e le voci delle loro due anime, vergati su carta con tutto l’amore che l’universo avesse mai saputo produrre per concentrarlo su loro due come una benedizione, era aberrante e talmente oscena da non poter essere contemplata. Il fato aveva solo inteso giocare con loro, come un capo-clown crudele….
Eppure, no! Solo adesso per la prima volta Terence comprendeva che, per lui e Candy, Susanna si era eletta a destino molto prima che quest’ultimo decidesse di fare la sua entrata in scena in quel dramma.
Terence accarezzò quelle buste con tocco delicato e lieve, come fossero sacre, passando le dita leggere sul nome di Candy che vi era vergato.
“Candy, che cosa ci hanno fatto…?”
Lacrime di rabbia, frustrazione, impotenza gli salirono agli occhi. Strinse i pugni per controllare l’ira, cercando di relegarla temporaneamente sullo sfondo. Voleva che la sua anima non fosse sporcata dal ribrezzo verso Susanna mentre si accingeva, per la prima volta nei cinque anni in cui l’aveva rievocata infinite volte, ad ascoltare di nuovo le parole di Candy, giunte fino a lui dopo tanto tempo attraverso i crudeli e tortuosi volteggi del fato, per posarsi con la lieve dolcezza di una colomba sulla sua anima in pena, lenendone come sempre l’amarezza.

Ospedale S.ta Johanna
Chicago, Illinois,
10 agosto 1914

Caro Terry,
E’ notte, e sto rischiando la vita per scriverti questa lettera: se la mia compagna di stanza si sveglierà e troverà il lume ancora acceso mi farà passare dei seri guai, tu non puoi immaginare quanto possa essere pedante…
Ma non posso aspettare un minuto di più.
Oggi ti ho visto!
Ho ancora davanti ai miei occhi la tua immagine in piedi sul predellino del treno, con i capelli svolazzanti attorno al volto e tutto proteso in avanti, verso di me.
Adesso che ci penso, Terry, sei pazzo? Hai idea di quanto sia stato pericoloso sporgerti in quel modo? Tu non sei un Tarzan provetto come me, rischiavi di fare un bel volo… Ok, ok, io sono un’infermiera quasi diplomata ma, stremata com’ero da quella corsa, dubito che avrei potuto fare qualcosa per soccorrerti!
Terry, sto parlando troppo, come al solito. Ma dopo tanti mesi rivederti è stato così bello… solo pochi giorni fa non sapevo neanche dove fossi e cosa ne fosse stato di te… e adesso ho invece nelle orecchie ancora il suono della tua voce, e negli occhi l’immagine del tuo volto, lo stesso che ho rievocato nella mia mente tante volte in questi mesi.
Non sei cambiato molto, Terry, per quello che ho potuto constatare vedendoti così da lontano sul treno e sul palcoscenico del Re Lear… A proposito, mi hai fatto salire le lacrime agli occhi, lo giuro, nella tua interpretazione. Terry, tu sei nato per recitare! Lo so cosa stai per dire: io non capisco nulla di teatro e di letteratura e, se non fosse stato per quei pomeriggi passati ad ascoltarti leggere Shakespeare per me a Loch Lomond, non ne avrei forse mai ricordato neanche uno dei personaggi.
Ma capisco qualcosa di te, Terry, almeno credo… e quella passione che accende i tuoi occhi e muove i tuoi gesti è arrivata fino a me e ad ogni persona presente in quel teatro. Sono così felice e orgogliosa di te, Terry, così eccitata che tu abbia realizzato il tuo sogno! Sapevo che ce l’avresti fatta, ho sempre avuto fiducia in te!
E anch’io sto facendo lo stesso: dopo che mi hai lasciato alla St. Paul School ho capito che dovevo anch’io trovare la mia strada e lo sto facendo, vedi? Diventerò una brava ed efficiente infermiera, ci crederesti? Anzi, ti raccomando di aggiungere anche “Signorina Sbadatella” all’elenco dei miei soprannomi, sono sicura che ti piacerà!
Dopo averti visto sparire in lontananza in una scia di vapore lasciata dal treno, sono corsa al teatro dove hai recitato ieri sera e mi sono fatta dare l’indirizzo della compagnia Stratford a New York, quindi adesso posso scriverti..ho talmente tante cose da dirti, Terry! Ti avevo scritto una lettera qualche mese fa, la tengo sempre qui con me, perché non avevo allora il tuo indirizzo e non sapevo se sarei mai riuscita a comunicare con te… E invece ecco, il destino ci ha fatto incontrare di nuovo, proprio come mi ha detto quell’uomo la notte in cui sei partito…
Comunque sembra proprio che io non faccia altro che correrti dietro e tu scappare… tutto ciò non è molto gratificante! Quindi per il momento terrò per me l’altra lettera: devo prima acciuffarti e poi ti dirò cosa c’era scritto.
Terry devo proprio smettere di scrivere adesso, Flanny mi ucciderà e io vorrei stare sveglia tutta la notte e oltre, ma non posso…
Spero di avere presto tue notizie, senza dover correre dietro anche al postino per averle.
Terry… ti penso sempre…
Buonanotte,
Candice White Andrew

___________________


Ospedale S.ta Johanna,
Chicago, Illinois
23 settembre 1914

Terry, carissimo,
Che gioia la tua ultima lettera, eccezion fatta per le prime due righe e per i tuoi inopportuni accenni al mio nome. Tarzan Tuttelentiggini non esiste più, mio caro, è solo un piacevole ricordo della tua memoria e dei giorni della St. Paul School! Possibile che tu non sia capace di produrre qualcosa di meglio con la tua tanto acclamata intelligenza e tutte le tue letture shakespeariane?
Terry, sono così emozionata per la tua audizione, sono certa che sarai un meraviglioso Romeo, anche se la tua Giulietta della St. Paul School non sarà lì con te. Ricordi la festa di Maggio? Che sciocca, certo che la ricordi… Oh, io non potrò mai dimenticarla, Terry! La brezza sulla mia seconda collina di Pony, i narcisi che fiorivano e dondolavano dolcemente al vento, insieme ai tuoi capelli così belli e lucenti…. Basta così, non voglio che tu possa montarti la testa! Però… però sembrava che tutto fosse possibile, non è vero?
E poi quel giorno tremendo in cui Iriza ci fece cadere in quell’orribile trappola… ricordo ancora la paura e il terrore in quella cella umida e oscura. Com’è possibile che si possano consentire simili punizioni in una scuola? Non ti ho mai ringraziato per essere venuto a suonare l’armonica per me tutta la notte. Hai scacciato la paura e la solitudine. Posando la mia mano contro quella parete gelida dietro la quale tu suonavi per me, mi sembrava di poter sentire il tuo calore… solo dopo compresi che quello era il tuo modo per dirmi addio…
Sai, Terry, credo di averti odiato quando scoprii che mi avevi lasciato lì da sola. La freddezza della tua lettera mi lasciò spiazzata e affranta. Solo in seguito seppi che ciò che avevi fatto l’avevi fatto per me… Hai sempre fatto tanto e io invece non ho portato altro che guai e scompiglio nella tua vita!
Albert sembra stare un po’ meglio, i dottori dicono che lo dimetteranno al più presto, ma non è una buona notizia, perché non so proprio dove possa andare e chi si possa occupare di lui fuori di qui… sto cercando di scervellarmi per trovare una soluzione, ma al momento non ci sono ancora riuscita. Ma stai tranquillo, qualcosa mi inventerò, come quando ho trovato il modo di lasciare l’Inghilterra senza un soldo per tornare in America… Non ti ho mai raccontato come feci, lo farò la prossima volta che ci vedremo. Sono certa che lo troverai divertente, ti farai una delle tue grasse risate e ci ricamerai su una delle tue storie!
Ho anche molte altre cose da dirti di persona… pensieri che custodisco fin da quando ci separammo e che non vedo l’ora di condividere con te.
Miss Pony e Suor Maria ti mandano i loro saluti. Sanno che corrispondiamo e non hanno mai dimenticato quel bel giovane (bello??? Sicuro che fossi tu????) che giunse alla casa di Pony in un pomeriggio innevato, chiacchierando amichevolmente con loro prima di dirigersi verso la collina di Pony sotto la neve. E’ stata una delle cose più belle che tu abbia mai fatto per me, quella, Terry! E ciò che non sai è che io arrivai sulla collina poco dopo, c’erano ancora le tue impronte sulla neve… se solo fossimo riusciti a incontrarci allora… la tua tazza era ancora calda, mentre il mio cuore divenne di ghiaccio quando mi resi conto che eri già andato via.
Ma adesso basta con questi tristi ricordi: io devo studiare e tu devi provare, per diventare il più strabiliante e stupefacente Romeo che Broadway abbia mai conosciuto… all’altezza della tua Giulietta della St. Paul School!
Ti abbraccio con tutto il mio cuore
A presto
Candice White Andrew

P.S. anche le mie lentiggini ti salutano!

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Appartamento Magnolia,
Chicago, Illinois
12 novembre 1914

Terry, mio caro,
Se non la smetterai con i tuoi monotoni e stancanti soprannomi ti rispedirò indietro il biglietto della prima di “Romeo e Giulietta” e anche il biglietto del treno, e sarai costretto a trovare qualcun altro da mettere a capo della claque che accoglierà festante il tuo esordio da protagonista….
STO SCHERZANDO!!!! Per niente al mondo mi perderei lo spettacolo, sto fremendo dall’eccitazione, mi sembra che questi mesi non passino mai….
Qui la situazione prosegue come sempre. Albert ti saluta tanto e mi dice di domandarti se sai cucinare… non chiedermi il motivo di tale interrogativo, perché lo ignoro, anche se lo immagino! Dovresti vederlo, Terry, è così cambiato da quando è arrivato qui ferito dall’Italia. Ha ripreso colore e sorride spesso, sembra quasi l’Albert che ricordiamo, dei tempi dello zoo Blue River. Non ho mai capito come due persone così diverse come voi abbiano potuto diventare amiche! Lui è così maturo, dolce, rassicurante, la roccia alla quale mi sono aggrappata per tanto tempo e che ha sempre saputo trovare la parola giusta al momento giusto, la saggezza che mi manca…
E tu, invece così taciturno, irruento, imprevedibile… capace di passare in un attimo dallo scherzo più allegro alla più glaciale indifferenza… all’inizio le tue reazioni mi spiazzavano sai? Anzi, direi che mi spaventavano… Poi hai lasciato che io vedessi cosa nascondevi dietro quella maschera, ed è stato come spalancare all’improvviso una finestra su un panorama meraviglioso e imprevedibile.
No, in realtà non mi stupisce affatto che tu e Albert siate amici, e spero che quando recupererà la memoria potrete ritrovarvi per tornare a vivere quei giorni meravigliosi tutti insieme.
Ci sono anche brutte notizie: Stear si è messo in testa di partire per la guerra…E’ terribile, lo so, e sembra che siamo riusciti a fargli cambiare idea, ma ultimamente è sempre pensieroso e con la testa altrove. Patty è disperata e io la capisco bene..in realtà non so cosa proverei se tu mi dicessi che intendi affrontare un pericolo simile. Devo confidarti una cosa: nel nostro ospedale hanno chiesto una volontaria per partire per il fronte come crocerossina e, sebbene sia stata molto tentata di offrirmi, all’ultimo momento mi sono tirata indietro. Ed è stato per te. Il pensiero che potesse succedermi qualcosa non mi spaventa in se stesso, ma è stata la paura che, dopo essere arrivati tanto vicini a riunirci, qualcosa possa impedircelo. Anch’io desidero tanto rivederti, Terry, e in questo momento credo che non esista forza al mondo che mi possa tenere lontana da te!
Ti mando tutto il mio affetto,
tua
Candice White Andrew

P.S. Hai ancora l’armonica che ti ho regalato? Sai cosa mi piacerebbe fare a New York? Andare con te a Central Park, sederci sotto un albero e ascoltarti suonarla, come ai vecchi tempi sulla seconda collina di Pony… credi che si possa fare? Prometto di non picchiarti né sgridarti!

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Appartamento Magnolia,
Chicago, Illinois
4 dicembre 1914

Terry, oh Terry!
Soltanto pochi giorni, non sto più nella pelle!
Sto arrivando da te e anche se ti ho scritto solo ieri, stanotte non riesco a chiudere occhio e credo che ti scriverò solo per dirti questo…. Sto impazzendo dall’ansia e non riesco più a controllarmi, desidero con tutto il mio cuore che questi pochi giorni volino per trovarmi di fronte a te alla stazione di New York!
Mi verrai a prendere, vero?
Io sarò quella piena di lentiggini con un sorriso da un orecchio all’altro!
Buonanotte, che questa notte voli via veloce!
Ti penso sempre, mio Romeo…

La tua Giulietta insonne


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Terence terminò la lettura, risvegliandosi come da un sogno che l’aveva riportato indietro nel tempo e nello spazio, esattamente nel punto da cui era partito e dove voleva tornare con tutto se stesso.
Candy, la sua Candy, lo stava chiamando…
“…in questo momento credo che non esista forza al mondo che mi possa tenere lontano da te!”
A un certo punto durante la lettura, le lacrime dovevano aver cominciato a rigargli il viso senza che se ne accorgesse, perché, adesso che era tornato alla realtà, sentiva le guance umide e il loro sapore salato sulle labbra. Aveva ancora tra le mani l’ultima lettera della sua Giulietta insonne e, stringendola forte tra le dita, unì le mani portandole alla fronte in un gesto di disperata impotenza. Non poteva credere che fosse successo veramente. Le lettere di Candy, frasi così piene di lei, traboccanti di amore e di speranza, gli erano state negate per tutti quegli anni. Con un singhiozzo disperato si chiese cosa aveva dovuto provare la sua dolce ragazza nel non ricevere da lui il minimo cenno di risposta o di considerazione per i suoi sentimenti, così apertamente esposti su quei fogli, per la prima volta nella sua vita.
Frammenti preziosi delle parole di Candy gli volteggiavano nella mente, con le stesse sinuose ed eleganti evoluzioni di uno stormo di rondini:
“…Terry… ti penso sempre…”
“…… solo dopo compresi che quello era il tuo modo di dirmi addio… “
“…Ho anche molte altre cose da dirti di persona…”
“…io arrivai su quella collina poco dopo, c’erano ancora le tue impronte sulla neve…”
“…Anch’io desidero tanto rivederti, Terry…”

E invece una forza malvagia e ignobile, falsamente vestita di fragilità e debolezza, aveva complottato nell’ombra, mascherando la sua anima traviata dietro il più angelico e falso dei sorrisi, e si era arrogata il diritto di mettere a tacere l’armoniosa musica di quelle parole, decidendo che non avrebbe mai dovuto udirle.
Terence si rese conto che Susanna aveva agito con accurato, premeditato raziocinio: gli aveva nascosto proprio le lettere più appassionate, contenenti i riferimenti e i richiami più intensi ai loro sentimenti, al passato che li legava, alla speranza per un futuro in cui timidamente cominciavano a credere… quante cose non aveva mai saputo! Susanna lo aveva consapevolmente privato del diritto di saperle: sulla collina di Pony si erano mancati per pochi minuti… ancora una volta il destino si era frapposto tra loro.
Eppure avevano saputo essere più forti di tutto, ed erano stati capaci di ricongiungere i fili delle loro esistenze, fino a quando quella donna, quella piaga che sembrava essere stata posta sul suo cammino appositamente per distruggere tutto ciò che di buono e di bello lo avesse mai allietato, era piombata su di loro. Susanna aveva deciso di prendersi subdolamente e con l’inganno ciò che non era suo, che non lo era e non lo sarebbe mai stato.
Era per quella donna che lui stesso aveva violato la purezza dei propri sentimenti e di quelli di Candy, rinunciando al suo unico amore? Era per quella donna che la sua dolce, generosa ragazza si era sacrificata, voltandogli le spalle per prendere su di sé il peso intero di quella decisione? Sgravandolo di quella responsabilità, per amore, solo per amore… Candy sapeva bene che lui al suo posto non sarebbe stato altrettanto forte, e aveva ragione: senza di lei si sentiva totalmente smarrito….
Terence raccolse di nuovo tutte le lettere, le ripiegò e le strinse forte. Quindi, guardandole commosso come se fossero il più prezioso dei tesori, cosa che effettivamente erano, le posò sul divano accanto a sé, si alzò e si avvicinò alla mensola del camino, appoggiandovisi con un gomito e la mano chiusa a pugno sulla fronte, fissando il fuoco con occhi che brillavano più delle fiamme sotto di lui.
Era passato troppo tempo, adesso era abbastanza!
“…in questo momento credo che non esista forza al mondo che mi possa tenere lontano da te!”
E invece la forza dell’inganno aveva fatto cadere un silenzio innaturale e ingiusto tra di loro, prima ancora che il destino compisse la sua parte, sotto la forma di un riflettore che precipitava su un palcoscenico di Broadway, spezzando per sempre le sue speranze nel futuro. Un’estranea che nulla avrebbe mai dovuto avere a che fare con la sua esistenza aveva legato strettamente e forzatamente la propria vita alla sua, e aveva messo a tacere l’amore e tutte le più pure emozioni che lo legavano alla donna della sua vita. Ma adesso le parole di Candy erano tornate dall’oblio a cui erano state vigliaccamente destinate, per riaccendere quei sentimenti mai neanche lontanamente sopiti, ed era il momento di dire basta!
Basta!
Basta all’arrendevolezza! Basta ai rimpianti! Basta al destino che l’aveva avuta vinta per troppo tempo coi suoi giochi e usando i mezzi più ingannevoli e infidi!
Candy aveva ragione, come sempre: non esisteva forza al mondo che li potesse tenere separati, ed era arrivato il momento anche per lui di fare la propria parte, riprendendo in pugno le redini della propria vita, strappategli di mano troppo a lungo.
Con uno scatto rabbioso si voltò verso la scacchiera sul vicino tavolino, afferrò la Regina Nera e la scagliò con rabbia tra le fiamme roventi del camino, osservandola prendere fuoco rapidamente, aggredita dalle fiamme che facevano danzare i loro riflessi aranciati sui capelli e sul volto di Terence, ardente di una ritrovata determinazione.
Finalmente si sentiva pronto ad andare in capo al mondo e a superare ogni ostacolo per ritrovare Candy, perdersi in quei meravigliosi occhi di smeraldo e chiederle in ginocchio di perdonarlo per tutto il dolore che aveva portato nella sua vita solo per averla amata e per amarla con tutto se stesso…
E se avesse scoperto che il tempo e le sofferenze avevano mutato i sentimenti della sua amata Giulietta, e fosse stato troppo tardi per loro due?
In quel caso, non potendo più presentargliene il conto in questa vita, Terence, i cui occhi brillavano ora di fiamme ardenti quanto quelle che stavano consumando la regina d’ebano ai suoi piedi, giurò a se stesso che sarebbe arrivato fino all’inferno, pur di farla pagare a Susanna Marlowe con le sue stesse mani!


Levati o sole bello,
a cancellare la gelosa luna
sbiancata e livida di rancore
perché tu, vestale sua,
sei bella, molto più bella di lei.
Non farle più da ancella, se è così invidiosa di te
ché tanto il suo manto di vestale
s’è fatto ormai livido e consunto
e non lo portano più che le pazze.
Buttalo via.
E’ la mia donna, oh! Il mio amore.
Ah potesse saperlo lei che è così! *



*
Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.


FINE CAPITOLO TERZO



Edited by cerchi di fuoco - 30/5/2013, 23:11
 
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Capitolo 4°: Il sipario strappato


4ilsipariostrappato



New York,
15 aprile 1919

Quel diletto che prova la balda gioventù
quando l’Aprile, tutto nuovo fiammante,
incalza alle calcagna l’inverno zoppo.*




La primavera accendeva Central Park di mille colori e spandeva nell’aria la sua inconfondibile fragranza che sapeva di rinnovamento.
Sebbene molti ritenessero che la stagione più bella per New York fosse l’autunno, quando la vegetazione dei mille parchi grandi e piccoli della città si accendeva di tutte le tonalità di rosso, oro e calde sfumature di marrone, Candy preferiva di gran lunga quel tripudio di verde in tutte le sue varianti; dal verde acqua del laghetto costellato di barche a remi, al verde smeraldo dei prati e delle aiuole spezzato dalle gemme variopinte di minuscoli boccioli di ogni colore; dal riflesso vellutato del muschio sui tronchi degli alberi, al verde intenso degli arbusti di mirto che fiorivano ai lati dei viali affollati di newyorkesi, a loro volta eccitati per quella clamorosa rinascita.
E i colori dei fiori! I prati, le gemme sugli alberi, le infiorescenze su ogni arbusto… Sembrava che ogni frammento di natura facesse a gara per mostrarsi nella sua veste più nuova e fresca, come una fanciulla che, stanca di coprire le proprie grazie sotto pesanti cappotti e mantelli invernali, non vedesse l’ora di sfoggiare tutta la sua vanità mostrandosi finalmente ornata dei tessuti più leggeri e delle tinte più accese, in una celebrazione della rinascita che ancora una volta manifestava il suo miracolo con l’arrivo della primavera.
Anche gli stormi di uccelli, tornati a compiere le proprie geometriche e sinuose evoluzioni nel cielo più azzurro che si potesse immaginare, sembravano prender parte ad una festa della quale la città e i suoi abitanti si sentivano a buon diritto gli invitati d’onore, lieti e orgogliosi di godere di tanta magnificenza. Era la prima primavera dopo la fine della guerra.
A Candy Central Park ricordava la Collina di Pony in quello stesso periodo dell’anno, con l’unica differenza che a scorazzare per i verdi declivi erano dei vispi e curiosi scoiattoli e non i familiari leprotti saltellanti lungo i vellutati pendii dell’Indiana.
Alzando gli occhi che aggiungevano un’ulteriore (e di per se stessa unica) sfumatura di verde a quel paesaggio incantato, Candy assaporò il momento: una leggera e piacevole brezza muoveva le foglie e le accarezzava la pelle, riscaldata dal piacevole tepore di un sole ogni giorno più caldo.
Per fortuna, pensò, era primavera inoltrata. Era già stato così difficile… non avrebbe potuto sopportare di ritrovarsi in una New York innevata…

______________________________



Washington D.C.
20 marzo 1919


Erano passate circa due settimane dalla festa in casa del Segretario di Stato Lansing e Candy e Albert stavano cenando nella gradevole intimità del loro appartamento, chiacchierando del più e del meno. Candy aveva raccontato ad Albert del piccolo Bobby, un bambino di circa 9 anni che era stato portato dalla sorella maggiore appena tredicenne, Lucy, in fin di vita alla Community of Hope quel pomeriggio. Bobby era malato di una forma molto grave di influenza “spagnola”, la stessa malattia che ancora imperversava in tutti gli Stati Uniti e che aveva portato via con sé la zia Elroy solo pochi mesi prima. Entrambi i genitori di quei due piccoli sfortunati erano morti da tempo. Il padre in un incidente sul lavoro nel deposito merci in cui lavorava come facchino: era rimasto schiacciato da un collo che si era staccato dalla gru che lo stava caricando, precipitando da un centinaio di metri d’altezza proprio su di lui. La madre era deceduta di parto, mettendo al mondo il quinto figlio. I tre figli più piccoli erano stati quindi affidati ai servizi sociali che li aveva destinati a un triste orfanotrofio in periferia, mentre Bobby e Lucy erano stati presi in casa di una delle zie appartenenti al loro esteso clan irlandese, e mandati a lavorare per contribuire alle spese familiari: lei come lavandaia e il piccolo Bobby come fattorino.
- Ha solo nove anni! Non riesco a credere che esistano tali miserie al mondo, Bert. Il fatto di essere un’orfana non mi ha mai fatto vivere la sensazione di miseria e abbandono che questi bambini vivono nelle grandi città. Anche prima di venire adottata da te, la mia infanzia in orfanotrofio è stata molto più felice e ricca d’affetto di quanto questi bambini potranno mai anche solo immaginare.
- Sì… purtroppo le nostre città sono piene di una miseria così lontana da noi… Il rischio per noi privilegiati è quello di chiuderci nei nostri castelli dorati e di non considerare ciò che avviene al di fuori del nostro mondo ristretto. Anzi, addirittura ignorarne l’esistenza.
- E’ proprio così, Bert! Se fossi rimasta alla casa di Pony e alla clinica del dottor Martin non avrei potuto dare il contributo che sento di dare qui a Washington. E anche tu, ti prego, cerca di fare tutto ciò che è in tuo potere per sensibilizzare quei parrucconi del Congresso a fare qualcosa!
Candy aveva le guance arrossate dall’enfasi che aveva acceso le sue parole, e gli occhi lucidi di commozione al pensiero del destino dei piccoli Lucy e Bobby….e delle migliaia di orfani ancora più in difficoltà di loro in giro per le strade di Washington, e non solo.
Albert la guardava con uno sguardo pieno di affetto e compassione.
“Candy, non imparerai mai a non vivere sulla tua pelle le sofferenze degli altri. E’ così bello e così struggente allo stesso tempo. E’ la tua benedizione e la tua condanna”.
- Candy, purtroppo la mia collaborazione con il governo è su tutt’altro fronte. Io ho svariati progetti che alla fin fine mirano proprio a migliorare le condizioni dei lavoratori, ma prevenendone l’indigenza. Chi invece sta facendo un gran lavoro in collaborazione con la Croce Rossa per gli orfani e i feriti di guerra e del lavoro, i bambini lavoratori e le persone di colore discriminate è Mrs. Roosevelt, con le sue associazioni.
- Oh, Bert, che donna eccezionale! – esclamò Candy posando con veemenza il cucchiaio accanto al piatto di zuppa di pollo non ancora terminata, di colpo totalmente disinteressata alla cena, e accendendosi invece immediatamente come una miccia nel parlare di colei che in poco tempo era diventata la sua eroina.
Dal giorno della loro presentazione alla festa dei Lansing, Candy aveva avuto modo, tramite Patty, di incontrare diverse altre volte Mrs. Roosevelt, per un tè presso la loro residenza o a qualche conferenza di una delle associazioni benefiche delle quali era presidentessa e oratrice. Una volta, suscitando la più grande ilarità in Albert, aveva addirittura assistito ad una manifestazione della Women’s Trade Union League, una delle associazioni cui Eleanor Roosevelt era più vicina e che promuoveva campagne in favore dell’abolizione del lavoro minorile e del miglioramento delle condizioni di lavoro delle donne ma che, nella fattispecie della conferenza cui Candy aveva partecipato da spettatrice, propagandava fortemente il suffragio femminile.
Candy, pur non essendo particolarmente interessata agli aspetti politici della questione, era tornata debitamente guarnita da una fascia viola, simbolo delle battaglia delle suffragette, cosa per la quale Albert e Patty avevano riso non poco, prendendola oltremodo in giro per le facinorose attitudini rivoluzionarie che Mrs. Roosevelt stava, a loro dire, risvegliando nella fino ad allora puritana e conservatrice fanciulla dell’Indiana. In realtà, era la grande passione di quella carismatica donna, nonché la sua instancabile tensione verso i suoi poliedrici ideali, ad aver completamente conquistato Candy, ridestando quell’ istinto alla ribellione contro le ingiustizie che l’aveva portata, in un memorabile confronto alla St. Paul School, ad accusare Suor Grey di avere una pietra al posto del cuore!
- Mi fa piacere che si sia creato questo feeling tra te e Eleanor, Candy. Frank mi ha detto che è assolutamente reciproco e che sua moglie esprime parole di grande stima e apprezzamento per te. Pare ti abbia definito “cristallina”… immagino sia un complimento!
- Oh, Bert, purché non fosse un riferimento alle troppe coppe di champagne che ho bevuto a quel ricevimento! – esclamò Candy, imbarazzata.
Entrambi scoppiarono a ridere di cuore.
- Candy – le disse Albert quando le risate si furono calmate – a questo proposito ho qualcosa da dirti…
Albert era tornato serio e Candy rizzò le orecchie, come antenne immediatamente all’erta. Conosceva Albert troppo bene per non intuire dal tono della sua voce che gli scherzi erano finiti e che stavano per passare a un livello più impegnativo della conversazione.
- Dimmi Bert, c’è qualche problema?
- No, no, tesoro, nessun problema. Solo delle meravigliose opportunità!
Albert le rivolse quel suo aperto e rassicurante sorriso che le avrebbe sempre fatto sembrare superabili anche le fiamme dell’inferno, se solo lui le avesse detto che lo avrebbero fatto insieme, e la ragazza si accinse ad ascoltare quanto aveva da dirle.
- Candy, devo partire. Sono stato convocato dal presidente Wilson in persona a Parigi. Le trattative a Versailles sono giunte ad una fase di stallo e pare che ci si sia arenati sul punto relativo agli aiuti economici ed alle riparazioni di guerra. Il presidente desidera tutti i suoi consulenti economici al proprio fianco per aiutarlo a giocare questa difficile partita, incluso me.
Parigi!
Candy sgranò gli occhi. Albert doveva essere diventato un vero e proprio pezzo grosso, se la sua presenza veniva richiesta al tavolo al quale in quel momento venivano prese le più importanti decisioni che avrebbero condizionato il futuro del mondo.
- Tesoro – continuò Albert, guardando Candy negli occhi verdi in quel momento sgranati per lo stupore – mi piacerebbe portarti con me, ma si tratterà di una trasferta a tempo indeterminato, dipendendone la durata dal buon esito dei colloqui del presidente Wilson. E per tutto il tempo dovrei lasciarti sola per intere giornate, senza potermi dedicare a te neanche un po’, come invece riesco a fare qui a Washington…
- Inoltre il mio francese non è esattamente degno di Molière e di Monsieur Victor Hugo, dillo, Bert! – intervenne Candy, sollevata che il suo caro amico non le stesse chiedendo di andare con lui in Francia.
Le era già sembrata un’enorme distanza dai suoi cari e dalla casa di Pony spingersi fino alla costa orientale. Attraversare l’oceano in quel momento non rientrava tra i suoi progetti, soprattutto se, come diceva lui, sarebbe stato impossibile girare un po’ insieme per quella meravigliosa città.
- No, Candy, hai ragione. Credo che dovrei chiedere a Suor Grey la restituzione di parte della retta che ho pagato per farti studiare presso il suo prestigioso collegio, considerando le gravi lacune in francese e musica che ha lasciato nella tua educazione. Certo, c’è anche da dire che se tu non fossi scappata via senza terminare neanche un anno completo di lezioni, per dedicarti a viaggiare da clandestina sulle navi merci, forse la simpatica direttrice avrebbe potuto trasmetterti qualche perla della sua conoscenza e saggezza in più di quanto non abbia effettivamente fatto.
Candy alzò gli occhi al cielo al pensiero dell’arcigna direttrice e di tutti gli scontri che aveva avuto con lei, fino a quello finale che ne aveva decretato l’espulsione, poi evitata solo grazie al sacrificio di Terence, che aveva abbandonato la scuola al suo posto…
La consueta fitta al petto.
Con lo stesso dolore acuto e repentino di una coltellata al cuore, le sembrò di udire il suono della sirena di quel piroscafo che, sbiadito e sempre più lontano, come un gigante stanco che si staccava faticosamente dalla costa, avvolto dalla nebbia del porto di Southampton, le portava via per sempre l’amore della sua vita. E lei adesso si sentiva ancora lì, aggrappata a quella ringhiera nell’oscurità, a gridare il nome di Terence a quel vento che sembrava spingerlo sempre più lontano da lei.
Scosse il capo. No! Non di nuovo!
I ricordi di Terence la assalivano sempre all’improvviso, come in quel momento, e la trasportavano nel tempo e nello spazio in mondi di estasi infinita, in riva a un lago scozzese o sulla seconda collina di Pony, oppure, con gli stessi vividi tratti di colore a far rivivere le immagini marchiate a fuoco nella sua mente, la precipitavano nella più cupa disperazione su una terrazza spazzata dalla neve, o su un molo inglese dove il primo raggio di sole dell’aurora lottava per scalzare il buio liquido di una notte nebbiosa.
“Dopo, Candy! Quando sarai sola nella tua stanza… come sempre.”
- Sai Bert, tutto sommato credo che a Suor Grey sia rimasto il tarlo di non avere potuto completare la mia redenzione in collegio, visto che poi si è presa la briga di mandarmi tramite Archie e Stear la bibbia che avevo lasciato lì nella fretta della mia fuga! - disse Candy, con un tono di voce forzatamente allegro, nel tentativo coraggioso di stemperare la tensione evocata dai suoi ricordi.
Albert la fissava intensamente con i suoi occhi trasparenti brillanti di comprensione. Da sempre sapeva leggere nell’espressione e tra le parole di Candy come in un libro aperto, fin dal loro primo incontro sulla collina di Pony, quindici anni prima.
- Le hai anche scritto una lettera per ringraziarla, mi pare – le rispose, aiutandola a restare su quell’argomento lieve, per non far scappare la sua mente dove invece sempre anelava andare, tra le braccia del suo Romeo.
- Già! Chissà se ne ha colto il tono ironico…
- Tra le molte doti di quella santa donna direi che l’ironia non fosse annoverabile, stando ai tuoi racconti, Candy…
Candy sorrise apertamente e Albert capì che per il momento era riuscito a trarla fuori dal passato per ricondurla nel presente.
- Tornando a noi, Candy – riprese l’uomo, intrecciando le dita delle due mani davanti al volto, i gomiti appoggiati al tavolo dove Sybil, la cameriera, gli aveva appena servito il brandy – dobbiamo decidere cosa farai durante la mia assenza che si protrarrà, temo, per qualche mese.
- Beh, davo per scontato di tornare alla casa di Pony - affermò Candy, sinceramente stupita che potessero esservi delle alternative.
Per quanto le piacesse Washington, l’idea di restare lì senza Albert non la allettava affatto. Certo, c’era Patty. Ma non vivevano insieme e poi lei era sempre così impegnata con il suo lavoro.
- Certo, questa è un’ipotesi. Ma potrebbe essercene un’altra ancora più interessante, Candy!
- Cos’hai in mente, Bert? – chiese Candy, sinceramente incuriosita, a quel punto.
- Beh, potresti andare a New York!
A quelle parole la mano di Candy, che si stava allungando per versarsi dell’acqua, fu scossa dallo stesso sussulto che le aveva attraversato tutto il corpo come una scossa elettrica, e urtò un calice di vino, rovesciandolo. Sulla tovaglia di candido lino si aprì una rosa scarlatta che si espanse rapidamente, come ad allargare petali di rubino sul biancore niveo del lieve tessuto. Le iridi di Candy, fisse su quella macchia rossa, si sgranarono anch’esse, palesando la sorpresa e il panico che l’avevano violentemente assalita alle parole di Albert, al suono di quella città che per lei significava privazione, infelicità, sacrificio.
Albert si affrettò a spiegare:
- Mrs. Roosevelt lascerà Washington per qualche mese e tornerà a New York la settimana prossima. Eleanor tiene le fila di diverse attività e associazioni nella sua città, attività che ha delegato per troppo tempo e di cui vuole riprendere la guida, soprattutto per quanto riguarda un nuovo progetto: una casa di cura per bambini vittime di incidenti sul lavoro. Mi ha espressamente detto che durante la mia assenza le piacerebbe portarti con sé e coinvolgerti nell’organizzazione, contando sulla tua esperienza come infermiera e sulla grande sensibilità che hai dimostrato alla Community of Hope. Vivresti a casa Roosevelt con lei e Patty.
Candy continuava a rimanere immobile. Solo gli occhi, accesi da turbolente scintille verdi, e il lieve tremore delle mani mostravano che stava ascoltando le parole di Albert.
L’uomo la guardò con infinita tenerezza e si alzò dal suo posto di fronte a lei, per andare a sedersi al suo fianco e posare una mano su quella di lei, ancora poggiata sulla tovaglia bianca accanto al calice rovesciato.
- Candy, ascoltami ti prego....
Candy rimase immobile, lo sguardo fisso alla grande macchia scarlatta, gli occhi lucidi e le labbra strette e tremanti.
Il solo accenno a New York la sconvolgeva ancora, esattamente come se il tempo si fosse fermato a quel maledetto inverno e a quella notte, pensò Albert. Non aveva più senso aspettare che il tempo guarisse le ferite: per la sua Candy, c’era un solo “grande guaritore” possibile, e aveva fieri occhi blu che lui ricordava bene quando si illuminavano di allegria per uno scherzo condiviso tra amici. Solo lui possedeva l’unica chiave che potesse far ricominciare a battere il cuore della sua piccola Candy per la felicità, anziché per il dolore. Ma il primo passo era che lei uscisse dalla negazione e cominciasse ad affrontare il semplice fatto di non aver mai dimenticato Terence.
- Piccola, tu devi assolutamente trovare il modo di trarti fuori da quest’impasse in cui sei piombata. Non puoi continuare a fingere di star bene. Né che ti sia sufficiente questa quotidianità serena e rassicurante di cui ti sei ammantata per proteggerti da domande su te stessa delle quali non ti piacciono le risposte …
- Bert, ti prego… - Candy si volse a guardarlo con occhi lucidi di pianto che esprimevano una muta supplica.
- No, Candy. Abbiamo taciuto per troppo tempo. Io l’ho fatto per rispetto del tuo dolore, che hai, non troppo abilmente ma altruisticamente, nascosto dietro una maschera di pace apparente. Ma dopo tutto questo tempo, non credi sia il momento di affrontare una volta e per tutte quello che è successo a New York…? – le strinse più forte la mano che si irrigidiva repentinamente – …e provare ad andare avanti, nel modo che tu sceglierai? Questo stato di sospensione dalla vita, senza abbandonare il passato e nello stesso tempo impossibilitata ad andare verso il futuro, deve cessare immediatamente!
Candy chiuse gli occhi e lacrime silenziose cominciarono a scivolare lungo le sue gote. Albert provava un profondo malessere nell’infliggerle quella tortura, ma non si fermò: capiva che, al punto in cui si era arrivati, era necessario.
- Candy, la separazione tra te e Terence è stata dolorosa e allora vi era sembrata inevitabile. Avete agito con generosità e altruismo, sacrificando voi stessi. Adesso non ha forse più senso neanche cercare di capire se le vostre motivazioni fossero giuste o sbagliate. Avevo un’idea allora, quando sei tornata da New York prostrata dal dolore e dalla febbre; nel corso degli anni l’ho arricchita di altre valutazioni che solo a mente fredda, e con l’obiettività di chi guarda i fatti dall’esterno, possono essere fatte. Tu e Terence non avrete mai questa lucidità, purtroppo. Ma quel che conta, Candy, è che tutto ciò non importa più!
Candy aprì gli occhi ancora bagnati da lacrime irrefrenabili, lacrime che non versava più dal giorno del confronto con Annie.
- Non importa più – ripeté Albert - perché Susanna e morta! E’ una tragedia, un lutto; ma lei è morta e tu e Terence siete ancora vivi, giovani e, mi pare del tutto evidente, innamorati. Almeno tu lo sei, come e forse più del giorno in cui vi siete lasciati. Perché il sacrificio ha reso Terence ancora più caro al tuo cuore. Quindi Candy, adesso ti dirò quello che avrei dovuto dirti un anno fa: non hai più scuse per insistere ad essere infelice!
Fu come se Albert con le sue parole le avesse dato un pugno in pieno petto, provocando l’emissione violenta e improvvisa di tutta l’aria dai suoi polmoni.
Perché, perché il suo Bert si era trasformato all’improvviso in quel giudice così duro e spietato?
- Hai capito bene, Candy? – continuò lui, implacabile – cinque anni fa hai scelto di rinunciare a Terence per tutta una serie di ragioni, ma in primo luogo perché pensavi di fare il suo bene. Se oggi scegli ancora e consapevolmente di perseverare nella tua rinuncia, non provando neanche a riprenderti la felicità e l’amore che ti mancano, e che probabilmente mancano anche a lui, lo fai consapevolmente e da adulta. Ma sappi che a questo punto ti assumerai la completa responsabilità del tuo dolore. Senza più nessuna Susanna Marlowe a farti da comodo alibi!
Gli occhi di Albert non abbandonavano i suoi, sembrava che le stessero dando la caccia, andandola a stanare nel rifugio in cui si era nascosta per tutti quegli anni.
- Oh Bert! – Candy liberò la mano dalla stretta di lui e appoggiò i gomiti al tavolo, coprendosi il volto con le mani e cominciando a singhiozzare disperatamente – Non ce la faccio..non ce la faccio! Io lo amo così tanto… e non ce la faccio… La mia volontà mi grida di tornare da lui ma il mio cuore e il mio corpo sono semplicemente paralizzati all’idea di rivivere la stessa sofferenza di quel giorno, quel senso di abbandono quando lui mi è sfilato davanti in silenzio su quella terrazza!
Candy era squassata dai singhiozzi, adesso, ma Albert non la interruppe. Da troppo tempo Candy faceva circolare nel suo corpo quelle sensazioni letali come un veleno, che le avevano aggredito l’anima e soffocato ogni scintilla di speranza. Era ora che le espellesse, dolorosamente come erano entrate in lei.
- Non mi ha detto niente, Bert! Ha distolto lo sguardo da me e… non mi ha lasciato altra scelta! Mi stava chiedendo aiuto! Era il suo modo di chiedermi di salvarlo da se stesso… e io l’ho fatto. Ho raccolto tutta la mia forza e l’ho fatto. Allora, in quel preciso momento, senza aspettare un solo istante di più… perché sapevo, lo sapevo bene, che se avessi aspettato anche solo il tempo di un ultimo sguardo non ne avrei mai più avuto la forza. Non posso… non so se posso rivivere tutto quel dolore, quell’angoscia, quel senso di abbandono…
Le parole, spezzate da singhiozzi sempre più flebili, finalmente erano fluite fuori da quel cantuccio oscuro dell’anima dove Candy aveva nascosto il dolore, illudendosi di averlo annullato e avendolo invece solo nutrito con i pezzi strappati dal suo cuore lacerato. Candy sollevò il viso, asciugandosi le lacrime come al solito con una mano, nel consueto gesto che fece sorridere teneramente Albert suo malgrado, e con l’altra si aggrappò al ciondolo di zaffiro che come sempre le pendeva al collo.
L’uomo le accarezzò dolcemente la guancia e le sorrise fraternamente prima di riprendere, questa volta con tono più tenero:
- Molto bene, Candy. Capirò, se le cose stanno così. Stai scegliendo di piegarti al dolore e di rinunciare ad una seconda occasione di felicità. Nessuno ti biasimerà per questo, per il fatto che hai paura di rivivere quel dolore che ti ha spezzata. Io personalmente sono convinto che sia un errore, che un legame come quello che unisce te e Terence meriti una seconda opportunità. E sono anche convinto (ma è una mia considerazione, mentre tu devi seguire ciò che ti suggerisce il tuo cuore) che un’affinità del genere non possa che vibrare ancora anche nel cuore di Terence. Credo che anche lui si stia agitando nello stesso pantano di paure e rimpianti nel quale ti sei arenata tu. Ma, Candy, il punto è che nessuno può dirvi cosa fare e come vivere il vostro dolore e la vostra vita.
Candy aveva gli occhi incollati ai due spicchi di cielo che brillavano in quelli di Albert, le cui parole a poco a poco stavano penetrando sotto la sua consolidata e temprata corazza.
- Però una cosa la esigo – continuò lui - non come tuo tutore, né come tuo amico, ma come persona che ti vuole bene più che a chiunque altro al mondo: se scegli di rinunciare, devi essere coerente fino in fondo, accettare di portare questo fardello e uscire comunque dal cantuccio in cui ti sei rintanata. Non puoi più vivere con lo spauracchio di questo dolore, di questo amore perduto. Mia cara, vai a New York, che sia per ritrovare Terence o per dimostrare a te stessa che lo hai relegato nel passato… ma sei rimasta per troppo tempo nel guado tra queste due possibilità! Ed è il momento di uscirne!
Candy aveva cominciato a respirare di nuovo normalmente: il suo sfogo e soprattutto le parole di Albert sempre così piene di saggezza e affetto, ma anche, come mai prima di allora, determinate e incalzanti, avevano avuto l’effetto di dissipare il panico.
Lui aveva ragione, come sempre. Doveva scegliere una volta per tutte in che direzione andare. Lo aveva promesso mesi prima ad Annie e poi, nascondendosi dietro l’ottimo paravento costituito dall’eccitazione per la nuova vita che aveva intrapreso a Washington, aveva di nuovo codardamente riposto in un cantuccio quel tarlo che la stava divorando dall’interno.
- Va bene, Bert… ti prometto che ci penserò… - gli disse, prendendo questa volta una delle mani di Albert tra le sue per trasmettergli, senza parole inutili fra loro, tutta la propria gratitudine. Solo averlo ascoltato la faceva sentire più leggera.
Annie qualche mese prima aveva già smosso con la sua dolcezza il macigno del senso di colpa che bloccava la porta tra lei e il suo futuro; ora Albert con la sua saggezza l’aveva spinto via del tutto, andando all’origine del senso di abbandono che lei ancora provava dalla separazione da Terence. Adesso il varco era sufficientemente ampio perché lei lo oltrepassasse.
Stava solo a lei decidere se fare quel passo e quale direzione intraprendere di lì in avanti.
E così scelse di andare avanti.
Sapeva che Albert aveva ragione e che per capire veramente cosa voleva dal suo futuro doveva tornare indietro, all’origine di quel “resto della sua vita” che era iniziato in una notte d’inverno, sotto il cielo bianco e pesante di neve di quella città della quale non riusciva più a pronunciare il nome.

___________________________


* Romeo e Giulietta, Atto I, Scena II

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 20/5/2013, 19:31
 
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New York,
15 aprile 1919


Il fatto che Robert Hathaway alla festa dei Lansing le avesse rivelato che Terence non si trovava a New York, ma in Europa, aveva dato coraggio a Candy: almeno non avrebbe corso il rischio di girare un angolo della Madison Avenue e ritrovarselo davanti per sbaglio, magari al braccio di una bellissima ed elegante giovane dama all’ultima moda, e che nel vederla avrebbe esclamato, sfoggiando un’espressione allegramente sorpresa:
- Candy, sei proprio tu? Ma cosa ci fai qui in città? E’ un secolo che non ci vediamo, non è vero? Avresti dovuto avvertirmi, ti avrei invitato a cena con mia moglie, posso presentartela? Amore, lei è Candice, una mia vecchia compagna di scuola dei tempi del collegio…
Beh, almeno sarebbe stato un modo per uscire da quell’incertezza, pensò Candy, non riuscendo però a sorridere neanche un po’ di quella surreale immagine evocata dalle proprie insicurezze, nella quale, ovviamente, la presunta moglie di Terence era la donna più bella che si potesse immaginare…
In principio, quando era scesa alla Grand Central Station insieme a Mrs. Roosevelt e a Patty in una piovosa giornata in cui la primavera stentava ancora a scalzare un tardo inverno che intonava il suo canto del cigno, come a non volersi separare da New York, Candy aveva sentito lo stomaco contrarsi e aveva dovuto quasi fare violenza su se stessa per non guardarsi attorno alla ricerca di due zaffiri splendenti tra la grigia e anonima folla che le scorreva attorno indifferente.
Con una fitta di nostalgia si rivide eccitata fino allo spasimo in un giorno d’inverno di tanti anni prima, dirigersi con sicurezza verso una figura di spalle ricoperta di un familiare mantello blu che sentiva di poter riconoscere tra mille... solo per ritrovarsi imprevedibilmente a fissare l’uomo più brutto che avesse mai visto in vita sua.
La risatina che era salita subitaneamente alle sue labbra a quel ricordo si mutò rapidamente in una espressione di struggente malinconia al pensiero della mano che in quel momento aveva circondato la sua con decisione, provocandole la nota scossa elettrica al contatto, per trascinarla via da quella imbarazzante situazione, fino al luogo appartato in cui i suoi occhi avevano finalmente potuto rituffarsi dopo tanto tempo in quelle pozze profonde di blu, la cui mancanza ancora la faceva tremare per un dolore che avvertiva fisicamente.
Candy era tornata in sé quando Patty le aveva stretto la mano in silenzio, lanciandole uno sguardo rassicurante che l’aveva rasserenata un po’. Non era sola. Qualunque cosa New York avesse in serbo per lei, stavolta sarebbe stata pronta ad affrontarlo. Cinque anni prima da quel treno era scesa un’adolescente follemente innamorata e forte di un biglietto di sola andata che la faceva sentire invincibile; era felice, ottimista, certa dei propri sentimenti e di quelli del ragazzo che stava per rivedere e dal quale, così pensava, non si sarebbe più separata. E così si era fatta cogliere impreparata e completamente senza difese dalla realtà che era piombata su di lei, con la rapidità di un falco e la sua stessa rapacità nel farle a brandelli il cuore.
New York si era dimostrata un nemico ostico e implacabile, ma stavolta Candy era arrivata in battaglia armata di una corazza più difficile da scalfire che in passato: il suo dolore e la sua paura di soffrire ancora. L’unico problema era che anche lei sembrava avere oramai perso la capacità di allentarne le cinghie, e di lasciare che le sue emozioni le suggerissero la giusta direzione da intraprendere. Decise quindi di affrontare un giorno per volta e aspettare che la vita la sorprendesse, come Miss Pony sosteneva sempre potesse accadere dietro ad ogni angolo.
Purché, ovviamente, la sorpresa non fosse costituita dalla bellissima moglie di Terence che ormai regnava sovrana nella sua mente.
La residenza dei Roosevelt, al n° 49 della East 65th Street, nell’Upper East Side, si trovava nella zona più esclusiva della città, a due passi da Central Park, dalla Fifth Avenue, dai più esclusivi negozi, musei, attici di lusso. Era il centro pulsante di quella relativamente recente aristocrazia del denaro americana che non aveva nulla da invidiare, quanto a snobismo ed esibizione di ricchezza e privilegi, alla millenaria nobiltà della vecchia Europa.
La particolarità della casa era costituita dal fatto di essere un unico enorme appartamento sapientemente suddiviso in due residenze gemelle e comunicanti, ciascuna ancora talmente grande da poter essere definita lussuosa. Una di esse era la dimora di Franklin Delano e della moglie, mentre l’altra era il regno di Sarah Ann Delano Roosevelt, la suocera di Eleanor.
Fu immediatamente chiaro a Candy e Patty che suocera e nuora avevano un rapporto assolutamente conflittuale, un’ostilità atavica che generava tra le due un’ondata di tensione e allarme in ogni loro interazione. Sembrava che Mrs. Delano Roosevelt fosse l’unica persona al mondo, o quanto meno nella vastissima cerchia di conoscenze di quella eminente famiglia, a non subire il fascino carismatico di Eleanor. Era una donna di sessantacinque anni, dai capelli candidi sempre raccolti sulla nuca, l’immancabile filo di perle su abiti dignitosi e austeri, ma paradossalmente più alla moda di quelli della nuora, e uno sguardo tagliente che sembrava perforare come affilato acciaio tutto ciò su cui si posava. Già dal momento delle presentazioni, Candy pensò subito che si trattava di una delle persone meno empatiche che avesse mai conosciuto, e sia a lei che a Patty fece tornare immediatamente alla mente l’ipocrita perbenismo di suor Grey.
Dagli scambi frettolosi e tesi che le due ragazze poterono carpire tra suocera e nuora al loro arrivo in casa, Mrs. Delano Roosevelt era una donna autoritaria e profondamente calata nel suo ruolo di grande matriarca dell’importante clan dei Roosevelt e in ogni modo, fin dai primi giorni che seguirono al loro arrivo a New York, totalmente protesa a posare la sua longa manus su ogni decisione riguardante la famiglia e l’andamento domestico, dai fiori da scegliere per i vasi al menù della cena, sia in casa propria che in quella del figlio. Eleanor, che aveva tanto colpito Candy e Patty per la straripante personalità, sembrava richiudersi come un riccio in presenza di Mrs. Delano Roosevelt. Il suo atteggiamento denotava non tanto astio o paura, quanto una totale mancanza di affetto e sintonia nei confronti della suocera e una forma di eccessiva cautela, come se stesse sempre guardinga in sua presenza, sforzandosi di parlare il meno possibile, soprattutto dei suoi interessi e delle sue attività, argomenti che invece dominavano immancabilmente ogni altra conversazione nella quale si trovasse coinvolta.
A Candy e Patty vennero assegnate due camere gemelle con vista su Park Avenue, semplicemente ma raffinatamente arredate in stile liberty. Il colore dominante era il bianco, e le linee sinuose ed eleganti del letto, del mobile da toletta e del guardaroba davano un tono allegro e piacevolmente giovanile alla stanza di Candy. Sotto la grande finestra vi era un delizioso bovindo che consentiva di godere della splendida vista delle vie più esclusive della città, fino al Central Park. Il tutto era allietato da tende e da un copriletto di raso verde mela, colore che la ragazza adorava. Candy si sentì immediatamente a suo agio in quella casa, almeno fino a quando non le capitava di incrociare i passi di Mrs. Delano Roosevelt, trovandosi costretta a scambiare con lei qualche breve frase di cortesia.
Le piaceva leggere un libro o le lettere che avevano già cominciato a giungerle da Albert, Annie e dalla casa di Pony accoccolata con le gambe raccolte sotto di sé sul bovindo della sua camera, o prendere il tè con Patty nel discreto salottino al piano terreno, che veniva utilizzato quotidianamente al posto dell’enorme salotto dagli scintillanti lampadari di cristallo, destinato invece alle occasioni di gala, quali però non si erano ancora verificate dall’arrivo in città delle tre donne.
Candy era andata alcune volte al Metropolitan Museum, insieme ad una Patty eccitata come fosse stata una bambina in un negozio di caramelle, e l’aveva seguita in religiosa ma non realmente appassionata contemplazione delle vastissime collezioni archeologiche e pittoriche uniche al mondo di quel luogo magico. Solo quando si erano avventurate, ormai alla loro terza visita, nell’ala destinata ai pittori impressionisti, Candy aveva trattenuto a stento esclamazioni di sincero e vivo stupore di fronte all’esplosione di macchie di colore simili a spettacolari fuochi d’artificio che scoppiassero sulle tele, capaci però di ricomporsi incredibilmente ed imprevedibilmente in immagini armoniose e talmente emozionanti da suscitarle una viva commozione.
Non erano mancate lunghe passeggiate lungo la Fifth Avenue e la Madison Avenue e, come di rigore a New York, una visita al famoso gioielliere Tiffany, dove però Candy era stata colpita più dalle originalissime lampade in vetro colorato a fogge floreali o animali che non dagli sfarzosi gioielli e dalle sfavillanti gemme preziose adagiate sul velluto rosso e crema delle vetrine di cristallo pregiato.
Due o tre volte alla settimana si recava con Mrs. Roosevelt presso l’ospedale che quest’ultima stava allestendo per i bambini vittime di incidenti sul lavoro, grazie al contributo della fondazione Roosevelt e della fondazione Andrew. Candy la stava aiutando con grande passione e dedizione a selezionare il personale infermieristico.
Più di tutto, però, le piaceva passeggiare per Central Park da quando, in quei giorni di metà aprile, la primavera aveva finalmente trionfato sugli ultimi strascichi di un lunghissimo inverno.
Quel pomeriggio, lei e Patty stavano camminando lungo uno dei viali che costeggiava la grande pista di pattinaggio. Chiacchieravano alacremente dell’argomento del giorno: quella sera sarebbe finalmente giunto da Boston Harold Clement, il fidanzato di Patty, per trascorrere le vacanze di primavera a New York.
- E così, Patty, finalmente conoscerò questo instancabile grafomane, che nelle ultime settimane ti ha sommerso con almeno tre lettere a settimana. La vita ad Harvard deve essere una continua fonte di sempre nuove ed eccitanti avventure, a giudicare dall’enorme mole di informazioni che il tuo fidanzato condivide con te al riguardo! - scherzò Candy, divertendosi a prendere in giro l’amica e godendosi il rossore che immediatamente le aveva acceso le guance a quelle parole.
- Candy, non prendermi in giro, ti prego… Tu sai bene quanto mi sarebbe piaciuto poter frequentare un’università prestigiosa come Harvard. La vita ha deciso diversamente. Se solo avessi avuto un decimo della tua determinazione, adesso sarei forse lì anch’io! – La voce di Patty aveva una nota nostalgica e malinconica.
- Patty, tu hai fatto grandi cose. E io ti assicuro che vorrei avere un decimo della tua determinazione. Quella che ti ha fatto affrontare il distacco più doloroso che si possa immaginare, arrivare al fondo del dolore e poi risalire. Io non sono stata altrettanto brava, lo sai, sebbene mi faccia piacere atteggiarmi ancora, come se fossi la vecchia brillante e inossidabile Candy.
- Invece io la vedo proprio qui davanti a me… mi sembra che potresti arrampicarti su uno di quegli alberi proprio in questo momento. Venire a New York è stato il primo passo... adesso dobbiamo occuparci solo di quello sfavillio negli occhi che da troppo tempo non vedo più. Potrei dirti esattamente quando è stata l’ultima volta che ha illuminato il tuo sguardo – le sorrise Patty, ripensando alla festa che avevano fatto all’appartamento Magnolia la sera prima della partenza di Candy per New York.
Avevano cantato, ballato, riso e goduto della semplice gioia di essere tutti insieme. Anche Terence, pur non essendovi fisicamente, sembrava aleggiare tra loro, tanta era l’intensità del desiderio di Candy di bruciare quelle ultime ore che li separavano, per lanciarsi tra le sue braccia. Allora non potevano sapere che sarebbe stata l’ultima volta che sarebbero stati tutti uniti, prima della partenza di Stear per la guerra e della separazione di Candy da Terence.
Per fugare l’ombra che era calata tra di loro, Patty si affrettò a cambiare argomento mentre, sempre continuando a passeggiare, le due ragazze uscivano da Central Park e si avviavano lungo Fifth Avenue dirette verso casa. A quell’ora probabilmente Harold stava per arrivare. Il programma della serata prevedeva una cena fredda in compagnia delle due signore Roosevelt e poi i tre giovani sarebbero andati a teatro, mentre Eleanor sarebbe intervenuta in qualità di oratrice ad una conferenza della Women’s Trade Union League, con sommo disappunto e onta della suocera.
- Candy, Flanny Hamilton era una tua vecchia compagna alla scuola per infermiere, vero? Quella che andò in Francia come crocerossina volontaria allo scoppio della guerra, no?
Candy guardò Patty stupita: non si aspettava assolutamente di sentir nominare Flanny da Patty, che non l’aveva mai conosciuta, ma alla quale aveva parlato di lei in alcune delle lettere che si erano scambiate nel periodo in cui Candy studiava alla scuola Mary Jane e Patty era ancora alla St Paul School. Che memoria di ferro aveva la sua amica cervellona!
- Sì, Patty. Come mai me lo chiedi?
- Ecco, mi è venuto in mente che dovesse essere lei: quest’oggi all’ospedale è arrivata una lettera di referenze per il posto di capo-infermiera da parte del direttore della Croce Rossa di New York. Pare che la tua amica si sia distinta particolarmente nell’ospedale militare dove ha prestato servizio, e che abbia ricevuto diversi encomi per il suo coraggio e la sua dedizione.
Sì, era proprio Flanny.
Candy ripensò ai mesi in cui avevano convissuto alla scuola Mary Jane, al rapporto necessariamente conflittuale che si era istaurato tra lei e l’algida e impeccabile compagna di camera che rappresentava il suo esatto e perfetto opposto. Ripensò anche alla lettera che aveva spedito a Flanny quando aveva letto sul giornale dell’encomio solenne da lei ricevuto in occasione di un’azione particolarmente impegnativa di salvataggio di un gruppo di feriti nella battaglia di Ypres. Si era scusata con la vecchia collega per aver cercato di forzare la sua riservatezza quando erano compagne di stanza e per averle imposto, con l’esuberanza dei suoi felici sedici anni, una confidenza evidentemente non gradita. Flanny aveva risposto dalla Francia alla sua lunga lettera solo con un freddo e laconico messaggio di ringraziamento. Era piuttosto evidente che non desiderava averla tra le sue amicizie, e da allora Candy non le aveva più scritto.
- Sono certa che Flanny è la persona più adatta a rivestire l’incarico di capo-infermiera all’ospedale per bambini di Mrs. Roosevelt, anche se non la vedo da tanto tempo – confermò quindi Candy a Patty, lieta che la sua vecchia compagna di corso avesse raggiunto gli alti livelli che si era sempre prefissa nella sua professione.
Nel frattempo le due amiche erano arrivate a casa. Sempre assorbite nella loro fitta e spensierata conversazione, salirono i sette scalini di arenaria ed entrarono dall’elegante portone d’ingresso, per venire accolte dal maggiordomo che immediatamente prese i loro soprabiti e le fece accomodare nel salottino.
Qui trovarono Mrs. Eleanor Roosevelt, sua suocera e un giovane vestito di un completo giacca e pantaloni color tortora, camicia bianca dal colletto perfettamente inamidato e cravatta scura, compostamente seduto in poltrona con una tazza di tè in mano.
- Hal, sei già arrivato! Oh, come mi dispiace non essere stata qui ad accoglierti! – esclamò Patty, gli occhi color nocciola che si accendevano improvvisamente di gioia vibrante, e la voce limpida di felicità.
Harold Thomas Clement rappresentava perfettamente l’immagine del futuro avvocato di New York: i capelli di un biondo ramato erano pettinati ordinatamente con una netta riga laterale, a incorniciare un volto aperto e serio sul quale spiccavano occhi di un verde-castano accesi da una luce di brillante intelligenza. Il tratto dominante della sua persona era l’altezza: doveva essere alto almeno un metro e ottantacinque centimetri e, quando la minuta Patty si avvicinò a lui per abbracciarlo, dovette chinarsi di parecchio per baciarla sulle guance e guardarla con sincero affetto e trasporto negli occhi. I due ragazzi rimasero lì in silenzio uno di fronte all’altra, tenendosi entrambe le mani un po’ imbarazzati della presenza degli altri, mentre una palpabile ondata di affetto correva dall’uno all’altra sotto lo sguardo dei presenti. Mrs. Delano Roosevelt, una mano a reggere elegantemente il piattino di delicata porcellana, li fissava con la tazza di tè nell’altra mano e un gelido sguardo di pura disapprovazione per quelle manifestazioni di affetto assolutamente inappropriate. Mrs. Roosevelt, invece, sorrideva apertamente, anche se sarebbe stato difficile per Candy affermare se fosse per il piacere di vedere due giovani innamorati, o per il fastidio che ciò tanto evidentemente suscitava in sua suocera.
- Candy, finalmente posso presentarti Hal… Harold T. Clement! Hal, lei è Candy… ehm! Candice W. Andrew, la mia migliore amica.
Harold allungò verso di lei una mano curata ma virile, e la guardò con un aperto e franco sguardo di simpatia che a Candy piacque moltissimo. In un modo o nell’altro, sebbene fossero diversissimi nel fisico e nell’atteggiamento, quel giovane le ricordava molto la purezza di Stear, e capiva molto bene come Patty potesse essersene innamorata.
- Sono veramente molto lieto di fare la sua conoscenza, finalmente, Miss Andrew! Patricia mi ha parlato molto di lei.
- Spero che non le abbia raccontato di alcune delle mie più gravi intemperanze dei tempi della scuola, Mr. Clement. Quelle vorrei riservarle per quando la nostra conoscenza sarà un po’ più avanzata… e la prego, mi chiami Candy, ci terrei molto!
- Molto bene, Candy! Dunque tu chiamami Hal..
- A quali intemperanze allude, Miss Andrew? – intervenne una subito in allerta Mrs. Delano Roosevelt, con acuto tono indagatorio.
Candy si rivolse a lei cercando di mascherare un sorriso malizioso e fortemente tentata di raccontarle davvero di qualcuno dei suoi voli da un ramo all’altro del giardino della St. Paul School per recarsi nottetempo nel dormitorio dei ragazzi; e arrivò addirittura a trastullarsi con l’idea di narrarle di quando era scappata di prigione in quel radioso giorno di maggio per recarsi allo zoo di Londra con una tartaruga. Per fortuna Mrs. Eleanor Roosevelt la precedette intervenendo:
- Candy stava solo scherzando, Sarah… ai giovani piace scherzare al giorno d’oggi.
Mrs. Delano Roosevelt stirò la bocca in una linea rigida e dura che lasciava chiaramente intendere come non ritenesse affatto divertente la mancanza di serietà delle nuove generazioni, e Candy dovette fare sempre più fatica per trattenere la risatina che premeva per sgorgare. Quella donna davvero le ricordava sempre di più Suor Grey! Chissà come si sarebbe divertito Terence a farla uscire di senno, canzonandola con qualche fine gioco di parole che lei non avrebbe neanche compreso…
Terence!
Eccolo lì, sempre al centro dei suoi pensieri, pronto a cogliere ogni minima scusa per occupare la sua mente con quell’impudente sorriso di sfida al quale solo lei sapeva tenere testa un tempo, e lo sguardo più blu del più terso dei cieli che le sembrava di poter sfiorare ogni volta che quegli occhi la accarezzavano.
Chissà come stava il Duca di Granchester… Candy si augurò con tutto il cuore che i dissapori del passato fossero superati; nessuno, tranne lei, aveva mai avuto accesso ai nascosti segnali di affetto per il padre che Terence era invece maestro nel nascondere sotto cumuli di indifferenza e astio. D’altra parte Candy capiva meglio di chiunque altro che il ragazzo non avrebbe sofferto tanto per i rifiuti e l’anaffettività del genitore, se non lo avesse amato.
- Bene ragazzi! Adesso dovete proprio andare a prepararvi per il teatro. Vi accompagnerò con l’autista, Broadway mi è di passaggio. Al termine dello spettacolo verremo a riprendervi – la voce di Mrs. Roosevelt interruppe le sue riflessioni e Candy, Patty e Hal si scusarono, dirigendosi ciascuno nella propria camera per prepararsi per la serata.

Candy e Patty, cui Harold offriva orgogliosamente il braccio, scesero dalla lussuosa Isotta Fraschini Tipo 8 nera davanti all’ingresso del teatro New Amsterdam.
Candy, vestita di un elegante abito rosa, si sentiva piuttosto agitata e i ricordi del passato le erano ripiombati addosso, mentre in macchina percorreva Broadway, lasciando scorrere davanti ai suoi occhi sgranati le mille luci, i colori, il movimento e la frenesia che ricordava così bene. La Great White Way era ancora più strabiliante di quanto ricordasse. Sembrava che gli abiti delle donne fossero più eleganti e magnifici, gli uomini più affascinanti. Nuovi e sorprendenti spettacoli di vaudeville, tra i quali spiccava il cartellone dei quattro surreali fratelli Marx al Palace Theatre, cominciavano a rompere l’atavico dominio delle rappresentazioni classiche, quali l’acclamatissimo Amleto di John Barrymore. Ciascuna insegna era come una girandola impazzita di luce e di titoli che si sfidavano con caratteri sempre più luccicanti e cubitali. Le voci e i suoni rappresentavano perfettamente la grande eccitazione di quella metropoli che, dopo la fine della guerra, sembrava voler raddoppiare gli sforzi per gustare al massimo ogni occasione di divertimento, prima che il proibizionismo giungesse a limitarne l’esplosività dal primo gennaio dell’anno successivo.
A Candy sembrava di rivedere una più giovane e felice se stessa, semplicemente vestita di verde, ammirare per la prima volta quello spettacolo variopinto, ma senza riuscire a coglierne appieno la portata, totalmente protesa verso la prima di Romeo e Giulietta alla quale stava per assistere. Ripensandoci adesso, le sembrava di vedere l’immagine di un bersaglio mobile pochi istanti prima che un cecchino sparasse il suo colpo mortale.
Con il solito inconsapevole gesto dal quale cercava sempre di trarre forza nelle difficoltà, Candy portò la mano all’inseparabile ciondolo di zaffiro e lo strinse forte, come a chiedere di darle forza a quella pietra che rappresentava per lei l’unico colore della felicità. Non per la prima volta si chiese se non avesse preteso troppo da se stessa, sfidando il destino e venendo a New York. Dopo aver parlato con Albert, aveva deciso di dimostrare a entrambi di essere sufficientemente coraggiosa per affrontare il passato dal quale si era impegnata a fuggire negli ultimi cinque anni, ma mai come quella sera si sentiva debole e inerme. Le sembrava di vedere lo sguardo intenso di Terence dappertutto.
Entrando nel foyer del teatro, Candy, oltre che dall’agitazione per il suo passato più doloroso che vedeva di nuovo scorrerle davanti agli occhi, come nei fotogrammi di uno dei film muti che allora cominciavano a spopolare, si sentiva anche in preda a uno strano, oscuro presentimento.
Le vennero alla mente i versi del capolavoro letto mille e più volte fino a impararlo a memoria, mentre rievocava i toni profondi e caldi, vibranti di passione e acerbo talento con i quali Terence glieli aveva letti nella loro indimenticabile estate sulle rive del lago Loch Lomond. La tragedia i cui versi non troppo lontano da lì, allo Stratford Theatre, aveva udito in quella notte fatale recitare a Terence per l’ultima volta, prima di alzarsi e lasciare la platea per dirigersi incontro al suo cecchino:

“Il mio spirito è oppresso
dal presentimento di casi
ancora sospesi nelle stelle,
che potrebbero prendere l’avvio
al loro amaro corso funesto
proprio dalla mascherata di stasera:
ed anche segnare il termine
di quella vita perduta che mi chiudo in petto
con l’infamia di una condanna ad immatura morte.
Ma chi regge il timone del mio viaggio,
manovri la mia vela!” *




Dopo aver lasciato i leggeri soprabiti primaverili alle guardarobiere, Candy, Hal e Patty, elegante e deliziosa nel suo semplice abito bianco, furono accompagnati ai loro posti in una platea gremita e allegramente rumorosa, dove l’inserviente consegnò loro i programmi della serata.
Sedutasi, finalmente Candy si concesse di rilassarsi un po’ e, lasciando Hal e Patty alla loro conversazione incentrata su un importante professore di Harvard, che a quanto pareva aveva raccomandato Hal per un importante studio legale di New York, abbassò lo sguardo sulla copertina del programma, raffigurante un’immagine dal tono esasperatamente fiabesco di un principe con tanto di cappello piumato che si allontanava sullo sfondo del tramonto, tenendo tra le braccia una damigella dal lungo abito drappeggiato e baciandola appassionatamente.
Lesse l’intestazione e il respiro le si spezzò in gola.

locandinasusanna



Candy non poteva credere ai suoi occhi…
Susanna Marlowe!
SUSANNA MARLOWE!
SUSANNA MARLOWE!
Sembrava che, come in un riuscito effetto ottico, quel nome si ingrandisse sempre di più davanti agli occhi sbarrati di Candy, fino a coprire ogni altra immagine e ad invadere la sua mente.
Nel tentativo di sfuggire al ricordo di Terence era finita dritta tra le braccia di Susanna Marlowe!
Si guardò istintivamente a destra e sinistra come a cercare una via di fuga, le dita della mano destra che stringevano freneticamente il ciondolo color fiordaliso.
Ma prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa, le luci si spensero e, accompagnato da un caloroso applauso, il sipario si alzò.

______________________________



* Romeo e Giulietta, Atto I, scena IV.

...CONTINUA...

saradelanoroosevelt

Sarah Ann Delano Roosevelt in un ritratto ufficiale.



Edited by cerchi di fuoco - 23/5/2013, 22:51
 
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view post Posted on 26/5/2013, 16:51     +4   +1   -1
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Questa parte del quarto capitolo è dedicata a Misiuccia, che come me non si è mai rassegnata...

Per tutto il viaggio di ritorno in macchina Candy restò in silenzio, sprofondata nel suo angolo, avvolta dai morbidi e sinuosi velluti che tappezzavano la Isotta Fraschini con cui Mrs. Roosevelt era passata a riprendere i tre ragazzi, al termine dei suoi impegni.
Eleanor non poté fare a meno di notare che l’atmosfera era molto più tesa e silenziosa rispetto al viaggio d’andata, che era stato condito da allegre e vivaci chiacchiere tra i giovani. Candy era mortalmente pallida e Patty le teneva una mano, fissandola con espressione molto preoccupata. Solo Hal cercava di abbozzare una conversazione di cortesia con Mrs. Roosevelt, ma anche lui osservava perplesso le due ragazze, dando segno di non avere idea di cosa potesse avere guastato l’atmosfera briosa di poche ore prima.
- Come è stato lo spettacolo, ragazzi? - chiese la donna per rompere il ghiaccio, pur non ritenendo che una sia pur pessima rappresentazione potesse essere la causa di tale gelo.
Poiché né Patty né Candy sembravano in grado di rispondere, fu Hal a intervenire galantemente:
- Uno spettacolo singolare, zia Eleanor. Molto celebrato dalla critica per la novità del linguaggio narrativo. Ma, se devo essere sincero, ne ho trovato il tono forzatamente fiabesco talora più che metaforico. Eccessivo, direi. Sembra quasi che il testo sia stato scritto da un bambino che si sforzasse di pensare come un adulto… o viceversa.
- Si tratta dell’ultima opera scritta da Susanna Marlowe prima di morire, vero? – chiese Mrs. Roosevelt, cercando di aiutare il nipote a tenere in piedi quella conversazione.
Ai suoi occhi attenti non sfuggì che Candy e Patty erano trasalite nel sentir pronunciare quel nome. Dunque, il loro brusco cambiamento d’umore pareva essere legato proprio alla sfortunata ex-interprete e poi scrittrice teatrale, morta poco più di un anno prima.
- Sì, una donna molto sfortunata – rispose Hal.
- Già. Prima quell’incidente che ha messo fine alla sua carriera di attrice proprio quando stava decollando e poi, quando il successo stava cominciando ad arriderle di nuovo come scrittrice, la morte improvvisa e per cause mai del tutto chiarite.
- Si parlava di una sindrome depressiva, ai tempi, non è vero? Effettivamente ricordo che si era mostrata molto poco in pubblico nell’ultimo periodo – rifletté Hal.
Candy sussultò, sentendo accennare alle condizioni psicologiche di Susanna. Il necrologio non ne aveva recato traccia.
- Il che non era una novità, in realtà – continuò Mrs. Roosevelt - il suo fidanzato, nonostante sia uno degli attori più famosi e acclamati del momento a Broadway, sfugge come la peste le occasioni pubbliche. Le loro apparizioni agli eventi della vita mondana newyorkese si contano sulle dita di una mano. L’ultima volta che vidi Susanna Marlowe in pubblico fu proprio alla prima della Principessa sbagliata, alla quale io e Frank presenziammo in quanto di passaggio a New York da Washington in quel periodo. Lei però era sola, in effetti. Ricordo anche che ai tempi ci si chiese come mai Terence Graham non avesse interpretato il ruolo del protagonista, per sostenere con la sua fama l’opera della Marlowe.
Constatando che né Candy né Patty sembravano intenzionate a intervenire nella conversazione, fu ancora Hal a rispondere:
- In effetti, zia, neanche io riesco a immaginare quello strepitoso interprete classico calarsi in queste atmosfere surreali. Un plot molto singolare, in effetti ma che, ripulito dalle metafore di cui è intriso, si riduce ad un triangolo in cui però niente è come sembra: il principe di una specie di regno di Oz crede di essere follemente innamorato di una fanciulla di umili origini ma malvagia, la quale millanta dolcezza e gentilezza, con il solo intento di conquistarlo. Per sua fortuna, il principe viene salvato dall’infausto matrimonio con questa tale Rebecca dall’intervento della bella principessa Caterina, che svela le oscure trame di Rebecca per impadronirsi del cuore dell’eroe e, con pazienza e abnegazione senza fine (e danze e balli) fa sì che il principe Astor capisca che il suo vero e unico amore è solo lei. Da qui la scelta di lasciare Rebecca e di allontanarsi verso il suo futuro, voluto dal destino, con Caterina. In effetti – concluse Hal – una sorta di Cenerentola al contrario, in cui la principessa trionfa sulla fanciulla di umili origini.
Candy, ormai allo stremo della sua lotta contro le lacrime, accolse come una vera liberazione l’arrivo in East 65th street.
- Candy – bisbigliò Patty all’amica – vuoi un po’ di compagnia? Posso fare qualcosa per te?
- No, grazie Patty. Andrò subito a letto e domani starò meglio.
- Oh, Candy, come mi dispiace! Se solo avessi saputo cosa stavamo andando a vedere…
Candy rivolse un sorriso rassegnato a Patty e la rassicurò:
- Patty, non voglio essere un bicchiere di cristallo sentendomi sempre a rischio di urtare con qualcosa di più resistente e rompermi in mille pezzi. Devo riuscire ad affrontare cose come questa.
- Sono d’accordo, Candy. Il che però non comporta che quel bicchiere di cristallo debba necessariamente essere poggiato proprio nel punto in cui sta crollando una frana… anche il più solido dei vetri si frantumerebbe!
- Oh tesoro, quanto ti voglio bene!
Le due ragazze si abbracciarono con trasporto ai piedi della scala, sotto lo sguardo attento di Eleanor Roosevelt, e poi tutti si salutarono e si diressero nelle proprie stanze.
Finalmente sola, Candy si spogliò con gesti lenti e si sciacquò il viso. Indossò una leggera camicia da notte candida e una vestaglia di morbido cotone di un tenue verde, quindi prese dal cassetto del suo comodino una semplice scatola di legno di cedro e, tenendola tra le mani, si recò verso il bovindo davanti alla finestra. Alzò lo sguardo verso il cielo, terso e costellato di stelle, il cui bagliore era in parte offuscato dalle sfavillanti luci della città. Scostò alcuni morbidi riccioli ribelli dalla fronte, passandoseli dietro l’orecchio, e fece un sospiro.
Con un brivido che percorse ogni fibra del suo corpo, come costretta da una volontà più forte della sua, si trovò a rievocare le scene dello spettacolo a cui aveva appena assistito e che si erano scolpite in profondità nella sua mente.
Patty aveva penetrato solo la punta dell’iceberg, quando aveva visto il nome di Susanna Marlowe sul programma e aveva capito di chi si trattasse. Ma non poteva immaginare l’incubo in cui era sprofondata Candy, a mano a mano che le scene scorrevano davanti ai suoi occhi e gli attori davano vita e parole alla storia sua, di Terence e di Susanna ma in una sorta di gioco degli specchi dove ogni cosa era il suo opposto. Il tutto solo lievemente celato dietro la metafora della fiaba.
Susanna aveva stravolto completamente ciò che era accaduto, e la principessa che arrivava nel secondo atto a salvare il principe Astor dalle malevole grinfie di una Rebecca così perfida da infastidire a pelle ogni spettatore, rappresentava chiaramente la celebrazione del secondo amore, il vero amore, di Terence. Lei stessa, Susanna.
La donna per la quale Candy aveva rinunciato ad ogni speranza di felicità.
Ma ciò che aveva sconvolto più di ogni altra cosa Candy, era stata la scena finale, il ricongiungimento tra Caterina e Astor, che Susanna aveva scelto perversamente di ambientare su una terrazza del castello spazzata dalla neve, in una fastosa evocazione dell’amore vero che trionfava su tutto.
Certo, quella era la verità: quegli istanti che per Candy avevano rappresentato lo spezzarsi di ogni speranza e lo spegnersi di ogni luce, per Susanna avevano costituito l’inizio della sua vita con Terence. Mentre Terence le sfilava davanti senza guardarla negli occhi, oppresso da un peso che solo lei poteva comprendere e condividere, per Susanna iniziava una promessa di felicità futura.
Candy lo aveva capito, lo aveva accettato. Di più, lo aveva voluto, sperando di liberare Terence da una pena più grande di lui, e forse condannandolo invece a quel tormento che aveva visto nei suoi occhi a Rocktown e per il quale ancora oggi non riusciva a perdonarsi. Ma riviverlo in quel modo era stato più di quanto potesse reggere.
“Quanto dolore può sopportare un solo cuore?” si chiese ancora una volta.
Cosa aveva provato Terence leggendo quella storia scritta da Susanna? Quella versione totalmente stravolta dei suoi sentimenti e della sua vita, lui così riservato e geloso… Era quello il motivo per il quale non si era presentato alla prima della Principessa sbagliata, crudele rivisitazione di quella notte che aveva cambiato le loro vite per sempre? La donna che aveva scritto quelle scene poteva davvero avere reso felice Terence negli anni che erano seguiti alla loro separazione? Era almeno valsa la pena, tutta quella sofferenza che si erano inflitti?
Candy singhiozzò e le lacrime che aveva trattenuto per tutta la sera cominciarono a scorrerle finalmente sul viso, dando corpo a tutta la sua tristezza. L’unico motivo per cui aveva rinunciato al suo grande amore era stato per dargli un’occasione di felicità. Risentì sulla pelle il sale delle sue lacrime e il calore bruciante di quell’ultimo abbraccio disperato.
Possibile…? Possibile che tutto quel dolore fosse stato per nulla?

Candy non ha mai sentito tanto freddo in vita sua.
La neve turbina attorno a lei in girandole impazzite, alimentate dal vento che la schiaffeggia selvaggiamente e la costringe a chiudere gli occhi per proteggerli dalla sua forza flagellante. Sente il gelo penetrarle nelle ossa nello stesso modo in cui la consapevolezza di qualcosa di terribile sta penetrando nella sua anima.
- Lasciami andare, Candy! Lasciami andare! Se restassi viva sarei solo un macigno tra te e Terence, perché io non posso vivere senza di lui, capisci adesso?
Persino la terribile coscienza della gravissima menomazione di Susanna perde di consistenza di fronte a quelle parole. Susanna ama Terence al punto di non voler vivere senza di lui. Susanna stava per uccidersi per liberare Terence dal peso del suo amore!
Che amore egoista è il suo, si chiede Candy, di fronte a tale sacrificio. Come potrebbe Terence essere felice con lei, sapendo di aver inflitto una tale sofferenza? Non conta neanche più il fatto che Susanna gli abbia salvato la vita, ma soltanto che non veda possibilità di una vita per se stessa senza Terence…
E poi, in un attimo, niente di ciò che Candy ha conosciuto e saputo fino a quel momento ha più significato.
Perché quando Terence compare sulla soglia di quella terrazza, immobile tranne che per i capelli scomposti dal vento, e si ferma a fissare lei e Susanna ancora riverse nella neve, ogni cosa ha fine. I pezzi della sua vita, che può nitidamente vedere andare in frantumi esattamente in quel momento sotto i suoi occhi, si ricompongono di loro volontà in maniera totalmente diversa. Ed in quel nuovo quadro, sul quale si sono riversate tutte le possibili tonalità di grigio a coprirne ogni precedente macchia di colore, il futuro che lei aveva immaginato è scomparso.
In quel quadro Candy e Terence non ci sono più.
Non possono più esserci.
Terence la fissa per un istante che sembra eterno, e in quell’istante è come se ogni cosa piombi nel buio, tranne due coni nei quali si concentra tutta la luce del mondo, a illuminare solo due ragazzi di fronte al loro destino che è venuto ancora a stanarli, questa volta definitivamente, per scagliarli lontano l’uno dall’altra. Agli antipodi del luogo a cui sanno di appartenere: l’uno all’altra.
Si scambiano un lungo sguardo silenzioso, con il quale Terence grida a Candy che non sa come, ma dovrà andare avanti senza di lei. E col quale Candy gli risponde di lasciar fare a lei: si prenderà cura di lui. Proprio come Terry aveva fatto per lei quella notte, suonando la sua armonica dietro le spesse mura della sua umida cella… e come aveva rinunciato alla sua vita, lasciando la St. Paul School per restituirle quello che credeva essere il suo futuro. Adesso tocca a lei prendere il carico sulle sue spalle, e liberare Terence da quel fardello che lo sta schiacciando.
Due occhi di smeraldo si tuffano dentro due occhi di zaffiro, mescolandosi nel colore dell’eternità.
Ora entrambi sanno.
Non c’è bisogno di dire nulla.
Ridestandosi da quell’attimo infinito in cui il solenne e silenzioso giuramento è corso tra due anime gemelle, Terence chiude gli occhi. La luce della luna e dei lampioni torna a illuminare la totalità del palcoscenico su quella terrazza e tutti gli altri interpreti di quel dramma.
Terence solleva delicatamente da terra Susanna, che appoggia il capo al suo petto come se non concepisse altro posto al mondo in cui stare. Tenendola tra le braccia, sfila davanti a Candy immobile e muta sotto la neve. Non si guardano, non si dicono nulla. Tutto è stato già detto tra loro, viaggiando attraverso quello sguardo silente e definitivo.

E’ passato qualche minuto, necessario a Candy per raccogliere le forze e dire addio a Susanna, alla quale sta affidando ciò che di più prezioso abbia al mondo, con l’unica condizione che gli dia la felicità che lei non può più dargli.
Susanna accetta quel dono, grata a Candy per quella rinuncia che le concede la sua unica occasione di felicità.
Candy esce dalla stanza e davanti a lei, proprio in cima alle scale, l’ultimo baluardo da superare prima di uscire per sempre dalla sua vita, Terence la fissa. Ha negli occhi un bagliore color zaffiro che da quel giorno non ci sarà mai più.
E’ il momento più difficile, quello in cui entrambi devono essere all’altezza dell’amore che provano l’uno per l’altra.
Candy non riesce a guardarlo negli occhi: sa che se lo farà resterà bruciata dalla fiamma ardente di quello sguardo e perderà la forza che ha faticosamente raccolto negli ultimi minuti (anzi, in tutta la sua vita) proprio per quel momento.
- Addio, Terence! Prenditi cura di lei – volutamente non lo chiama “Terry”.
- Ti accompagno alla stazione…
- No, non occorre…
- Voglio accompagnarti! Ti prego, Candy!
Terence le poggia una mano sul braccio cercando di trattenerla, ma a questa seconda invocazione di aiuto, a questa preghiera, Candy non può rispondere. Stavolta non può far nulla. Sa che ogni momento in più che trascorre accanto a lui amplifica il dolore sordo che ha già cominciato a divorarla dall’interno. La sua unica speranza è di arrivare al treno prima di crollare.
- Ti prego, Terry, lasciami andare!
Con la sua ultima stilla di volontà, Candy si divincola dalla presa di Terence e lo supera, cominciando a correre giù per le scale.
Via! Via da quell’ospedale!
Lontano da quella terrazza sulla quale la sua vita e il suo amore si sono dissolti, dispersi dal vento, mescolati alla neve che da quel momento in poi sarà sempre sua nemica!
Via da quella città!
Via! Via da Terry, dai suoi occhi, dal suo amore che dopo averla riempita adesso la lascia svuotata e inerme!
Via!
E’ ormai a metà di quella rampa di scale infinita che la separa da qualsiasi cosa ci sia dopo il suo Terence. Non sente i suoi passi inseguirla freneticamente, non si accorge che lui le sta correndo dietro disperatamente finché le braccia di lui non la circondano, e le sue dita non si intrecciano a trattenerla per la vita sottile. Si sente stringere a lui, trascinata verso il suo petto in pari misura dalle mani di Terence e dalla propria volontà, e sente il battito del cuore di lui trapassarle la schiena, come se volesse raggiungere il suo, per diventare assieme una cosa sola. Il viso di Terence è affondato nei suoi setosi capelli biondi, le labbra poggiano delicatamente sul suo capo. Riconosce il tocco di quelle labbra morbide ed esigenti, solo loro sanno darle quel brivido che adesso vince persino il dolore infinito, per farla fremere esattamente come sulla seconda collina di Pony, alla festa di maggio... in un’altra vita.
Lacrime….
Terence sta piangendo.
Anche lei piange adesso, ma nessuno dei due può vedere le lacrime dell’altro. Candy sente quelle del ragazzo scivolarle dolcemente sul collo, lievi come gocce di rugiada, mentre le sue stillano sulle mani di lui. Con quel pianto suggellano la loro rinuncia. Eppure l’amore grida il loro bisogno reciproco ancora più forte, dentro di loro.
- Candy non voglio che tu te ne vada. Non posso lasciarti andare. Fermiamo il tempo… ora, in questo momento. Per sempre – sussurra Terence.
- Terry…
- Non dire nulla, ti prego. Resta solo qui… Fermiamo il tempo…
E il tempo si ferma davvero.
In quell’istante che si libra al di sopra dello scorrere di quelle due vite, il destino, vinto dalla forza del loro amore, concede loro ancora un solo, unico, ultimo momento in cui essere una cosa sola. Due anime fuse nell’unione dei loro corpi uniti da un abbraccio disperato. Entrambi sanno che di quell’istante dovranno vivere per tutto il resto della loro vita.
Lentamente, come se ogni movimento costasse un dolore infinito, Terence scioglie infine il suo abbraccio.
- Sii felice, Candy! Sii felice, perché altrimenti non potrò mai perdonarti… – gli sente sussurrare dietro di lei, con le mani sulle sue spalle, adesso.
Terence non riesce ancora a perdere il contatto con quel corpo tanto desiderato.
Finalmente Candy si volta, gli posa una mano su quella con cui lui ancora le stringe la spalla, e lo fissa negli occhi bagnati di quelle lacrime che sente ancora bruciare sul suo collo.
- Anche tu, Terry!
Riesce addirittura a sorridergli. Sa che lasciarlo con un sorriso lo aiuterà.
Chissà se si sono resi conto che nessuno dei due ha avuto la forza di accettare l’impegno chiesto dall’altro…
Si allontana e lo lascia inerme su quella rampa di scale. Candy ha esaurito ogni residuo di forza per fare il primo passo, adesso è solo inerzia, e non più volontà, a trascinarla via da lui.
Non si volta indietro neanche una volta.


Mille volte pessima la notte, per me,
se mi manca la tua luce.
L’amore corre incontro all’amore con gioia,
come fuggono dai loro libri gli scolaretti.
Ma dall’amore si allontana l’amore con gli occhi tristi
come tornano gli scolaretti a scuola. *




Candy sbatté le palpebre, come ridestandosi da un lungo sogno, anche se non avrebbe saputo dire cosa fosse più reale: se il ricordo di quella notte maledetta o le immagini della sua stanza bianca e verde che faticò a rimettere a fuoco, tra le lacrime copiose che le scorrevano lungo il viso da chissà quanto tempo e le annebbiavano la vista.
Rannicchiata sul bovindo, con le braccia attorno alle ginocchia e le morbide onde bionde che le cadevano ai due lati del capo a sfiorarle il petto, scorse in lontananza oltre il vetro della finestra un’anticipazione dell’aurora, luccicante delle lacrime attraverso cui la fissava. Realizzò di essere rimasta sveglia tutta la notte con la sola compagnia dei suoi ricordi più dolorosi. Quegli stessi inestimabili ricordi che la sera prima, sul palcoscenico del New Amsterdam Theatre, erano stati rivoltati come un abito usato ed esibiti a sguardi estranei, capovolti del loro prezioso significato.
Poggiò il capo sulle ginocchia, si sentiva esausta sia per la mancanza di sonno che per la forza dei ricordi.
Era quella, dunque, la Susanna alla quale aveva affidato la felicità di Terence?
Allungò una mano verso la scatola di legno di cedro finemente istoriata che, una volta aperta, rivelò un mucchio di lettere dalle grafie disparate.
Sopra di esse si trovava il carillon della felicità donatole da Stear, silente da quella sera che la felicità gliel’aveva strappata senza pietà.
Senza esitazioni prese una busta bianca e ne trasse fuori il contenuto, due pagine fittamente scritte con grafia infantile, il cui contenuto conosceva a memoria, ma che adesso assumeva nuovi significati:

New York,
12 maggio 1915

Cara Candice W. Andrew.
Spero che le cose vadano bene per te a Chicago.
Ma soprattutto spero che un giorno potrai perdonarmi per essere entrata nella tua vita e averti costretta a farti da parte.
Io so per chi batte il cuore di Terence, ma nonostante questo non posso rinunciare a lui.
Ricordi che ci eravamo già incontrate quella notte, a Chicago, dopo la nostra rappresentazione quando ti presentasti in Hotel?
Adesso posso confessarti che quella notte ti ho odiata. Ho odiato i tuoi occhi luminosi. Ma soprattutto ho odiato il fatto che Terence non facesse che pensare a te, e avrei fatto qualsiasi cosa perché ti dimenticasse.
Candice, se penso alla prospettiva di vivere senza Terence, capisco che perdere la gamba non è stata la cosa peggiore che potesse capitarmi.
Mi dispiace tanto.
So che il mio amore per Terence mi ha fatto compiere azioni terribili. Fin da quando ero bambina il mio sogno è sempre stato quello di fare l’attrice; eppure l’ho sacrificato per amore di Terence. Adesso desidero solo stargli vicina e non lasciarlo mai più; non c’è nulla al mondo che desideri di più. So quanto sia sbagliato, ma non posso fare nulla di diverso.
Quella notte, mentre piangevo e gli chiedevo perdono per averlo fatto soffrire, Terence mi ha detto: “Ti starò sempre vicino… sempre.” Guardava la neve oltre la finestra, mentre me lo diceva, a voce bassa ma chiara.
Sebbene sapessi che l’anima di Terence in quel momento desiderava solo correrti dietro, mi sono aggrappata a quelle parole.
Vuoi sapere come faccio a vivere ogni giorno cercando di meritare il suo sacrificio?
Vado avanti, sapendo che l’unica cosa che posso fare è chiedere il tuo perdono e continuare ad amare Terence con tutto il mio cuore, anche per te.
Terence è la mia vita.
Candice, non trovo le parole per dirti quanto io ti sia grata per avermi lasciato una speranza che mi faccia continuare a vivere.
Spero che anche tu possa essere felice.

Susanna Marlowe
**


Candy aveva ricevuto quella lettera da Susanna, alcuni mesi dopo la separazione da Terence, e poco dopo che si erano diffuse le voci della sua scomparsa dai palcoscenici di New York, a seguito della continua serie di insuccessi che erano seguiti alla prima di Romeo e Giulietta.
Allora, vedeva in Susanna uno sfortunato angelo biondo, che amava Terence più di quanto non avrebbe potuto fare lei stessa.
Pur non avendo mai ben compreso perché la ragazza avesse sentito il bisogno di contattarla, a distanza di mesi, per ribadirle come tutto ciò che aveva fatto lo avesse fatto per amore di Terence, Candy aveva provato quasi un sentimento di gratitudine al pensiero che tanta dedizione fosse rivolta al suo Terry perduto.
Adesso, a distanza di anni, e soprattutto dopo lo scorcio dell’animo e dei pensieri di Susanna cui aveva avuto per la prima volta accesso dopo la visione del suo spettacolo, le sembrava che quelle parole assumessero tutt’altro significato.
“Io so per chi batte il cuore di Terence, ma nonostante questo non posso rinunciare a lui...”
“… l’unica cosa che posso fare è chiedere il tuo perdono e continuare ad amare Terence con tutto il mio cuore, anche per te.”

Rileggendole alla tenue luce di quell’alba newyorkese, non riusciva più a vedere in quelle frasi le scuse di una debole, disperata, indifesa vittima del destino. Quelle erano le parole di una donna che rivendicava il suo diritto a qualcosa che non era suo, esattamente come aveva fatto con la trama della Principessa sbagliata, in cui aveva gridato al mondo il suo diritto ad essere amata da Terence.
Candy estrasse dal cofanetto un’altra busta. La risposta che aveva scritto allora a Susanna dopo aver vinto le lacrime di triste rimpianto suscitate dalla sua lettera, ma che non aveva mai trovato il coraggio di spedire:

Cara Susanna,
dovresti sapere che ti ho odiata quando mi hai mandata via da quell’hotel a Chicago.
Pensavo di amare Terence più di te, ma quando sono venuta a New York e ho scoperto che gli avevi salvato la vita, e seppi che volevi ucciderti per Terence e me, ho compreso che lo amavi dal profondo del tuo cuore e ho capito cosa dovevo fare. Ho ancora la lettera che mi hai mandato e che ho letto molte volte.
Quando Terence lasciò la compagnia, mi resi conto che eravate voi due ad avere molti problemi, non io. Io sto bene. Terence è ora nel mio passato e non guardo indietro. Sono molto felice di avervi incontrati. Un giorno ci rivedremo, forse quando saremo diventati vecchi, e rideremo molto. So che ti prenderai cura di lui. Resta sempre al suo fianco.
Qualche volta ti vedo sorridente sulle pagine delle riviste, nonostante la sedia a rotelle. Ora so di aver preso la giusta decisione.

Candy.***



Come avrebbe potuto spedirla, del resto?
Anni addietro aveva trovato il coraggio di scrivere quelle false e rassicuranti parole: “Terence è ora nel mio passato e non guardo indietro...” ma non di dar loro il crisma della verità, lasciando che qualcun altro le leggesse.
Terence non era e non sarebbe mai stato parte del suo passato, perché era parte di lei e quella notte, stretti su quelle scale, i loro cuori si erano davvero fusi a comporne uno solo, che batteva all’unisono. Sperava con tutta se stessa che lui avesse trovato la sua felicità da allora, ma per quanto la riguardava, doveva ammettere di essere stata totalmente inadempiente della sua parte della promessa che si erano scambiati su quelle scale.
E quella sera, dopo aver visto lo spettacolo scritto da Susanna Marlowe, doveva cominciare a fare i conti con la terribile probabilità che anche per Terence quel sacrificio potesse essere stato vano, e che invece che dargli un’occasione di felicità, quella notte lei lo aveva forse consegnato alla stessa pena che da allora opprimeva il suo cuore. Non riusciva a immaginare Terence felice accanto a una persona capace di violentare in quel modo la verità e di rimodellarla per farla corrispondere alla sua volontà. Il suo Romeo, l’emblema stesso della fierezza e dell’onore.
Con gesti rabbiosi, Candy prese la lettera di Susanna e la strappò furiosamente in decine e decine di minuscoli frammenti, come se con quell’atto potesse anche distruggere il passato e tutti gli errori e le sofferenze che aveva portato con sé. Aprì la finestra e li sparse nel vento, lasciando che la brezza del mattino li portasse via, lontano da lei, in una strana simulazione dei fiocchi di neve che si erano portati via i suoi sogni, in quella notte lontana.
Poi abbassò lo sguardo sulla busta bianca che aveva contenuto quella lettera, di cui non avrebbe mai più potuto dimenticare ogni singola frase, e la ripose dentro il cofanetto di legno, ad eterna testimonianza degli errori del suo passato.
Si sentiva sopraffatta dalla tristezza, ma nello stesso tempo sentiva chiaramente, dietro lo squarcio aperto dal sipario strappato, una scintilla di ribellione cominciare ad illuminare l’oscurità che aveva albergato in lei negli ultimi anni.
Ma adesso poteva davvero sperare che lui la perdonasse?

Il suo dardo mi ha fatto una ferita troppo grave
per potermi levare sulle sue penne leggere:
e così preso, non posso prendere il volo
e superare la mia sorda tristezza:
io sprofondo sotto un peso d’amore. ****




*Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II.

**Liberamente da me tradotto da: Kioko Mizuki, Final Story, volume II, pag. 278-280. Intestazione e data sono state da me liberamente aggiunte.

***Liberamente da me tradotto da: Kioko Mizuki, Novelle, volume III, pag 154-160.

****Romeo e Giulietta, Atto I, Scena IV.

FINE CAPITOLO QUARTO

 
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