Candy Candy

La mia fanfiction...come continua la storia secondo me...., FF completa

« Older   Newer »
  Share  
Odyssea
icon12  view post Posted on 26/6/2006, 12:25     +11   +1   -1




Qualche tempo fa ho iniziato la mia fanfiction su Candy e Terence, e su come ho immaginato che continui la storia...L'ho scritta a intervalli, e ancora non l'ho finita, ma ho deciso di postare ciò che ho buttato giù fino ad ora. Perdonatemi se troverete qualcosa di sciocco o di sbagliato, qualche licenza, qualche drammatismo di troppo...Non l'ho riletta nè corretta, ma spero la gradirete comunque...
Vi abbraccio forte image image image




“Sono morto….E a voi che, pallidi e tremanti, siete gli spettatori di questo fatto, a voi, se me ne restasse il tempo ( poiché la morte è un birro che non lascia la presa), vorrei dire…ma no…basta così, sono morto…tu vivi.. parla tu rettamente di me e della mia causa a chi vorrà saperne di più…”

Applausi. Il sipario si chiude scorrendo con un brusio come di piccoli grilli. L’acclamazione della platea è proporzionata alla sua vastità, così il battimani invade il teatro, sale fino al soffitto intarsiato, percuote i lampadari di delicato cristallo, si insinua fra le poltroncine di velluto blu mare, corre come un puledro fino al palco, avvolge gli attori in un abbraccio tremante. Dietro il tendone, gli attori sono tutti in movimento, saltano su anche se prima erano morti, si dispongono in fila, si guardano stringendosi le mani, sorridono con eccitazione e un po’ di stanchezza, poi attendono che il sipario si apra di nuovo, sulla folla ormai in piedi, i cui palmi si consumano nell’applauso instancabile.
Bravi, bravi, davvero bravi. Quanta passione in quell’Amleto! Quando ha abbassato le palpebre pareva davvero uno che muore. Bravi, bravi, davvero bravi.
Il sipario si apre e si richiude più volte, e ogni volta gli attori si inchinano, fruscio di capelli in avanti, di abiti di scena, di respiri sollevati, e poi tutti lo attorniano, si staccano da lui per creargli intorno una specie di cerchio, e lui resta nel mezzo, si passa una mano fra i capelli madidi, si china come un gentiluomo perfetto, e un’umida ciocca castana gli vela gli occhi rendendolo cieco per un istante. Poi rieccoli, quegli occhi che mare e cielo hanno creato facendo l’amore in una sera d’Aprile, eccoli ancora, guardano la folla senza guardarla, è come se fossero lì e insieme disertassero. Sembrano partecipi, ma un bravo attore sa fingere anche questa gratitudine.
Infine, quando l’applauso si smorza, dopo un interminabile tempo, lui si rabbuia come una stanza con le tende chiuse in fretta, dietro di esse il sole, dentro un cubo di tenebra. Non si ferma a stringere le mani dei suoi colleghi, a ricevere lusinghe e pacche e abbracci orgogliosi, sguscia via talmente rapido che un attimo prima è lì sul palco e un attimo dopo è sparito. Nessuno ne è offeso o turbato, perché lui fa così tutte le volte, e gli altri sanno che non è perché il gradino sul quale è salito è troppo in alto per loro, non è per alterigia, non è perché ha una torre d’avorio che lo aspetta di là, lontano dagli altri. Nei suoi silenzi, nelle sue fughe, c’è qualcosa di talmente prostrato che nessuno ha l’ardire di pensare male di lui, di giudicarlo vanaglorioso o superbo. Sentono, anche se non sanno bene, che si allontana talmente in fretta perché non vuole guastare la loro festa con il suo tormento. E’ sempre così, finché è Amleto ha una forza da drago, ma quando le assi del palco accolgono l’ultimo fiato del giovane principe ucciso, è come se la vitalità uscisse da lui davvero, filtra come fumo da una finestra socchiusa, si spegne, si chiude, stacca la spina, estingue la fiamma, e via.
Così, raggiunge il camerino, e quando è dentro il grande specchio lo guarda con gli occhi spalancati. Lo guarda e rabbrividisce.
Ha i capelli incollati al viso sudato, sembra uscito dall’acqua. Gli occhi brillano come lanterne a petrolio, sono arrossati e anch’essi umidi. E’ pallido, e sulla guancia ha una striscia di finto sangue. Se la asciuga con una manica, si porta via uno strato di cerone, poi si tiene la fronte fra le dita di una mano.
Quanto durerà ancora? Quanto?
Si siede pesantemente sulla poltroncina davanti allo specchio, davanti al tavolo ingombro di trucchi di scena, fogli sparsi di copione letti e riletti e sottolineati, qualche giornale, e mazzi di fiori lasciati lì, supini, con le teste oltre il bordo.
Ci ha provato, ci sta provando. Ma la forza distruttrice del tempo non ce la fa a vincere con lui. E’ passato un anno e niente appare almeno un po’ sfocato. Tutto è nitido come una maledetta fotografia conservata troppo bene per ingiallire. A volte vorrebbe essere più stupido, più codardo. Cedere, lasciare che qualcosa di più agguerrito del tempo lo aiuti a dare una passata d’ombra a quella dolorosa fotografia. Alcol, quello si che ci riesce. Quando ne mandava giù a sorsate, l’ombra divorava tutto, e perfino i suoni diventavano un po’ smorzati. Quando beveva, e tanto, il dolore si trasformava in un’eco lontana lontana, non abbastanza risoluta da non poterci convivere. Certo, si stava uccidendo...ma…non è che adesso brilli di vivacità.. Era più sincero allora, quando beveva. Il suo era un sincero precipitare. Adesso precipita lo stesso, ma fa finta di restare in piedi. Uno sguardo superficiale giurerebbe che sta da dio, cavolo, non è mai stato così in forma! Ma è solo un astuto bugiardo. Non beve più, ma vorrebbe, eccome se vorrebbe.
Ma devo vivere in modo da renderla orgogliosa, perché se tornasse…
Sa che non tornerà, però non riesce a perdere quella sventurata speranza. La speranza lo sta uccidendo più della rassegnazione.
In quel momento, qualcuno bussa alla porta. Ronald si affaccia, sorride.
“Eih, qui fuori c’è un’armata di gente che vuole vederti!” esclama “E c’è anche un giornalista, dice che ha un appuntamento per un’intervista”.
Terence fa una smorfia, a dirla tutta non tollera né le folle acclamanti né i giornalisti insistenti. Fa di tutto per evitare entrambi. Non dà autografi, non si mette in posa per leziose fotografie, non risponde alle domande degli inviati. Recita, e tanto basta. Ma qualche volta, anche a lui tocca concedersi un poco, qualche mano stretta vigorosamente, qualche risposta stupida data a qualche domanda stupida. Pubbliche relazioni, così le chiama Susanna. Un attore non può rinchiudersi in una torre d’avorio, soprattutto se è così giovane. Ed è per questo che ha accettato di farsi intervistare da quel giornalista. Poche domande, gli ha promesso, incentrate sullo spettacolo e sui suoi lavori futuri.
Susanna sarà contenta e la smetterà di ripetermi la stessa cosa tutti i giorni. E’ già abbastanza dura così. Ma sostenere il peso dei suoi ragionamenti a volte è talmente arduo da farmi preferire d’essere divorato da una masnada di reporter agguerriti. Quando si tratta di lei, e di ciò che posso fare per renderla felice, divento un vigliacco.
La verità era che, ogni volta che aveva provato a contraddirla, talvolta con una durezza spietata, lei era stata malissimo, così male che sembrava quasi sul punto di morire. I dottori avevano detto che la tranquillità era la cosa migliore per lei. Niente stress, niente contese. Così, sosteneva la battaglia finché poteva, resisteva ai suoi attacchi, ai suoi consigli soavi e soavemente insidiosi, ma cedeva spesso. Susanna era diventata per lui una specie di impresario, leggeva i copioni per prima, incontrava i registi, gli organizzatori. Il suo stato incuteva negli altri un certo rispetto, una cauta diplomazia, e le permetteva, alla fin fine, di strappare le condizioni migliori, le paghe più alte, i teatri più prestigiosi. Era brava a usare la sua infermità come arma segreta per impedire ai suoi interlocutori un contrattacco più ardito.
Faceva così anche con lui, ovviamente. E Terence lo sapeva benissimo, ma cedeva lo stesso. Preferiva soccombere dinanzi a quel tipo di attacchi, concederle la vittoria in una discussione sull’opportunità o meno di rilasciare un’intervista, piuttosto che farla vincere su qualche altra questione. Sperava che l’argomento matrimonio non venisse più sfiorato. Lei ci sapeva fare, aggirava i discorsi scottanti con dolce astuzia, non pronunciava mai direttamente parole imbarazzanti, non diceva “sposiamoci”, ma lo dava ad intendere in un modo preciso. Lui non aveva nessuna intenzione di fare tanto. Nessuna. Vivevano insieme in modo innocente, tranne che per quelle sottili allusioni. Tuttavia, ormai la conosceva abbastanza da capire quando progettava di combattere strenuamente per qualcosa. Diventava più languida, più fiacca, più pensosa. Si sentiva peggio, accusava nuovi dolori, nuova tristezza. Poi si chiudeva in un disperato mutismo, i dottori scuotevano il capo, lo stress poteva uccidere il suo organismo già così debilitato. Allora, lui, codardamente, cedeva, capitolava. Guardava il suo moncherino avvolto nel plaid, il suo volto pallido e scavato, le braccia scheletriche per la prolungata immobilità, la pelle non più fresca, divorata da cicli di medicine divoranti, e si sentiva di nuovo in debito. Allora, dopo aver lottato, gettava la spugna.
Lo aveva fatto per quell’intervista. Ma non si sarebbe dato per vinto ancora. No. Sapeva che Susanna sarebbe tornata ad attaccare, dopo aver fatto passare un lasso di tempo abbastanza lungo da dargli l’illusione che avesse rinunciato, ma non abbastanza da dimenticare del tutto. Avrebbe snocciolato tutti i discorsi più logici, più sensati.
Stavolta non vincerai. Il mio cognome e il tuo cognome dormiranno sempre in stanze separate. Fatti bastare questa mia meschina devozione.
Di nuovo la porta del camerino si apre. Il giornalista si affaccia, con un sorrisetto così ingenuo da suscitargli la speranza che l’intervista sarà breve e indolore.
Terence è stanco, non vede bene il lampo di malizia che per un istante accende lo sguardo stolido del reporter.
continua.......

Edited by Odyssea - 12/7/2007, 16:00
 
Top
Odyssea
view post Posted on 27/6/2006, 11:34     +1   +1   -1




Avete fatto bene a spostarla qui, anche io all'inizio lo stavo facendo, ma il fatto che la sezione si chiamasse Fanart mi ha indotto erroneamente a pensare di poterci inserire soltanto disegni....Ma in effetti, art può essere anche la scrittura...Sorry! :inchino:
Si, per me sarà liberatorio, le tue considerazioni da psicoterapeuta non sono affatto azzardate.....Spero, alla fine, di riuscire perfino a riguardare la puntata Separazione senza sentire le gambe che mi diventano di formaggino e il cuore che scoppia....In ogni caso, la mia fanfiction non è molto avventurosa, non aspettatevi un'altra storia di Candy con peripezie e viaggi e mirabolanti intrecci di destini, quella che ho scritto io ( anzi che sto ancora scrivendo perché non è finita) è una prosecuzione molto pacata, fatta soprattutto di introspezione, di pensieri, di piccoli passi...Spero di non deludervi...... image

Comunque eccone un altro pezzetto.

"L’uomo entra porgendogli la mano, e quando Terence la stringe sente sotto il palmo un che di attaccaticcio e di viscido, come se premesse una spugna intrisa di bava. Lo guarda con più attenzione, quella stretta è quasi un segnale d’allarme. Il giornalista è piccolo e magro, con occhi chiari quasi invisibili. E’ ossequioso, untuoso, fa tanti di quei complimenti allo spettacolo che Terence se ne sente sgradevolmente sommerso, e vorrebbe che tacesse, che gli ponesse quelle benedette domande e andasse via. Non gli piace la gente che sproloquia, anche se quelle chiacchiere contengono lusinghe e cerimonie. Anzi, soprattutto se contengono lusinghe e cerimonie. Dopotutto, ha sempre avuto un’avversione per gli adulatori, per tutti coloro che, nella sua vita che a momenti gli sembra brevissima e a momenti eterna, si sono spontaneamente tramutati in lombrichi per strisciare sotto il suo tacco. Per gli ipocriti abbagliati dal suo titolo e dai soldi di suo padre, disposti a passare sopra a qualsiasi mascalzonata pur di assicurarsi molto più di un obolo in denaro. E’ talmente disgustato dalla piaggeria di cui è stato oggetto in passato, che anche adesso che i complimenti sono legati solo al suo merito, continuano a contrariarlo e a sembrargli sleali. In fondo, le persone che più ama al mondo, sono proprio quelle che inizialmente lo hanno respinto. Sua madre, che ha inseguito per terra e per mare, e non soltanto in senso figurato. E lei. Lei che non gli ha mai dato l’ultima parola in nessuna discussione. Nemmeno alla fine, su quelle scale. Quando le ha chiesto di rimanere, lei ha voluto l’ultima parola comunque. Ed è stata “vado via”.
Un crampo allo stomaco, come gli succede sempre più spesso quando pensa a cose che sarebbe meglio dimenticare. Fa una smorfia, ma non troppo eloquente, per evitare che il giornalista, che sta continuando a fargli complimenti strabocchevoli, lo noti e ci ricami intorno.
Così, con uno sguardo perentorio lo invita a passare oltre, a superare la fase fasulla delle ruffianerie.
“ Sbrighiamoci con questa intervista” dice severo.
Il giornalista annuisce, e di nuovo un lampo di astuzia scintilla in quelle pupille incolori. L’intervista, comunque, inizia e procede. Domande convenzionali, niente che Terence non abbia già udito e a cui non abbia già risposto cercando di dissimulare il fastidio.
Quale sarà la sua prossima rappresentazione? Come si trova con la compagnia? Quanto c’è in lei del personaggio di Amleto? E’ stato difficile impersonarlo?
Terence se ne sta sprofondato nella poltroncina davanti allo specchio, mentre il giornalista scrive su un taccuino. A un tratto, però, l’ometto, proprio mentre sembra sul punto di accomiatarsi, esibisce un sorrisetto sornione, e si accomoda meglio.
“E’ più che ovvio che Ofelia si suicida per colpa di Amleto, ne conviene?” domanda nervosamente.
“Non credo che sia così semplice spiegare la sua morte” risponde Terence, secco.
“L’interpretazione dell’uomo comune, le assicuro, è come la mia. Polonio muore, ma è il comportamento di Amleto ad aver fatto scattare la scintilla della sua rovina. E credo che lo pensi anche lei, signor Grandchester. Lei ha paura che si ripeta la stesso destino di Ofelia, e poiché come Amleto non è riuscito ad evitarlo, spera almeno di farlo come Terence, non è vero?” sorride, sembra ancora gentile, ma quella maledetta scintilla negli occhi lattiginosi dimostra che è solo astuto.
“Di cosa sta parlando?” gli domanda Terence, con tono brusco, rauco, un tono che, se il giornalista fosse in buona fede, lo farebbe arretrare d’ansia. Invece, l’ometto resta lì, non indietreggia di un millimetro.
“Parlo della signorina Marlowe. Sua madre è morta, proprio come Polonio. E se anche lei la abbandonasse, non è escluso che, esattamente come Ofelia, la poveretta si getterebbe in un lago lasciandosi annegare. E' per evitare questo che le rimane accanto?”
Terence balza in piedi, teso come un arco. Ha gli occhi strizzati, ma fissa il giornalista in un modo violento, avvolgente, come se volesse fulminarlo con qualche scarica di fiamme.
“Vada via “ gli dice, con una voce che non sembra alterata, non sembra scossa, ma che fa più paura proprio per questa apparente imperturbabilità.
Ma il giornalista è tenace, motivato, e molto incosciente. Così, continua la sua sfilza di domande provocatorie.
“A meno che non mi dichiari in esclusiva che è innamorato di lei, della signorina Marlowe. Vuole annunciarlo ai nostri lettori? Si rende conto che la vostra convivenza suscita un pubblico scandalo? Perché non la sposa? Cosa nasconde?”
Terence fa un paio di passi avanti, sente il cervello sfrigolare, e la rabbia lievita in lui come schiuma. Da quanto non si sente così? Da quanto è riuscito a domare così tanto la collera da aver seppellito sotto strati e strati di se stesso il ragazzo rissoso di un tempo?
Fissa il giornalista con uno sguardo sempre più spietato, solo un pazzo non capirebbe il segnale. Ma Terence si trattiene, si frena, con un’ammirevole disciplina, trasforma la mano che vorrebbe stringersi a pugno chiuso sulla faccia porcina di quell’uomo, in un arto di marmo che resta indietro.
“L’intervista è finita” dice, indicando la porta con un esplicito gesto di congedo.
Ma il giornalista non si arrende ancora, è troppo pazzo o troppo furbo per farlo adesso che sente di stare per ottenere qualcosa, fosse anche un cazzotto del quale raccontare in un'edizione speciale.
“Forse non la sposa perché ha una relazione con un’altra? La signorina Marlowe lo sa? Ho indagato, signor Grandchester, non è stato difficile. Certi dati sono di dominio pubblico. La scuola che lei ha frequentato in Inghilterra, ad esempio. C’è voluto un po’ di tempo per avere informazioni più precise, ma alla fine ho scoperto perché ha abbandonato il collegio. Piuttosto squallida come cosa, una tresca clandestina con una ragazza in un istituto di suore! La stessa ragazza che, stando alle dichiarazioni di alcuni testimoni, ha provato a dissuaderla dal restare accanto alla signorina Marlowe dopo l’incidente! Ha ancora in corso questa relazione immorale? Dopotutto, non ci si poteva aspettare nulla di meglio da una giovane cresciuta praticamente per strada, senza la guida di una famiglia decorosa! Cosa ne direbbe se chiedessi anche a lei la sua versione dei fatti? I nostri lettori sono avidi di queste notizie e anche la signorina Marlowe ha diritto di sapere come mai non la sposa! E’ colpa di questa…come si chiama....Candy…. se…..”
Stavolta, il giornalista deve zittirsi per forza. Non può parlare con il naso rotto e il sangue che gli scivola dentro la bocca e gli impasta il respiro. Le nocche di Terence non ci sono andate piano sulla sua faccia. Impossibile trattenere l’impulso di reagire, impossibile non sentirsi ribollire il sangue nell'udire il nome di lei associato a così basse insinuazioni. Impossibile non far ritornare dal limbo il ragazzaccio bellicoso di un tempo.
Sente le orecchie che fischiano dolorosamente. Vorrebbe mandarlo via, calciarlo, spingerlo, picchiarlo ancora, mentre quello si asciuga il sangue con una manica e continua a sorridere. Ma vorrebbe anche trattenerlo, e obbligarlo con le stesse armi a dirgli cosa sa, cosa crede di sapere, chi gli ha fatto il nome di lei, chi ha inventato quella sordida interpretazione dei fatti. Infine, lo afferra dal colletto e lo scuote. E’ più alto di lui e più arrabbiato, non c’è modo che il giornalista possa difendersi. Né sembra volerlo, pare soddisfatto di questa reazione, ha premuto il tasto giusto. Gli sta facendo più male lui con le parole, che Terence con i pugni.
“Tu non sai niente di niente, brutto bastardo fallito!” esclama Terence “ Inventi per supplire alla tua totale mancanza di cervello! Sei un cretino venduto a un giornaletto da quattro soldi, che se la gode nel ricamare intorno alla vita degli altri! Sguazzi nel fango come un suino! Ma se ti permetti di scrivere una sola parola, di insinuare ancora cose così squallide, di fare nomi di persone che solo a pronunciarli dovresti pulirti la bocca prima, io…”
“A me interessa solo la verità!” ribatte il giornalista, e per un attimo gli torna quella vocetta suadente, finta gentile, finta servile “ Se lei mi racconta la verità io quella scriverò e non una parola di più. Lei è un personaggio famoso, signor Grandchester, e le persone note hanno dei doveri nei confronti del pubblico. Io non sono altro che un portavoce, chiedo ciò che la gente si chiede continuamente, faccio da tramite. Come mai non sposa la signorina Marlowe visto che vivete insieme? Si rende conto che un comportamento così disdicevole fornisce un indecoroso esempio alla collettività? Una persona famosa come lei deve fare da modello positivo, non fornire prove di decadimento dei costumi”
Terence lo spinge indietro, facendolo sbattere con le spalle sulla porta del camerino.
“Alla gente deve importare soltanto come recito!” grida “Se il mio è un Amleto convincente, se faccio un buon lavoro! La mia vita privata non riguarda nemmeno Dio, figurarsi un omuncolo come lei! Dica ai suoi lettori di dedicarsi alle proprie tresche casalinghe, che saranno senz’altro molto pittoresche, e senza bisogno che io dia loro qualche esempio. E si ricordi…se solo scrive qualcosa che…”
“Raccontare la verità è un mio diritto, e conoscerla un diritto dei lettori. Se nessuno me la racconta, io vado a tentoni e faccio illazioni. E sono costretto a fare domande in giro. Non può fermarmi, lo sa, la libertà di stampa non si ferma con un pugno, o con cento. E se anche mi ammazzasse, ci sarebbe comunque qualcun altro che prenderebbe il mio posto. Dunque si rassegni. Se lei non risponde alle mie domande, chiederò a qualcun altro”
“Ma cosa pensa di scoprire, eh? Cosa? Non ha niente di meglio da fare che inventare misteri che non esistono? La verità è questa, e cioè che non ho niente da raccontare, niente! E adesso, veda di sparire, giornalista da strapazzo”
L’ometto sorride, con quella faccia tramortita, e il naso un po’ storto, circondato da un alone bruno e colloso di sangue. Non ha perso il suo sguardo ferino. Ha la sua bella notizia.
Fa un inchino caricaturale, accompagnato da un ghignetto.
“La troverò, si rassegni signor Grandchester, e chiederò a lei la sua versione dei fatti. Il pubblico sarà contento di sapere, certe notizie sono ghiotte”
Troverà chi?” Terence sgrana gli occhi, sta di nuovo per assalirlo.
“La sua misteriosa Candy. Ho già molti validi indizi al riguardo. Mi colpisca di nuovo, se vuole, ne verrà fuori una bella foto da pubblicare”
Terence rimane paralizzato, adesso, senza fiato. Deve ricollegare i pensieri, per un istante gli si sono inceppati. Quell’istante, però, basta affinché il giornalista sgusci fuori dal camerino, rapido come una maledetta faina, con la sua orgogliosa maschera di sangue.
Scappa via, trotterellando gioiosamente, incurante delle percosse ricevute, anzi appagato di avere quella bella faccia contusa. La sua carriera decollerà certamente, quando scriverà l’articolo. E divamperà quando riuscirà a ricostruire tutta la storia. La gente è curiosa, scrive tonnellate di lettere alla redazione, vuole sapere ogni cosa del giovane Grandchester.
E’ stata una bella fortuna, fra tutte quelle missive piene di domande, trovarne una piena di risposte. Anonima ma ben scritta. Calligrafia femminile, indubbiamente. Benché la carta fosse di scarsa qualità, la scrittura era da persona colta. E anche il profumo, di classe. Una bella lista di fatti abbastanza circostanziati. Gli resta ben poco da scoprire, e poi ne verrà fuori uno scoop che farà entrare fior di denari nelle sue tasche. Lo scandalo è un buon fomentatore di fiamme e non smette mai di vendere. La gente ama le cose infangate, e lui è bravo a insudiciare.
Scoprirò anche chi mi ha scritto, ma a tempo debito. Intanto, vediamo di rintracciare questa fantomatica Candy. "

CONTINUA.....

Edited by Odyssea - 12/7/2007, 16:08
 
Top
Odyssea
view post Posted on 28/6/2006, 23:23     +1   -1




Ecco un altro pezzetto della mia fanfic.. Spero vi piaccia..in ogni caso esprime davvero ciò che sento e ciò che vede il mio cuore..Magari non è una storia avventurosa e dinamica come molte fanfic che ho letto, a tratti sembrerà perfino pesante, ma qualsiasi altra cosa sarebbe stata una ripetizione per me, ha già raccontato tutto la Mizuki..Io posso solo cercare di inserire un pizzico di introspezione, a costo di sembrare barbosa...Scusatemi se così fosse per qualcuno ma non so scrivere in modo diverso, non conosco la capacità di sintesi, ormai lo sapete, qualsiasi cosa diventa nelle mie mani una tomella ( parola che ho preso in prestito da Stellina)...Dunque abbiate pazienza...Vi voglio bene.... :inchino:


"Il lago Michigan splende sotto il sole come se fosse d’argento. Le colline si susseguono ondulate, punteggiate da alberi. Sopra ogni cosa, si spalanca un cielo rosato, sorvolato da stormi di volatili affaccendati. Sotto quel cielo, però, così idilliaco da esigere intorno un silenzio altrettanto sentimentale, imperversa un frastuono metallico. Percosse e stridii la fanno da padroni, insieme a un vociare confuso di bambini. Tanti bambini, vestiti con abiti così colorati che, a vederli da sopra, dal punto di vista del cielo, paiono farfalle. Ecco, c’è un edificio, ha un campanile dorato, cotto dal sole, che proietta sull’erba l’ombra di una croce e di una panciuta campana. Una chiesa, dunque, ma anche una casa, sembra sbucata dal prato come un enorme fungo. Lì vicino, a una ventina di metri, verso la collina che scende dolcemente, si erge un’altra costruzione, ancora a metà, ancora grezza, non troppo grande ma più grande della chiesetta. Gruppi di operai ci lavorano, tirano su le pareti, assestano colpi di martello, segano assi, e fondono metalli. Lavorano senza invadenza, rapidi e allegri, e non fanno troppo male alla terra che, intorno, si estende per miglia senza nessun'altra costruzione fino a che arriva lo sguardo.
I bambini curiosano mente giocano un po’ più distanti. Hanno a loro disposizione un piccolo parco giochi, altalene, giostrine, corde per saltare, cavallucci di legno e palle colorate. Un grosso sanbernardo fa da cavalcatura a due bambine minute.
Non sono soli, a parte gli operai, alcune persone adulte si occupano di loro con affettuosa attenzione. C’è una signora più anziana, pingue, vestita di grigio, con una crocchia di capelli sul capo tenuti su da fermagli invisibili, che osserva i bambini con due occhi chiari dai quali trabocca un amore discreto e saggio. E’ un po’ affaticata dal caldo, ma sorride. C’è una donna più giovane, è una suorina, magra magra, vivace, senza quell’abito la si scambierebbe per una signorina in vacanza. Poi, ci sono molti altri ragazzini più grandi, che aiutano a tenere d’occhio i piccoli.
Più in là, verso la collina che sale, c’è qualcun altro. Bambini, ancora, bambini-farfalle che svolazzano, bambini-grilli che saltano, bambini-topolini che strisciano sull’erba, bambini-formiche che cercano di arrampicarsi sull’unico albero, gigantesco, proprio sulla cima dell’altura. Insieme a loro altri due adulti, per quanto, a ben guardare, quella ragazza lì potrebbe sembrare una bambina anche lei. Non è soltanto il suo aspetto, è il suo modo di fare. E’ piccola e snella, e sembra che la luce sia catturata dai suoi capelli come da una lente, poiché tutto l’oro del sole e del grano, tutto l’oro dell’oro, le circonda il viso in una cascata di riccioli sciolti. Indossa una salopette di cotone blu, ha i piedi scalzi, e sta per arrampicarsi sull’albero. Non deve aver frequentato una buona scuola per signorine a modo, poiché quello stile di arrampicata sa tanto di graziosa scimmietta e ben poco di damigella ingessata. Sorride, c’è qualcosa di dolce nei suoi occhi color giada, e insieme qualcosa di vivace, di ribelle. I bambini vorrebbero imitarla, lei storce il naso, scuote la testa, guarda in giù, verso le altre due donne, come se volesse far qualcosa di nascosto da loro, ma poi ci ripensa, e allenta la presa dal tronco dell’albero.
“Bambini, lo sapete che non dovete fare come me…Io sono una cocciutissima sciocca! Miss Pony e Suor Maria hanno ragione, dovete fare i bravi.” ride e fa una linguaccia mentre i bambini le saltellano intorno.
Dietro di loro, a pochissimi metri, con un bambino a cavalcioni sulle spalle, c’è un uomo. E’ alto e vigoroso, con lunghi capelli color miele. Indossa una giacca sportiva e pantaloni che sembrano anch’essi vissuti. Gioca col bambino, lo fa girare intorno come una trottola, e il piccolo ride ride ride ride, e la sua voce argentina si perde nell’aria leggera. Da un ramo dell’albero occhieggiano quattro pupille attente, semi nascoste dalle fronde. Sono gli occhi di due animaletti in arrampicata, una macchia nera e una bianca, pelose e rapide, in mezzo al verde del fogliame.
A un tratto, dalla casa, giù, davanti al lago che luccica, l’unica campana comincia a rintoccare.
“E’ ora di merenda!” grida la ragazza bionda “Bambini…andiamooooo! Pane e marmellata per tuttiiii!”
I piccoli non se lo fanno ripetere due volte, perfino il bambino sulle spalle dell’uomo si agita per essere messo giù in fretta. Uno sciame di pargoli affamati si precipita lungo il pendio, gridando in coro, con l’acquolina in bocca.
Mentre i bambini corrono, i due adulti restano un attimo indietro, ancora sulla cima della collina, sotto l’ombra dell’unico albero. Lei sorride guardandoli, lui le si avvicina e sorride guardando lei.
“ Vorresti correre come loro giù per il pendio gridando a squarciagola e reclamando la tua fetta di pane con la marmellata, dì la verità” dice l’uomo.
“Vorrei avere la loro stessa ingenuità” replica la ragazza, e mentre parla un rapido velo le offusca gli occhi. Ma è un attimo, subito dopo il velo vola via. Si volta verso l’uomo, e lo prende a braccetto con un gesto cameratesco “Quello che stai facendo per loro è meraviglioso, te lo avevo già detto?” gli domanda dolcemente.
“Almeno un milione di volte” lui sorride e vorrebbe sfiorarle una mano, la stessa che stringe il suo braccio con una totale assenza di malizia, ma si trattiene come un gentiluomo “Loro danno a me molto più di quanto non faccia io. Da quando ho ricominciato a occuparmi degli affari di famiglia, questi sono gli unici momenti in cui torno me stesso, il vero me stesso intendo. La costruzione di un piccolo ospedale è niente rispetto a quanto ringiovanisco e guarisco quando torno fra voi”
“Miss Pony e Suor Maria non ti saranno mai abbastanza grate. Hai già fatto costruire una nuova piccola ala alla casa! Inoltre, per quanto la mia presenza qui le abbia aiutate, quando c’era bisogno del medico era arduo dover scendere al villaggio, soprattutto in inverno” tace, sospira, come se elaborasse una riflessione importante. Poi aggiunge “Albert, il bene che mi hai fatto tu nella vita, è qualcosa che non posso misurare….Io...senza di te sarei morta molto più di una volta e non soltanto in senso figurato. E’ vero, appena torni sei stanco e per un istante sembri più uno zio William che un Albert…ma basta un altro istante e il signor Andrew sparisce…e nei tuoi occhi torna la luce…Mi dispiace moltissimo che le tue responsabilità ti pesino tanto…”
“E’ dura indossare un abito di marmo quando ne vorresti uno di canapa “ sussurra lui “ Ma me la cavo. E’ il mio dovere, sono il capo della famiglia. Sottrarmi ancora sarebbe stato molto puerile, soprattutto considerato che non c’è nessuno che può sostituirmi validamente. Col ruolo che ho posso fare del bene, per esempio facendo costruire questo ospedale. Come vagabondo mi sarebbe stato più difficile”
Qualche istante di silenzio, poi Candy dice:
“Ho ricevuto molta posta da Annie, sai? E’ preoccupata perché il matrimonio sta avendo tanti assurdi contrattempi. Le ho suggerito di abbandonare l’idea delle nozze fastose…non vorrei che dimenticasse la cosa che conta di più, e cioè lei e Archie, e non un codazzo di damigelle o uno stormo di cigni sul laghetto. Ma pare che la signora Brighton ne abbia già ordinati mezza dozzina da non so dove…” ride, scuotendo le spalle, ride con delicatezza, senza sarcasmo, la sua vivacità è pura come la neve fresca, non ha nulla di beffardo.
“Iniziare un percorso insieme è ciò che conta….” dice lui “Francamente non sopporterei una cerimonia impettita.. Ma Archie gradirà, per lo meno per la parte che prevede di indossare un abito di ottima sartoria e scarpe di vernice crocchiante. E’ anche probabile che gli piacciano i cigni….” ride anche lui, mentre Candy si allontana un poco, si sgranchisce come una bambina appena sveglia, e poi fa una linguaccia birichina.
“Ora che i bambini si sono allontanati, che ne dici di raggiungere Klin e Puppy?” domanda abbassando la voce, un po’ circospetta.
Così, agilmente, sale sull’albero. Lui la segue, scattante, e in pochi minuti sono su uno dei rami più alti. Il fresco, nel cuore dell’albero, è intenso, frizzante, profuma di legno e erba e dell’odore buono dei capelli di Candy. Puppy e Klin stanno più in cima, sembra quasi che ridano, sfidandoli a osare tanto.
Da lì, il lago è immenso e brilla. C’è silenzio, quiete, perfino il rumore degli alacri operai giunge smorzato. Due rami robusti, vicini, li sorreggono. Candy poggia la schiena al tronco, e batte le palpebre come se fosse accecata da qualche riverbero, nonostante la netta ombra.
“Non ti senti sola?” le domanda lui, a un tratto, e la domanda gli vien fuori così, diretta, spontanea, scivola quasi come se non avesse fatto in tempo a controllarla.
“Sola? No…come si fa a sentirsi soli con tutti i bambini a cui provvedere? E poi, le tue lettere mi fanno molta compagnia. Sono davvero preziose”.
“Ti scrivo ogni volta che posso, il che dovrebbe farti pensare che me ne sto con le mani in mano tutto il tempo, visto che ti scrivo dozzine di missive alquanto prolisse, ma la verità è che preferisco dormire di meno e comunicare con te…”.
“Il postino ti detesta, credo” dice Candy sorridendo ”E’ costretto a salire fin quassù tre volte a settimana, e si lamenta per le sue povere ossa. Io gli ho detto che un po’ di moto gli fa bene”.
“Tu..invece..ultimamente mi hai scritto di meno “ osserva Albert, con un tono che vorrebbe risultare casuale, distratto, ma che invece nasconde un certo arrovellamento.
“Oh..lo so..scusami….”
Albert tace, Candy tace. Di nuovo il silenzio, che stavolta, però, non è più rilassato e tranquillo come quello di prima. Il respiro di Albert, un po’ affannoso, prelude a qualcosa di strano. Poi, dopo alcuni minuti, mentre Puppy e Klin giocano a rincorrersi emettendo striduli versetti dai musi pelosi, e Candy sta per proporre di tornare alla casa di Pony, ecco che quel respiro diventa lettere, vocali, consonanti, parole, emozioni. Ecco che Albert parla, e anche adesso è come se la voce avesse la meglio sulla sua volontà, come se lo forzasse, come se spingesse per venir fuori a dispetto delle intenzioni più sagge.
“Mi vuoi sposare?” le chiede serio, in un sussurro.

CONTINUA........

Edited by Odyssea - 12/7/2007, 16:16
 
Top
Odyssea
view post Posted on 30/6/2006, 14:50     +1   -1




Non scoraggiarti Stellina! :baci baci:

"In quell’angolo di mondo racchiuso tra le foglie, fresco e al riparo dal sole, cade un silenzio pesante come piombo. Né il venticello, né i rumori circostanti riescono a frantumare quella totale interruzione. Albert trattiene il respiro, anche se non si accorge di farlo. Candy non trattiene nulla, perché in quel momento il suo respiro sembra essersi preso una pausa di riflessione. Per un istante, uno solo, gli occhi di lei si sgranano in un’espressione sbigottita. E’ un movimento impercettibile, protetto dalla penombra, un palpito di palpebre nervose, un socchiudersi di labbra, ma, soprattutto, un tuffo al cuore. Durante quello stesso confuso istante, Albert maledice se stesso per la propria precipitazione. Ma non può maledire l’amore che prova per lei, non può nasconderlo, ci ha provato per anni, camuffandolo da amicizia, da umana solidarietà, da tenerezza fraterna…ma non c’è modo di trasformare in acqua il fuoco. Tuttavia, si pente di averle posto la domanda in modo così concitato, così improvviso. Avrebbe forse dovuto attendere un momento migliore, attendere che dagli occhi verdi di lei scomparisse, almeno un poco, il solito tormento, quello che l’accompagna da allora….Ma anche lui è umano e umanamente soggetto alle tentazioni. E sa bene che non avrebbe potuto aspettare, non perché non fosse disposto a concederle, e a concedere a se stesso, ancora spazio e ancora tempo, ma perché sinceramente dubita che tutto lo spazio e il tempo del mondo possano mondarle gli occhi da quella nube eterna. Però, capire che Candy è turbata per colpa sua, gli fa male, immensamente. Come al solito, la sofferenza di lei gli entra dentro, gli sconvolge l’anima, riesce a sentirla come nessun altro sulla terra. Vorrebbe tornare indietro e non parlare. Vorrebbe continuare come ha sempre fatto, amarla nel segreto del suo petto, amarla con un disordine infernale di sensazioni, ma mostrare al mondo un perfetto controllo da gentiluomo. Non sopporta quel silenzio, non è mai accaduto che fosse così pesante. Di solito, fra loro, c’è una totale complicità, una familiare naturalezza di modi, una confidenza incomparabile, e anche il silenzio è leggero come un grano di sabbia…Mentre adesso è tutto così strano, così forzato.. Si detesta, e sta per parlare, anche se non sa bene cosa dirà, quando Candy lo precede.
“Certo” risponde, e la sua bocca si stende in un sorriso pieno di dolcezza.
Entrambi tornano a respirare. Stavolta è il turno di Albert per sgranare gli occhi. E’ sconvolto, se potesse disegnare ciò che gli si agita dentro ne verrebbe fuori un intricato intreccio di forme, un miscuglio di colori. Rosso per il fuoco, bianco per le lacrime, verde per la speranza, giallo per la gioia, blu per la libertà. Non sa cosa dire, e soltanto adesso si rende conto di averle fatto la proposta con l’implicita dolorosa paura di essere respinto. Si è proposto, si è offerto, le ha concesso la propria anima nuda, solo perché quel sentimento è diventato troppo straripante per tenerlo dentro. Ma non credeva che lei accettasse così, senza alcuna remora…. Una vittoria ottenuta a sorpresa è ancora più emozionante... E’ talmente felice che sente il cuore dentro gli occhi, sotto i polpastrelli, è la prima volta nella sua vita che si sente così vivo! E’ tenero e un po’ imbarazzato, adesso, paralizzato anche, continua a fissarla come se lei fosse un sole abbagliante, e non dice nulla.
Candy sorride, poi esclama:
“Mmh…caro Albert, sei così incredulo che sembri quasi sul punto di rimangiarti la proposta…”
Lui balbetta qualcosa, le prende una mano, delicatamente, la accosta alla propria ma senza stringere, come se dovesse far posto nel palmo a una farfalla viva da portare verso la libertà. Parla in modo animato, nervoso, non sembra il solito Albert.
“Candy..io…credimi, la felicità ha annullato tutto il mio vocabolario! Non ci capisco più nulla.. Dove siamo? Cioè, lo so dove siamo ma….”
Lei gli adagia un dito sulla bocca, in un segnale di silenzio. Gli sorride ancora, piega la testa da un lato, e i riccioli le crollano sul viso arrossato. Lui annuisce, e per un pò restano così, arrampicati su due rami diversi, a guardare lo spazio intorno, la casa di Pony, il lago, il cielo infiammato dall’imminente tramonto. Gli operai hanno finito di lavorare, l’aria sta diventando più fresca. Puppy e Klin li raggiungono, si accoccolano con loro, la puzzola accanto a Candy, l’orsetto sul ramo di Albert. Gruppetto di famiglia umana e cucciola che sbircia il mondo senza parole.
Più tardi, ad un tratto, Mina raggiunge il grosso albero, e comincia ad abbaiare dal basso, con le zampe sollevate sul tronco. Scodinzola freneticamente, vorrebbe arrampicarsi ma la natura non glielo concede.
Allora, Candy e Albert scendono giù. E’ quasi sera, Miss Pony e Suor Maria avranno bisogno di aiuto per la cena. Si calano lesti, e ben presto raggiungono la casa. Non si dicono nulla, si tengono per mano per un breve tratto, un contatto leggero, pudico, come di bambini. Poi, pochi metri prima, si fermano, e Candy sussurra:
“Ti prego, per stasera non diciamo nulla a Miss Pony e Suor Maria..Vorrei vivere questa emozione da sola per un pò. Ti dispiace?”
Albert scuote la testa, sorride in modo arrendevole, ha gli occhi umidi, ancora deve credere alla felicità che lo invade. Anche lui preferisce tenere il segreto, quella sera non riuscirebbe davvero a reggere all’entusiasmo affettuoso degli altri, o magari…una piccola parte di sé ha paura della loro possibile mancanza di entusiasmo…
Così, entrano in casa, e la sera scorre. Quando Albert è lì, aiuta gli altri come un loro pari. Diventa maestro e papà, fratello e cavalluccio. Aiuta a preparare la cena, dà da mangiare ai piccoli, e non perde occasione ( ma questo l’ha sempre fatto) per scrutare Candy in segreto…
Quando si salutano per la notte, Albert la abbraccia. Candy sembra un usignolo, piccola e tremante, sul suo petto. Dura un istante, poi lei si stacca, con virtuosa delicatezza, e si chiude nella propria stanza. Ha gli occhi lucidi, Albert li ha visti bene. Sorriso morbido e innocente, prima di dirgli ciao con la mano. La sua purezza gli sconvolge la vita, gliel’ha sempre sconvolta.
Rimasta sola, Candy raggiunge il suo letto, e vi si siede. Ha uno sguardo strano, lucido si, ma anche un po’ perso. Come se si fosse incantata a fissare un punto. In verità non guarda niente al di fuori, è troppo concentrata a leggersi dentro. Davanti a lei, la finestra spalancata fa entrare la luce delle stelle. Se ne sta lì, seduta, e di nuovo, come sull’albero per qualche istante, sembra che non respiri. Pensa ad Albert, a ciò che è successo, alla felicità che gli ha dato. Pensa a quanto quel giovane uomo l’abbia salvata, sempre, dal precipizio. L’ha salvata quando stava annegando davvero, rapita dalle acque ruggenti della cascata. L’ha salvata dopo la morte di Anthony, dopo la morte di Stear. L’ha salvata quando…..
Deglutisce, si porta una mano sulla bocca. Il viso le si contrae in una smorfia, quella mano stringe stringe stringe le labbra, le guance, le dita si stendono fino agli occhi, a coprirglieli. Non vuole piangere, non vuole, non vuole, non vuole. Sarebbe un peccato mortale, un tradimento. Vuol bene ad Albert, desidera accanto a sé proprio la serenità che lui è capace di trasmetterle. Rimanda indietro le lacrime, le costringe, le comanda, indietro, ancora più indietro, arrendetevi. Vuole essere felice, vuole essere la persona più felice sulla terra.
Forse non sono ancora salva del tutto. Tentare di dimenticare non è come dimenticare. Sentirsi meglio non è come essere guariti. Voler bene non è come amare.
Si sente odiosa, in quel momento, si sente crudele come un bambino viziato che infierisce su una farfalla con uno spillone. Si ripete un milione di volte il nome di Albert, rivede mentalmente il suo sguardo gentile, e si sente grata…e allo stesso tempo si sente odiosa, perché la sua mente disobbedisce e va altrove…Non riesce a ingabbiarla, non riesce…
Si lascia scivolare a terra, restando seduta. Poggia la schiena al bordo del letto e si piega sotto. Tira fuori una piccola scatola. Le tremano le mani, ormai si sente come se il peccato la inghiottisse. Si sente colpevole e condannata all’inferno, ma non può farne a meno. Non è quella scatola, non contiene i ricordi di Anthony e del principe della collina, quando ancora non sapeva che si trattava di Albert. Questa scatola è semplice, di cartone, consumata e niente affatto elegante. La apre, ed ecco…tutte le lettere, a decine, appaiono, legate da una cordina. Quelle ricevute, e quella che ha scritto ma non ha mai spedito. Una manciata di caramelle, perfino, sparse, sono quelle dello zoo, quando ha provato a inghiottirle facendole saltare e le sono rimbalzate sul naso. Un fazzoletto bianco. Un libro. E poi i giornali. Arrivano sempre in ritardo lassù le copie di quella rivista, ma arrivano. E lei continua a comprarle. A leggerle. A rileggerle, fino a consumare i fogli.
No, non sono guarita ancora, ma guarirò. Ce la farò…devo farcela…Sono sicura che grazie ad Albert…sono sicura che tutto andrà sempre meglio....
Mentre pensa piange. Si è appena promessa all’uomo migliore della terra, e piange ricordando un altro. E’ reduce da un tenero abbraccio da parte del suo futuro sposo, e rivive quel bacio improvviso, ardente, che il decoro l’ha spinta a respingere, ma che l’ha fatta sentire così bene, poi, così nuova, così diversa, come se fosse nata un’altra volta…..Tutti i ricordi tornano, in una marea. Deve stare attenta, quando accade rischia di annegare…è dura tornare su, nuotare controcorrente…La nave, la sua risata schietta e insieme disperata, la risata di un uomo che ride per non morire…I suoi segreti, la sua generosità, che nessuno, forse, ha mai capito….Il suo essere fragile, piccolo, bambino, un bambino così solo da restare senza fiato al pensiero che possa esistere tanta solitudine tutta insieme…La sua arte, la sua passione, la sua speranza.. E poi, la fine…Sente ancora il rumore del proprio cuore che si spezza. Allora, su quelle scale, è caduto come un cristallo, ha sparso intorno un fiume di sangue invisibile. Allora, su quelle scale, ha pensato di essere viva solo per finta e solo per caso. Ha pensato che quando si fosse staccata dal suo abbraccio, quando fosse andata via, la consapevolezza di avere la coscienza pulita non le avrebbe comunque impedito di sentirsi distrutta.
E poi è arrivato Albert. L’ha aiutata a percorrere la salita. Quando cadeva l’ha raccolta. Quando moriva l’ha resuscitata.
Albert sarà mio marito, è l’unico che voglio accanto.
Non è così, e lo sa. Voler bene non significa amare, ma il bene le basta. Il bene la fa sentire serena, non tormentata. L’unico tormento le deriva dal senso di colpa perché, adesso, se ne sta lì a guardare le sue lettere, le sue fotografie sui giornali, e non pensa al futuro ma al passato.
Ma passerà…passerà…Sto meglio, no? Adesso respiro, e prima non credevo di poterlo fare. Dimenticherò Terence, lo farò, lo farò per l’affetto immenso che mi lega a colui che diventerà il mio compagno per la vita. Verrà un giorno in cui leggendo il suo nome su una rivista, mi sentirò dentro leggera per la libertà. Verrà, ne sono sicura….
Intanto, però, piange. Intanto singhiozza in silenzio, con piccoli sussulti delle spalle. E’ come se fosse un commiato. Come se lui stesse morendo, com’è successo ad Anthony e a Stear, senza però una tomba sulla quale portare le rose e le margherite.
Brucerò tutto, queste lettere, questi giornali, tutto. Addio Terence, da questo esatto momento comincia la mia vita senza di te."

CONTINUA...

Edited by Odyssea - 12/7/2007, 16:22
 
Top
Odyssea
view post Posted on 2/7/2006, 16:31     +1   +1   -1




Grazie cara Esther! image Ecco un altro bocconcino di storia..... :esther:

Qualche settimana prima.....
Il Marchese di Angkatell è un giovanotto basso e tarchiato, con le guance rosee turgide come quelle di un neonato. Ha i capelli biondissimi, di quel biondo troppo biondo che sembra bianco e, sotto una certa luce, diventa quasi sfocato, così la sua bella testa sferica come un mappamondo, quando la colpisce il sole appare imberbe. Il sole non è decisamente suo amico, considerato che basta un istante, una manciata di minuti sotto i suoi raggi implacabili, per trasformare quelle tonde guance in un covo di lentiggini scarlatte, per fargli lacrimare gli occhi celestini, per farlo dondolare come se stesse per stramazzare da un momento all’altro sulle lisce pietre del viale.
E’ più basso di Iriza, le arriva a stento a una spalla, e se non è obeso gli manca poco. Non ha una conversazione interessante, non c’è niente di arguto o di elegante nel suo modo di fare. E’ allergico a qualcosa che vola nell’aria, forse all’aria stessa, e starnutisce indecorosamente in un fazzoletto di seta stropicciata. E’ vestito in modo disordinato, i bottoni del suo gilet non sono lucidi e nemmeno le sue scarpe.
Iriza lo detesta senza alcuna cordialità. Detesta la sua faccia arrossata, detesta quel fazzoletto scosso nell’aria senza alcun rispetto per la buona creanza, quel modo di camminare dondolante da ubriaco, detesta la sua voce, trattenuta quando si tratta di esprimere qualche concetto brillante, e adoperata come un’arma sonora quando è il caso di parlare a vanvera. Il Marchese di Angkatell, a dispetto del suo antico titolo, non sa proprio cosa sia l’educazione. Starnutisce, blatera, ed è la trecentesima volta che ripete di essere insofferente al sole.
Fosse un bell’uomo, gli perdonerebbe quella totale mancanza di raffinatezza. Ma giacché è affascinante come un suino, Iriza non può fare a meno di sentirsene disgustata.
E tuttavia lo sposerà. Perché fra tutti i difetti di cui è abbondantemente provvisto, l’unica virtù che possiede compensa in modo egregio le sue lacune. E’ più ricco di Creso. Ed ha un titolo. I nobili vengono guardati con distacco dall’alta società americana solo se sono spiantati, ma quando uniscono alle qualifiche un patrimonio di tutto rispetto, allora quella specie di indifferenza tutta americana nei confronti dei titolati ( spesso unita a un senso di disprezzo) si trasforma in indulgenza mista a invidia. E Iriza vuole proprio questo, essere chiamata Marchesa, e suscitare la rabbia di più persone possibili.
Per questo, è disposta a passare sopra al fatto che quello zotico agisca come un proletario e non abbia nemmeno il fisico da nobile. E’ disposta a ignorare la sua noiosa loquela, il suo abbigliamento sciatto, e basta il pensiero degli abiti francesi che possiederà, delle ville e delle carrozze, dei gioielli e della servitù, e di molte di quelle moderne automobili che fanno tanto chiasso ma sono sinonimo di lusso, a farle dimenticare quanto il suo futuro marito sia insopportabile. Lo sposerà, dunque, e adopererà le sue fortune come meglio le aggrada.
Certo, dovrà forzare un po’ la sua propensione all’avarizia. Ma ce la farà, lei è molto abile a manovrare gli uomini senza spina dorsale, basta pensare a quell’inetto di suo fratello. Dopotutto è una dote delle signore della famiglia Legan… All’inizio fingerà di accondiscendere a tutte le sue fissazioni, ma via via lo spodesterà come un re detronizzato con l’astuzia. E poi, è talmente cagionevole, talmente e disgustosamente malsano, che non è affatto improbabile che la liberi della sua presenza prima del tempo. Suo padre è morto giovane per colpa di un problema cardiaco, no? Lui è già Marchese a ventidue anni…Dunque, gli Angkatell sono una schiatta danarosa ma malaticcia. Bene, benissimo, un abbinamento adatto alle sue corde e alle sue intenzioni. Non potrebbe certo sopportare a lungo un tipo simile ….
Mentre il suo fidanzato parla di qualcosa di totalmente deficiente, col solito tono che indurrebbe al suicido la persona più ottimista del mondo, la mente di Iriza si allontana.
Certo che lo aveva trovato uno che le piaceva. Aveva il titolo pure lui, e una famiglia ricchissima. Ed era pure bello, talmente bello che quasi quasi lo avrebbe tollerato anche se non avesse avuto un quattrino. Terence, lui si che le faceva tremare le ginocchia. Un tipo originale, diverso, uno zotico a suo modo, ma la sua grossolanità era paradossalmente molto elegante.
Benché la cosa le dia un immenso fastidio, considerato che odia sentirsi sconfitta, Iriza è cosciente, a suo modo, di averlo amato. Forse non era un amore romantico, ma era qualcosa, ecco. Qualcosa che, per un po’ di tempo, l’ha fatta sentire come sospesa, strana, malata. Quel sentimento la fa vergognare come se fosse un’immonda plebea. Odia il fatto che, a ripensarci, nella lista delle virtù di quel giovanotto screanzato, il titolo e il patrimonio che avrebbe ereditato appaiono solo alla fine, solo dopo ben altri talenti. Per quanto sua madre le abbia insegnato a valutare il prossimo solo in base ai beni posseduti, perché quelli non sbagliano mai e forniscono un quadro esatto della situazione di chiunque, quando pensa a Terence, Iriza rivede soprattutto i suoi occhi, e rivive quel senso di sofferenza, quell’ardore così disdicevole, così rozzo….Allora, lei si sentiva così. Indecentemente preda della passione. Non lo sa nessuno, non l’ha confidato nemmeno a sua madre, le riesce arduo ammetterlo perfino con se stessa. Ma, all’epoca, per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, se solo gliel’avesse chiesta. Rabbrividisce ricordando quante volte, col pensiero, ha sfiorato la speranza del disonore. Se solo Terence le avesse chiesto di….
Ma non l’ha fatto, anzi. Ha osato perfino innamorarsi di quella. Quella lì, quell’ammasso di sterco, quella donnicciola senza alcun talento, quella villana senza arte né parte! Se solo la ripensa, diventa rossa per la collera.
Già ci aveva provato con Anthony, ma per fortuna Anthony è morto. Così nessuno può dire chi ha vinto, no? E poi Anthony, tutto sommato, a Iriza non piaceva nemmeno. Era principalmente sua madre a spingerla, a esortarla, a farle vedere il sommo vantaggio di un’unione dei due patrimoni. Un matrimonio tra cugini non sarebbe stato affatto biasimevole. Ma Iriza non ha mai pensato a lui con qualcosa che si avvicinasse almeno di un poco alla tenerezza. Voleva solo vincere, e basta, e assicurarsi un futuro agiato e comodo con un giovanotto carino e beneducato.
Mentre, nel caso di Terence, ci sono stati molti terribili momenti in cui a quel futuro comodo e agiato lei non ha più pensato. Era malata, indubbiamente, disgustosamente malata. Quel tormento la faceva sentire sudicia e inferiore…
Ricorda ancora il calore del suo sputo sul viso. Si porta una mano alle guance, istintivamente, e sente la rabbia assalirla di nuovo, cocente come una maledetta febbre. Pensare che avrebbe voluto che quella trappola portasse via lei dalla scuola, e Terence restasse. Era per quello scopo che l’aveva ordita, per allontanare quella donnetta inferiore, e consolare Terence a suo modo, senza intralci. E invece è andato via lui…
Quanto lo ha odiato! A tratti, lo ha odiato perfino più di Candy. Che fossero felici insieme la uccideva dentro, era come avere un tarlo mostruoso che le portava via bocconi di cuore. Poi, per fortuna, è arrivata Susanna Marlowe. Un’attricetta, nulla di più, ma un’abile stratega. Con quel visino da mite madonna è riuscita a fare molto più di lei….
Iriza è cosciente di non aver mai saputo fingere bene. Se un’emozione accesa le pulsa nell’anima, non riesce a mimetizzarla a lungo. La collera l’invidia e il rancore affiorano sul suo viso come corpi morti dall’acqua. Invece Susanna è stata benedetta da un aspetto angelico e da una voce soave. E poi, insomma, è un’attrice. Ha saputo approfittare di un destino apparentemente infausto. Che stupido uomo, Terence! Quando uno ha tanto onore da dimenticare per esso il proprio interesse, merita di essere infelice.
Però, ultimamente, Iriza ha paura di quella infelicità, che trasuda eloquente dalle pagine dei giornali. Le riviste di spettacolo le compra tutte ( di nascosto dalla signora Legan, che non approverebbe), e tutte sono concordi nel ritenere scandaloso che un uomo conviva con una donna sotto lo stesso tetto, e non la sposi.
Iriza sa perché non la sposa.
Avrebbe voluto che Terence scegliesse lei…..ma in mancanza di meglio, le va bene anche Susanna. Almeno è sicura che patirà per il resto della sua vita, che la lealtà che ha anteposto al proprio appagamento lo tormenterà fino alla fine dei suoi giorni, e che anche Candy soffrirà come un cane preso a calci sulla strada. Non desidera che questo. La loro morte interiore.
Ma ultimamente teme che le cose si complichino. Teme che Terence non sposerà mai Susanna, che tornerà da Candy…Teme che possano essere ancora felici, che non tutto sia perduto per loro. In quel caso, non basterebbero tutti gli Angkatell di questo mondo, coi loro incommensurabili patrimoni, a ripagarla. Non lo sopporterebbe davvero, di vederli insieme. No, esige dal destino che qualche altra complicazione li allontani di nuovo. E se il destino non è abbastanza fantasioso, sarà lei a dargli l’ispirazione. E’ un’ottima musa per trabocchetti e tagliole. Ma stavolta sarà più furba, nessuno deve sputarle più addosso.
E’ così rossa in viso, in quel momento, che il Marchese di Angkatell la guarda, un po’ stupito e un po’ sorridente.
“Mia cara fidanzata, noto con piacere che patite la mia stessa avversione ai raggi del sole!” esclama baldanzoso, e siccome è tutt’altro che aitante, quella baldanza lo fa apparire solo odiosamente buffo.
Iriza sorride, sforzandosi di trattenere una risposta secca.
“Il marchese di Angkatell ha sempre ragione, ma questa è una delle molte cose che ci accomuna…”
“Sono molto felice! Volete usare il mio fazzoletto per tergervi la fronte?”
“Oh no, non ve ne priverei mai!” dice lei, “Piuttosto, è forse il caso che torniamo indietro, non vorrei che troppo sole nuocesse al mio futuro marito…”
E’ sottinteso un non ancora in quelle parole.
Non ammalarti ancora, aspetta prima di avermi sposata, altrimenti non eredito un centesimo.
Mentre tornano, Iriza rifiuta il suo braccio. Si finge pudica e virtuosa, in realtà è solo stomacata. E poi, ha tante cose a cui pensare. Per esempio a come distruggere del tutto quel Terence Grandchester, che ha avuto l’ardire di sputarle in faccia.
Se l’onore è il tuo scudo, io lo trasformerò in una lancia, mio bel duca. Lascerò che ti trafigga fino a dissanguarti. Se non sei mio amico sei mio nemico, per sempre.

Edited by Odyssea - 2/7/2006, 18:37
 
Top
Odyssea
view post Posted on 5/7/2006, 15:25     +1   +1   -1




Ecco ancora un capitolo amici! Vado lenta ma vado. Ho voglia di far visita a quasi tutti i protagonisti della storia, per lo meno quelli importanti, per vedere che fine hanno fatto, come vivono, cosa pensano, se si sono innalzati o son caduti in basso. Qualcuno lo salterò, perché considero conclusa la sua presenza nella storia della vita di Candy. Qualcun altro lo inventerò. Così come, qui e lì, più in avanti, è probabile che troviate qualche "licenza storica", qualche lieve spostamento di fatti realmente accaduti....Vi chiedo perdono in anticipo! :inchino:
Ecco il capitolo, dunque, vediamo un pò che accade a un personaggio di nostra conoscenza che non ci è troppo simpatico.....
BACIIIIIIIIIIIII :baci baci:

Di nuovo qualche settimana prima...
"Il fumo crea uno strato di nebbia nel piccolo tabarin vicino al porto. Finestre e porte chiuse sigillano quella soffocante foschia, mista a un effluvio di alcool, a respiri umani viziati, e al profumo intenso delle entraineuse. C’è un vago chiacchiericcio intorno, e una brutta musica, prodotta da un pianista ubriaco che suona stentatamente uno strumento stonato. Molti uomini, che il fumo trasforma in fantasmi, se ne stanno chini su bicchieri di liquore scadente ma forte. Non si parlano fra di loro, guardano davanti a sé, in mezzo alla nebbia, verso chissà quale panorama immaginario inventato dall’ebbrezza. Alcune ragazze, vestite con abiti striminziti dai colori sgargianti, tentano gli avventori, offrendo loro un nuovo bicchiere da mandar giù, con mille astute moine un po’ fiacche ormai, vista l’ora tarda. Alcune di loro son giovani e belle ma consumate dal lavoro e dai sogni infranti, molte hanno più anni di quanti sperano, vanamente, di dimostrare. Un taverniere grasso, con due occhi acuti da volpe, scruta quell’umanità sparpagliata, i clienti che tracannano bevande ridendo per forza d’inerzia o per il complimento ipocrita di una delle ragazze, le ragazze che sbadigliano impunemente, con l’alito stanco e gli occhi gonfi, il pianista che suona sempre la stessa canzone da ore, come se fosse ipnotizzato o sotto la minaccia d’una pistola puntata. E fissa, infine, quel gruppo di giocatori accaniti che, in un angolo della taverna, maledicono la sfortuna o osannano la buona sorte a seconda che si vinca o si perda.
Nonostante l’apparenza scalcinata, a quel tavolo lì si gioca forte. Son quattro gli uomini che giocano a poker. Il taverniere li conosce tutti e quattro, c’è Smith, il baro, smilzo ed elegante nel suo completo verde mare, che sa trattare con astuzia i suoi polli, li fa vincere un poco per incitarli a rischiare, li fa vincere ancora per illuderli bene, e infine affila i suoi artigli da truffatore incallito e porta via loro perfino la camicia. C’è il Tozzo, del quale ignora il nome vero, sa solo che si chiama così da secoli, e quello pseudonimo gli si addice alquanto, considerata la sua altezza che arriva a stento al metro e sessanta e il suo fisico massiccio. Il Tozzo sa giocare bene, ma la sua qualità più rilevante è che tira pugni da dio. Senza regole, senza limiti, va giù con quelle mani pesanti come sequoie, e il taverniere gli ha visto spesso scarnificare facce e rompere ossa dopo una partita movimentata in cui il perdente di turno non voleva arrendersi all’evidenza. Quando può, morde perfino, assesta certe zannate che lasciano il segno. C’è lord Becker, che non è affatto un lord, ma lo sembra. In verità è un vecchio biscazziere anche lui, accanito e crudele, ma la natura lo ha dotato di una tale eleganza nei lineamenti, che sembra davvero un baronetto. Lui ne approfitta, indossa foulard bianchi e setosi, giacche alla moda antica, come un cavaliere francese di due secoli prima, pantaloni al polpaccio, e scarpe con fibbie di vero oro. Con quell’aspetto, quei capelli canuti e lucidi che ispirano venerazione, quei modi sobri e gentili, non si direbbe mai che Lord Becker sia un assassino di professione, oltre che un baro esperto quasi quanto Smith. Il suo compito è illudere il pollo di turno che si trova fra persone perbene, e che nessuno ha intenzione di fregarlo.
Il pollo di turno, sebbene quel turno duri ormai da diverso tempo, è Neal Legan. La vittima ideale di una perfetta concertazione, ossia spillargli fino all’ultimo centesimo, blandendolo e dandogli ogni tanto un contentino affinché abbia la tentazione di ritornare.
Neal è pallido e sudato, i capelli castani gli spiovono sulla fronte madida, gocciolano perfino, esalando un acre odore di traspirazione e pessimo bourbon. Sta perdendo una fortuna, e lo sa. Ha negli occhi un ghignetto, la sua bocca si piega in un tentativo di sfida, come se volesse arpionare la buona sorte con quel piglio sicuro, ma la fortuna sa che è una finzione. Sa che ha una paura da restarci quasi secco. Che non si è portato dietro nemmeno un centesimo, che ha perso seimila dollari in poche settimane, e che la sua vigliaccheria lo indurrà probabilmente a supplicare come un capriccioso principino quando il Tozzo lo minaccerà di rompergli il naso se non paga subito tutti i suoi debiti. La fortuna sa che Neal Legan non ha mai fatto nulla per conquistarla, e lo diserta con ostentato ribrezzo. Lo lascia perdere malamente, lo lascia in totale balia di quei tre biscazzieri esperti, che se lo rigirano fra i pollici come un polletto spennato. Lo lascia in balia del taverniere, che rincara la dose del bourbon, delle ragazze che lo vezzeggiano scaltre, e di se stesso, della sua totale inettitudine a far qualcosa di diverso dal distruggersi la vita dopo aver tentato di distruggerla agli altri.
Neal Legan ha le lacrime agli occhi, mentre si finge furbo. Mentre guarda le sue carte, e quelle degli altri a seguire, e scopre che la sua misera doppia coppia non può nulla contro le giocate altrui. Possibile che il Tozzo, Lord Becker e Smith si ritrovino, tutti insieme, un full, un poker e una scala reale? Hanno barato? Ammesso che sia così, lui non ha davvero le prove per dimostrarlo, e anche se le avesse, non lo farebbe comunque. Ci tiene alla sua maledetta pelle.
Ci tiene, eppure si butta via come uno scarto. Sta bene lì, in quella bettola, e in molte altre come quella. Si illude di essere tra amici. Il fumo lo ottunde, e talvolta l’oppio lo fa volare lontano. Il bourbon completa l’opera, oscurandogli i sensi, soprattutto quelli che, senza tanti artifici, lo costringerebbero a pensare. Non vuole pensare, e soprattutto non vuole tornare a casa. La sua famiglia è diventata particolarmente noiosa negli ultimi tempi. Non sopporta più di sentire la voce della madre che lo ammonisce con tono pungente. Non sopporta di incontrare l’insulso fidanzato della sorella, quel bamboccio grasso che sentenzia continuamente su tutto, e anche se ha tanti quattrini da poterci costruire un castello impilandoli gli uni sugli altri, si è rifiutato di prestargli una misera manciata di dollari. Non sopporta i discorsi da uomo di suo padre, che lo ha preso da parte, dopo che la signora Legan lo ha praticamente costretto con le sue maniere elegantemente micidiali, e lo ha informato dei doveri che gli spettano in quanto erede del nome dei Legan. C’era quasi da ridere. Suo padre, dopo venti anni di indifferenza, che recupera la sua maschera da zelante genitore e lo mette in guardia sui pericoli del mondo!
Mentre verifica di essere stato sconfitto ancora, Neal sorride con uno sguardo un po’ folle. Il padre gli ha perfino detto che è ora che prenda moglie, sarebbe opportuno che lo facesse prima della sorella. “Ti presenteremo delle signorine a modo, di ottima famiglia” gli ha detto.
“Perdere ti rende felice?” gli domanda in quel momento il Tozzo.
Neal scuote la testa. Non teme nessuno, né suo padre e le sue insulse proposte da finto capo-famiglia operoso, né sua sorella e le sue ramanzine saccenti. Non ha più paura di lei. Iriza ha smesso di fargli tremare le ginocchia, come quando erano bambini e la sua risata mordace gli faceva desiderare di compiacerla per evitare che si indirizzasse a lui. Purtroppo, però, ha ancora un po’ di timore di sua madre. Quella donna lo mette in soggezione, ha uno sguardo così fermo che è come se fosse fatto di bisturi sottili che lo scorticano vivo ogni volta che torna a casa. Lo sa, non è più il suo caro bambino. E’ diventato solo una fonte di problemi, oltre che una possibile causa di disonore per la famiglia. Per evitare lo scandalo di far sapere al mondo che il rampollo di una così aristocratica schiatta frequenta sordidi localetti pieni di biscazzieri e donne di malaffare, i Legan hanno pagato i suoi debiti fino a un certo punto, tentando di richiamarlo all’ordine. Ma da un po’ hanno tirato i cordoni della borsa. L’unica cosa che gli elargiscono a volontà sono i loro sguardi oltraggiati e certe tediose ramanzine da far addormentare un sasso. Che lo trattino pure come un diseredato, non gli importa niente di essere un Legan. Tanto, ormai ha i suoi nuovi amici….
Gli amici lo fissano, Lord Becker dice qualcosa con gentilezza, è una minaccia spacciata per ossequio. Gli occhi del Tozzo sono ferini, mentre Smith raccoglie le carte e allo stesso tempo sorseggia da un bicchiere che una entraineuse stagionata continua a riempire, ma solo di soda.
Neal ha sul viso quell’espressione strana, un po’ tonta per colpa dell’alcool e del fumo, un po’ odiosa per via dei ricordi che gli si affollano nella mente, nonostante la confusione dei suoi neuroni corrosi da mesi di oppio e bourbon e notti insonni. Gli torna sempre la stessa scena, e quando accade vorrebbe spezzare qualcosa, se solo ne avesse il coraggio romperebbe il naso tozzo del Tozzo, così, per sfogarsi. Candy che lo rifiuta, che lo respinge disgustata. Non le perdonerà mai la collera che le ha letto nello sguardo, e soprattutto, la pena. Candy lo ha detestato e poi ha avuto perfino pietà di lui? Come si è permessa di compatirlo dopo averlo rifiutato in quel modo ostile?
Ancora ha un crampo nello stomaco quando ci pensa. Lampi di rabbia, e tormento. Lei doveva essere sua! Così era stato deciso! Cosa c’era in lui che non andava? Niente, niente! Eppure, ha preferito quel delinquente d’un Grandchester, quel pagliaccio, sol perché aveva i capelli lunghi e si atteggiava a ribelle?
Adesso cosa ne penseresti di me, Candy? Sono abbastanza ribelle anche io? I miei capelli sono sufficientemente lunghi? Li porto sugli occhi, come quel malnato attorucolo. Ti piacerei adesso? Mi guarderesti con ammirazione, con rispetto, o ti tireresti ancora indietro se provassi a baciarti?
La odia, perché conosce la risposta. La odia perché la desidera ancora. Quella maledetta ragazza, se solo potesse fargliela pagare in qualche modo…
Intanto, gli gira vorticosamente la testa. Il tre biscazzieri parlano, ma lui non li ascolta.
“Avrete i vostri soldi” dice ostentando una finta disinvoltura.
Il Tozzo gli afferra un polso, lo stringe con forza, glielo torce talmente che si sente l’osso che geme.
“Non ti dimenticare principino” esclama, con una voce roca da fumatore accanito.
Neal promette, promette ancora, infine supplica. Poi si allontana dal tavolo, barcollando e urtando qui e lì come una lucertola morente. Esce fuori dal locale, e l’aria esterna, fresca e intonsa, quasi lo soffoca. Tossisce, sputa, si passa una mano tra i capelli grondanti di sudore. Il fresco notturno lo taglia come un coltello. Si avvia lungo una stradina, disgustosamente ubriaco, e come gli ubriachi ride per cose che solo lui sa, e un po’ piange perfino, inveendo contro il mondo a voce abbastanza sostenuta.
Poi raggiunge la casetta. E’ vicina al porto, da lì si sente distinto il rumore del mare, e l’odore del carbone e dei motori. Apre un portone consunto, entra in un sudicio androne. Sale due rampe di scale reggendosi ai muri. Quando arriva alla porta e bussa, tre colpi in sequenza come un segnale, dietro l’uscio appare una giovane donna. Forse non ha più di vent’anni, ma ne dimostra almeno dieci di più. Capelli neri, sciolti, un fisico mingherlino e un po’ curvo. Occhi stanchi, arrossati, ma non per la stessa ragione di Neal. Quella ragazza non ha bevuto, non ha tirato quasi l’alba per smarrirsi dietro a un passatempo mortale. Semplicemente, lo stava aspettando, e mentre aspettava, cuciva. Ago, filo, e una catasta di roba da rammendare, non tutta sua. Fa la sarta, probabilmente.
Neal entra, e lei lo guarda un po’ male, ma negli occhi scurissimi transita per un istante il sollievo.
“Hai perso di nuovo?” gli chiede poi sconsolata.
“Verranno momenti migliori” risponde lui, e si butta di peso sul letto, in un angolo.
“Non verranno se non li cerchi”.
“Senti, Susan, se volessi sentire recriminazioni tornerei a casa mia. Mia madre è piuttosto esperta nel trovare il modo migliore per farmi sentire un figlio degenere e un fallito”
“Non è questa casa tua?” la voce di lei diventa un filino.
“Non siamo sposati, non comportarti come se fossi mia moglie. Ho solo bisogno di dormire due ore, poi me ne vado”
Un po’ di silenzio invade la modesta stanzetta. Susan lo osserva mentre si slaccia del tutto il colletto della camicia e poi, subito, sprofonda in un sonno agitato.
Mentre lei cuce alla luce di una fiaccola sul tavolo, Neal parla nel sonno. Susan trema, spera che non accada più ciò che è accaduto quella volta, quando lui ha fatto quel nome. Candy, l’ha chiamata spesso dormendo. Quando gli ha chiesto spiegazioni, Neal le ha raccontato furiosamente ogni dettaglio. E Susan si è fatta piccola, molto più piccola di quanto già non sia, avvertendo nella sua voce un fiume inesauribile di passione. Egoistica e folle, morbosa e crudele, ma pur sempre passione. La stessa che, forse, per lei non proverà mai.
Susan non è tipo da sentimenti efferati, è una mite ragazza che lavora per vivere e ha incontrato Neal per caso. Lui non è un uomo sensibile, e nemmeno troppo bello. Non compie gesti romantici, non fa altro che servirsi di lei per tutti gli usi cui serve una donna che non si ribella e che ama in silenzio. Neal è ben contento di non aver bisogno di pagarla, visto che a quattrini non è messo molto bene. Susan è carina e servizievole. Ascolta, e raramente esprime un giudizio. E ogni tanto gli presta perfino qualche centesimo per le sigarette.
Ma da un po’ di tempo, nel cuore di lei sta fermentando qualcosa di antico. E’ gelosa, astiosa, vibrante. Non sopporta di sentire ancora quel nome. Non sopporta di sapere, con certezza, che lui pensa ancora a quella ragazza. Vorrebbe che scomparisse, che non fosse mai nata, o che qualcosa gliela strappasse comunque dai pensieri.
Se Neal Legan sapesse quale amore si annida nel cuore di Susan, forse scapperebbe a gambe levate. O magari no, resterebbe piacevolmente turbato all’idea di essere il destinatario di un sentimento sincero. Non è abituato ad essere niente di più che il braccio destro, brutale e un po’ ottuso, di sua sorella, l’esecutore dei suoi progetti contorti. Ha sempre riso a comando, obbedito come un cieco, e non è mai stato amato, neanche dalla madre, non d’un amore tenero, mai. Non ha pratica di sentimenti puliti. I suoi, per Candy, sono inquinati come pozzanghere. Ma Susan lo ama, e per lui farebbe qualsiasi cosa. Forse se lo sapesse se ne sentirebbe inorgoglito, ma il suo sarebbe un orgoglio sprezzante, da codardo che si sente vincente, per la prima volta nella vita, nella battaglia delle emozioni.
Così, lei tace, gli dà tutta se stessa, ma tace. Però è gelosa.
Osserva Neal che dorme profondamente, e ritorna a cucire, dopo aver strizzato un attimo gli occhi stanchissimi. Sospira. Gli dirà quella cosa la prossima volta."

continua.......

Edited by Odyssea - 5/7/2006, 16:43
 
Top
Odyssea
view post Posted on 5/7/2006, 19:43     +2   +1   -1




Oggi due capitolini a raffica! Spero di farvi piacere.....Purtroppo la sto scrivendo in diretta, dunque non si sa come gira l'ispirazione....Io ce la metto tutta se so che vi piace! VVB

Di nuovo qualche settimana prima
"Il lusso estremo di quella stanza è inversamente proporzionale alla miseria delle menti delle due donne che vi sostano con aria bellicosa. Chi ha voluto quegli stucchi, quei ritratti antichi, quel mobilio intarsiato e lucido, quegli argenti più pesanti di sassi, e quei tappeti dal vello ricco e setoso, sembra aver impiegato tutta la propria energia solo a scegliere cosa comprare e come accostare i pezzi, e non gliene è rimasta molta da sprecare in saggezza e buoni propositi. Non c’è dubbio, a quelle due donne manca qualcosa. A prima vista non sembra, paiono solo due signore dell’alta società che conversano, e quando due donne altolocate lo fanno, c’è da credere che discutano di argomenti amabili, di musica e balli, di clima e moda francese. Ma non quelle due signore.
Quelle hanno dimenticato da un pezzo lo spasso del chiacchiericcio frivolo dinanzi a una tazza di the, se mai vi si son dedicate nella loro vita. Stanno discutendo di qualcosa con aria di complotto. Di sicuro non stanno criticando la toilette di Louise all’ultima soirée, non ne hanno l’ispirazione. La donna più anziana ha un viso severo, abituato a sorridere poco, sembra quasi che i muscoli della sua faccia si siano immobilizzati su un’espressione standard, cioè un cipiglio lugubre da gentildonna che elargisce disprezzo molto più che compassione. Tiene le narici leggermente dilatate, la bocca protesa, e si vede che pensa a qualcosa, e non deve essere piacevole abitare dalla parti dei suoi pensieri. E’ vestita in modo sontuoso, e porta al collo un triplo giro di collane. Ha un fisico pesante, e incute rispetto.
L’altra, più giovane, snella e sinuosa come una gatta, con la vita strizzata in un busto che dovrebbe strozzarle il fiato, parla invece con concitazione. E’ una quarantenne coi capelli ramati, e solo un cieco affetto da sbadataggine si farebbe ingannare dal suo aspetto gradevole e dalla sua bellezza ancora abbastanza fresca. A guardarla bene, infatti, emerge la gelida luce dei suoi occhi, la linea rigida delle labbra, e si capisce che è tutto tranne che affabile. O forse lo è solo con chi le conviene.
In quel momento, comunque, mentre il sole entra dalla finestra a ovest facendo brillare il pavimento di marmo, le due donne sono in ansia per qualcosa. La loro ansia, però, non ha nulla che susciti tenerezza. Semmai, la speranza che si moltiplichi e le sommerga.
La donna più giovane, seduta su una poltroncina rigida come su un trono, si sporge un po’ verso l’altra e mormora:
“Dobbiamo fare qualcosa, cara zia, prima che lo scandalo ci sommerga”
La donna più anziana annuisce ma resta seria e zitta.
“Non riesco più a tenere a bada Neal, il suo comportamento mi affligge fin troppo” continua la signora Legan “ Tutto è avvenuto per colpa di quell’ignobile ragazza….”
La zia Elroy socchiude la bocca e assume un’espressione che, bonariamente, si potrebbe definire ferina. Poi dice con tono altezzoso:
“Io ho sempre sconsigliato l’ingresso di un’estranea di cui non fosse possibile conoscere la famiglia. Per quanto mi riguarda esigo di sapere tutto il possibile anche sugli avi dell’ultima delle mie sguattere. Tu, invece, consentendo a quella ragazza di varcare la soglia della tua casa, hai permesso una tristissima sequela di eventi”
“Ti prego, zia, non accusarmi di colpe che non possiedo. Non potevo certo immaginare che una giovinetta che avrebbe avuto ogni ragione per essere modesta, si rivelasse un’insolente arrampicatrice sociale”
“Son proprio le giovani senza famiglia, senza arte, senza futuro, le arrampicatrici sociali più promettenti” insiste la zia Elroy senza mutare di un centimetro la sua espressione “Non potrò mai dimenticare il dolore che mi è stato inflitto. Anthony era il più valido dei miei nipoti, un ragazzo d’oro, rispettoso e obbediente, e per colpa di quella volgare creatura, è morto. Da quando lei ha cominciato a dargli il suo esempio selvaggio, il mio nipote preferito si è mutato in un ribelle. Se non fosse stato per lei, Anthony non si sarebbe mai mosso dal suo giardino, avrebbe sposato una signorina di ottima origine, e adesso sarebbe vivo. Lei lo ha strappato alle sue abitudini, lo ha indotto a partecipare agli svaghi del volgo, gli ha confuso i pensieri e creato rozzi turbamenti che, facendo scemare la sua attenzione, hanno segnato la sua fine. Se quella donnetta insidiosa non si fosse intromessa, non sarebbe caduto da cavallo. Era un ottimo cavaliere e aveva partecipato incolume a molte altre battute di caccia”
“Lo so, cara zia. Lo so. La stessa cosa può dirsi per mio figlio”
Ma la zia Elroy appare desiderosa di dar sfogo a tutti i suoi pensieri e, per il momento, di Neal non sembra importarle molto. Continua a parlare severa.
“Non dubito che sia stato anche il suo pessimo esempio ad indurre il povero Stear a compiere quel gesto sconsiderato. Partire per combattere una guerra che non ci ha mai riguardato è stato offensivo nei confronti della famiglia. Avrebbe dovuto consultare suo padre prima di fare una cosa tanto sciocca. Infine, mi turba alquanto che Archie abbia deciso di convolare a nozze con quella ragazza di ignota origine. Non la considererò mai come una Brighton, il sangue non è acqua, un figlio adottivo non potrà mai essere come un figlio naturale”
“Avresti dovuto parlarne con William, visto che sapevi tutto sulla sua doppia identità” dice la signora Legan cercando di trattenere la stizza “Se lo avessi guidato, forse, non avrebbe commesso l’assurda sciocchezza di accoglierla nella famiglia in quel modo così scandalosamente ufficiale!” omette di aggiungere che, qualche mese prima, quando aveva ordito la sua bella trappola per permettere a suo figlio di sposare una donna scelta con il metro del capriccio, quella accoglienza non le dispiaceva affatto, nella speranza che Candy potesse infine ereditare le fortune degli Andrew grazie a un vantaggioso testamento dell'anziano zio William, e che quel patrimonio andasse infine al suo caro rampollo. La morale della signora Legan è piuttosto ballerina, evidentemente.
“Tu non conosci William, se pensi che sia facile guidarlo. Ha deciso di darsi per anni a una vita selvaggia, e non c’è stato verso di impedirglielo. Ha deciso di accogliere quella ragazza, e non ho potuto far nulla. Ha deciso di impedire il matrimonio con Neal, e così è stato. Quando si mette in testa una cosa diventa a dir poco insolente, perfino. E adesso, temo davvero che commetta la sciocchezza più grande” il viso della zia Elroy muta espressione per qualche istante. Nei suoi occhi viaggia un panico puro, misto a un odio selvatico.
“A cosa alludi?” domanda la signora Legan, incuriosita, senza però smorzare la sua impazienza. Il suo desiderio principale era parlare di Neal, è quello il problema che l’affligge.
“Dove credi che vada quando rientra dai suoi affari?” borbotta la zia “Pensi forse che venga a trovare me? Non lo vedo da mesi. Va a trovare quella ragazza, in quel covo malsano. Ha investito del denaro, perfino, per costruire non so che fabbricato ad uso e consumo di quegli illegittimi. Temo che il passo successivo di questa indecente manfrina sia uno solo…”
La signora Legan, avvampa, ma invece di diventare rossa diventa gialla.
“Cosa? Credi che…che le chiederà di sposarlo?” esclama.
“Temo di si. Quel ragazzo è un impulsivo, molto più di quanto si creda.”
“Sarebbe uno scandalo! Non puoi impedirlo?”
“Non adesso, non finché quella Candy non sia umiliata pubblicamente…Vedi, la morale moderna è sempre più smidollata. Si tende a considerare con compassione gli orfani, piuttosto che emarginarli. Un’eventuale unione fra William e quella donna susciterebbe un po’ di riprovazione sociale, ma non dubito che qualche persona la troverebbe perfino romantica. Certo, se la sua integrità venisse distrutta una volta per tutte, se si buttasse fango, un vero fango, sui suoi costumi, forse quello sciocco potrebbe anche ripensarci. Ci sono cose sulle quali un uomo non può soprassedere con tanta leggerezza….”
“Ne sei sicura?”
“Non del tutto, mia cara, William é cieco e cocciuto. Però, non escludo che, mettendo in atto un saggio piano, non abbia alla fin fine altra scelta che dimenticarsene….Il che potrebbe risolvere anche la situazione di tuo figlio”
“Come pensi che se ne avvantaggerebbe?”
“Lo sai benissimo perché quell’inetto si è dato a una vita di corruzione e sperpero! E’ più che evidente che si tratta del colpo subito per essere stato respinto! Quell’insulsa ragazza, evidentemente, punta più in alto. Punta al capo degli Andrew. Sa che c’è in ballo un patrimonio considerevole. Quello di Neal non gli bastava. Non c’è dubbio che il tuo ragazzo patisca la mortificazione di un rifiuto così rozzo e scortese. Ma se lei fosse distrutta, non dubito che sentirebbe tornare l’orgoglio sopito”
“Distruggere quella Candy è sempre stato un mio imperativo. Dà un esempio pessimo, hai ragione. Ha cercato di nuocere anche a Iriza con le sue rozze maniere, ma lei è stata più forte”
“Tua figlia ha preso da te, mentre temo che Neal abbia assunto dal padre quel suo fastidioso lato molle…Come Andrew, avresti potuto concludere un matrimonio migliore, ma per fortuna hai insegnato qualcosa di buono a tua figlia”
La signora Legan non ha voglia di discutere delle virtù di suo marito, anche perché, al momento, non gliene sovviene nemmeno una. E d’altro canto non c’è dubbio che la zia abbia ragione, se avesse voluto avrebbe potuto sposare anche un principe. In mancanza, per Iriza va benissimo anche un marchese ben fornito di beni.
Le due donne continuano quella conversazione distruttiva e spietata. Il sole tramonta dietro le loro schiene, il the si raffredda, l’argento risplende, i personaggi ritratti nei quadri le osservano con le loro stesse facce arcigne, mentre discutono di cosa fare per impedire che William Albert assecondi il ghiribizzo immorale di sposare quella ragazza senza origini. Quel salotto, indubbiamente, pulsa di speranze e di progetti insidiosi, di commenti crudeli e totale carenza di cuore.
La rosa Dolce Candy, in giardino, bianca come la neve, rabbrividisce nel vento del tramonto".

Continua......
 
Top
Odyssea
view post Posted on 6/7/2006, 13:14     +1   +1   -1




"Come hai potuto farmi questo?” la voce di Terence è sommessa, anche se, ogni volta che il fiato gli sgorga fra le labbra, scintilla tra le sillabe un furibondo dolore. Sta cercando di contenersi, di limitare la rabbia, di tenderla dalle redini, come se fosse Teodora, come se l’indignazione che scava uno squarcio nel suo cuore fosse solo una cavallina vivace da tenere a freno con un buon gioco di briglie e gambe e autorità. Sta cercando di non assalire Susanna con la forza selvaggia del suo disappunto.
E’ sempre così, con lei, questa è un’altra delle molte, forse troppe cose, che lo indignano, che vorrebbero far straripare l’amarezza, il bisogno di esprimerle la propria disapprovazione, ma dinanzi alle quali si ferma dopo neanche mezzo passo. Susanna reprime il carattere naturale di Terence, lo trasforma in un’altra persona. Senza far nulla, lo schiaccia. Alzare la voce con lei gli sembrerebbe mostruoso, ma anche contraddirla con calma sarebbe crudele. Gli parrebbe di demolirla più di quanto già non sia demolita.
Per questo, Terence non riesce ad essere se stesso da un anno.
Si è convinto che in quella trasformazione non ci sia nulla di negativo, anzi è tutta un vantaggio per la sua pessima indole. Attutire l’impulsività, imparare a domare lo spirito, tenere l’ardore in un cassetto chiuso a chiave: non c’è nulla che non sia guadagnato. In passato, molto spesso, l’essere troppo pronto a reagire gli ha procurato un mucchio di complicazioni. Dunque, ben venga qualcosa, qualsiasi cosa, che sia capace di renderlo più riflessivo. Eppure…avrebbe desiderato che quel mutamento lo facesse sentire migliore. Quando un uomo cambia in modo spontaneo, non dovrebbe accorgersene. Quando smussa i suoi angoli acuti, non dovrebbe sentire un dolore come se gli scorticassero la pelle con una lima. Quando una donna è talmente innamorata, e soprattutto talmente amata, da smorzare gli aculei del suo compagno col suo semplice esistere, quella trasformazione dovrebbe essere invisibile e indolore. Se ne dovrebbe cogliere il risultato, a un tratto, ma non soffrire durante il processo peggio che durante una tortura medievale.
Non c’è nulla di naturale e di spontaneo nel modo in cui Terence cerca di trattenere la voglia di urlare. Non è cambiato sul serio, anzi è peggio di prima. Molte più emozioni scalpitano sotto la sua superficie, non si sente migliore, non prova altro che una costante, faticosa, necessità di tenersi a freno quando invece vorrebbe far qualcosa di plateale, qualcosa di memorabile, qualcosa di stupido, qualcosa come sradicare dalla terra tutti i ciliegi del giardino, seppellire il bersò con una palata di terra, dar fuoco alle rose californiane che Susanna ha voluto nella serra, e, soprattutto, lasciarla. Tornare a casa e non trovarla più che pota le rampicanti lungo lo steccato di legno bianco. Non sentire più lo scricchiolio della sua sedia che si avvicina, la sua voce che lo chiama, il suo profumo dolciastro nell’aria..
Si sente crudele, quando questi pensieri, invece di sfiorarlo, lo trapassano. Si sente come se fosse un assassino, un brigante senza onore e senz’anima, un ipocrita senza speranza. Si ripete che adesso potrebbe esserci lui su quella odiosa sedia che scricchiola. Con un moncherino dal ginocchio in giù. Se lo ripete spesso, sembra quasi una lugubre filastrocca.
Ma, questa sera, controllarsi è più difficile del solito. Non riesce a non sentire la rabbia, provocata dalle insinuazioni niente affatto velate di quell’odioso giornalista. Non riesce a non chiedersi perché mai Susanna glielo abbia raccomandato così caldamente quel tanghero lì. E’ stata lei a insistere affinché concedesse l’intervista, dopo tanto tempo che non ne rilasciava una. Se non fosse stato per la sua occulta, e neanche tanto, persuasione, non avrebbe permesso a quello scribacchino insolente di varcare la soglia del suo camerino.
Susanna lo fissa con le labbra socchiuse, ha ancora una bella bocca, a un altro uomo piacerebbe senz’altro. Ha lo sguardo lucido lucido, tremante.
“Cosa è successo?” gli chiede, con una voce che fa pendant, quanto a fremito, con quello degli occhi.
“Cosa ne sai di quel giornalista?” insiste Terence senza rispondere alla sua domanda.
“Io..niente!” replica lei stranita “Non so proprio nulla di lui, ho visto che lavorava per un giornale serio e ho pensato che andasse bene….”
“Vorrei proprio conoscere questo giornale così serio da mandare in giro un volgare imbrattacarte in cerca di qualche succulento boccone che faccia scandalo!” Terence comprime i pugni, si fa male ai palmi tanto stringe forte “E vorrei anche sapere come hai fatto a conoscere un giornalista qualsiasi, visto che non esci mai di casa”
Susanna ha uno strano sguardo, in quel momento, ha smarrito tutta la mitezza, la sua solita aria malmenata sembra sommersa da una specie di stizza.
“Dimmi cosa pensi senza girarci intorno” dice “Cosa ti ha detto quel tizio per ridurti in questo stato?”
“Non importa quello che ha detto. Voglio sapere cosa ne sai tu delle sue intenzioni”
“Le sue intenzioni? E’ un giornalista, no? Presumevo che ti facesse domande sullo spettacolo, sui tuoi progetti futuri! Terence, mi dici cosa ti ha chiesto, per favore?”
Lui non risponde, ma non c’è bisogno di precise parole affinché Susanna capisca cosa lo turba. E’ molto più accorta di quanto lui pensi. Sa leggere nella sua anima molto meglio di quanto lui non faccia con la propria. Sa riconoscere lontano un miglio un folle tormento da innamorato. Lo sa perché lo prova in ogni fibra del suo inutile corpo.
Io e te siamo uguali, in un certo senso, entrambi desideriamo qualcosa che ci distorce l’anima, che trasforma il nostro corpo nel frutto di un martirio, entrambi abbiamo una gamba di meno, la mia è reale, la tua è immaginaria, ma anche tu, Terence, sei destinato a zoppicare per sempre.
Ecco, traspare perfino dai pori della sua pelle quella maledetta passione che non vuole saperne di farsi sommergere dal tempo. Quando Terence vola via con la testa, quando non riesce nemmeno a fingere di essere presente, sta pensando a lei. L’amore gronda da lui come sangue. E’ come se avesse sangue anche negli occhi, come se gli gocciolasse sul mento. L’amore lo tiene stretto ancora nel suo pugno di ferro.
Susanna sa benissimo come stanno le cose, è invalida ma non è cieca. Vorrebbe fare qualcosa per Terence, ma teme che qualsiasi gesto, qualsiasi parola che comprenda il nome di lei, possa fargli scattare dentro una pericolosa scintilla. Possa farlo riflettere meglio, e lei non vuole che rifletta. Vuole semplicemente che rimanga. Con lei, in quella casa, anche in stanze separate.
Se fosse stata sana, avrebbe bussato alla sua porta, di notte, da molto tempo, varcandone la soglia con voluttuosa determinazione. Lo avrebbe messo alla prova coi mezzi concessi a una donna dotata di bell’aspetto e di un piano preciso. Lui non le avrebbe opposto una resistenza eterna, gli uomini sono uomini e alla fine, dopo ben poche battaglie, cedono con gradimento. Se fosse stata sana, a quest’ora….
Subito, con un soprassalto di rabbia, si rende conto che, se lei non fosse un’invalida, Terence non sarebbe stato lì. Non avrebbero certo vissuto nella stessa casa, sia pure in appartamenti distinti! Lui, adesso, sarebbe con Candy, ben lontano dalle sue provocazioni!
Trattiene un ghigno, digrigna i denti a bocca chiusa, ma finge ancora di sorridere dolcemente. Candy. Il suo nome è bandito da quella casa, non lo pronunciano nemmeno per sbaglio. E’ bandito ma è sempre presente. Aleggia, si aggira, come vento, come la stessa aria alla quale non puoi rinunciare senza morire. Susanna lo sa, lei sa tutto. E sa anche che quella situazione la sta uccidendo. Lentamente, nonostante si illuda che le basti, sente che la sua vita sa di poco. Ha diritto a qualcosa di più, vuole che Terence la guardi con amore, con rispetto, e non con quel misto di carità e cautela.
Intanto, deve inventarsi qualche risposta. Terence non ha intenzione di mollare. Chissà fin dove si è spinto quell’idiota di giornalista. Inoltre, ha bisogno di pensare, pensare, pensare, a come risolvere quella faccenda, a come venir fuori da quel pantano. E non più coi metodi antichi, non più scrivendo a lei una missiva così amara, così pietosa, da essere una minaccia nascosta. Che stupida lettera ha scritto a Candy, allora. Conoscendo la sua sensibilità, ha cercato di colpirla con l’arma della compassione. Ha cercato, subliminalmente, di dirle “Resta fuori, non comparire più, se non vuoi sentirti colpevole della morte di una povera invalida”.
Ma quei sistemi non servono, se il risultato resta costante. Cioè lei, Susanna Marlowe, da sola in quella grande casa per la maggior parte del tempo, a trascinarsi su una carrozzina moderna ma detestabile, a leggere i copioni per lui, trattare coi registi ma senza mai uscire da casa, smistare la sua posta, e piantare fiori in giardino. Qualche volta lo segue a teatro, ma è troppo stancante, e la curiosità della gente per il suo stato è indecentemente morbosa.
No, qualcosa deve cambiare, in un modo qualsiasi. Altrimenti, non è escluso, la morte rapace la rapirà. Ha una gamba di meno, dunque, per compensazione, ha diritto a qualche altro dono.
Avrò il tuo amore e la tua ammirazione, mio caro. Non mi guarderai più come se fossi qualcosa di superfluo che non solo non ti serve ma non ti piace nemmeno.
Sa che non è facile, sa che non è indolore, ma resterà aggrappata a tutti i costi a ciò che le spetta.

continua.......

Edited by Odyssea - 6/7/2006, 17:18
 
Top
Odyssea
view post Posted on 8/7/2006, 00:17     +1   +1   -1




"Candy tenta di guardare la collina fuori dalla finestra. Piove, piove così forte che il vociare dei bambini dentro la casa è sopraffatto dal fragore dell’acqua sul tetto. Candy sta lì, davanti al vetro allagato, e non vede nulla al di là di quella cascatella ritmata, così incessante che sembra bussare insistentemente.
Mina è stata fuori, e al suo rientro si è scrollata la pioggia di dosso come se sparasse proiettili. Candy l’ha asciugata, l’ha coccolata come una grassa bambina, e adesso il cane poltrisce davanti all’uscio, ogni tanto solleva il capo e il tartufo si protende in un insistente fiutare, poi si addormenta di nuovo, e durante il sonno le sue zampe danzano e le sue palpebre sussultano al rapido movimento degli occhi. Klin e Puppy se ne stanno arrampicati sul vano della finestra, Klin si lava come un gatto attento, Puppy accarezza il vetro con una zampa, con un gesto delicato, quasi ballerino.
I bambini gridano più forte, nell’altra stanza, si sentono assordati da quel rimbombo. Il tetto di legno amplifica qualsiasi rintocco, ed è come se qualcuno, da fuori, versasse interminabili quantità di piccoli sassi sulle loro teste. Tic tic tic tic, un ipnotico tic tic tic tic.
Non sembra un pomeriggio di primavera inoltrata. Candy aveva progettato una breve passeggiata fino al lago, insieme ai bambini più grandi. Un pic nic, con gerle piene di tramezzini e dolcetti. Ma purtroppo, il tempo è mutato rapidamente, il cielo si è affollato di nuvole fitte, e l’impresa più ardua è stata consolare i ragazzini delusi. Ma anche lei, non è che abbia preso bene la cosa. Per quanto qualsiasi espressione della natura la attragga, per quanto non faccia un torto all’inverno preferendogli l’estate, e non sia villana con l’autunno anteponendogli la primavera, perché sa che qualsiasi tempo significa qualcosa per qualcuno, quel giorno avrebbe davvero gradito uscire, camminare, correre, arrivare fino all’orlo quieto del lago, bagnarsi le dita. Avrebbe voluto legarsi i capelli in due code, e avvertire sulla nuca il pizzicore del sole.
E invece, anche lei si sente delusa come una bambina cui non importa un granché che l’acqua faccia bene alla terra. Scruta quel diluvio insolente, e si sente nervosa.
Suor Maria le si avvicina, le mette una mano sulla spalla.
“Quando eri bambina e pioveva, avevi la stessa espressione di adesso. Se avevi progettato una passeggiata insieme ad Annie, aprivi la porta e mandavi sberleffi alla pioggia” sussurra sorridendo.
“Davvero?”
“Si, facevi certe boccacce, eri convinta che la pioggia si spaventasse e andasse via vedendoti…”
“E funzionava?”
“Ti dirò, il più delle volte, nel giro di qualche minuto il cielo si apriva…”
Candy ride, e negli occhi le naviga, per un brevissimo attimo, un senso di tenerezza, di nostalgia. Forse, allora, funzionava perché lei ci credeva, confidava nel serio nel potere delle linguacce e dei lazzi. Non c’era temporale che riuscisse a resistere alla strepitosa fiducia di una bambina. Mentre, adesso, sa che la pioggia è solo pioggia e che nessuna boccaccia, per quanto buffa o bruttissima, ha la forza di domare il tempo e di convincerlo a indietreggiare. Adesso, ha perso quella cieca innocenza. Sa che non basta desiderare qualcosa perché qualcosa arrivi. Il temporale lo capisce, e non è più disposto a scendere a patti. I temporali non fanno accordi con gli adulti che hanno perso la fede nel potere degli sberleffi fatti sull’uscio.
“Non ho più l’età per fare i capricci. Per cui, mi farò piacere questa pioggia anche se non mi piace” esclama, scrollando le spalle.
Suor Maria la guarda, e avverte nel cuore il solito tormento. Ultimamente le capita spesso, e per quanto una madre vera possa giurare che una come lei non sia in grado di provare cos’è l’istinto materno, Suor Maria ne ha oceani di quell’istinto nel sangue. Ha avuto fra le braccia decenni di bambini, nessuno nato da lei, ma tutti immensamente amati. E’ più madre quella timida suora di molte madri sulla terra. E, come ogni madre, sa quando una figlia è cresciuta troppo e troppo in fretta. E’ sempre Candy, fondamentalmente, la ragazza solare e forte di un tempo, ha un’energia da spaccamontagne, e un sorriso che crea nelle stelle il bisogno di copiarla per non restare indietro. E’ dolce, premurosa e giocosa, e i bambini sono pazzi di lei. Non l’ha mai vista piangere, non ha mai sentito parole, pronunciate da quella tenera bocca, che non fossero grondanti di voglia di continuare, di vivere, di andare avanti, verso la collina, verso la pianura, verso qualsiasi destinazione destinatale da qualcuno più in alto. Eppure, nonostante l’asciuttezza delle sue iridi verdi, Suor Maria sente il proprio istinto materno che trema. Sente che la sua bambina ormai donna ha perso qualcosa lungo la strada, come quando un ninnolo ti cade dalla tasca e quando ti accorgi di averlo smarrito è troppo tardi. Sente che Candy fa più sforzi di quanti sarebbe giusto farne se fosse felice sul serio, spontaneamente, senza bisogno di impegnarsi ad esserlo. E’ come se si fosse imposta, quale compito a casa, l’obbligo di essere grata alla vita. La sua gaiezza sembra un lavoro.
Quando, qualche sera prima, ha raccontato loro di aver accettato la proposta di matrimonio di Albert, Suor Maria non è stata per nulla sorpresa di quello sviluppo. Conosce i sentimenti di Albert da molto tempo, e non perché lui glieli abbia confidati, ma perché una madre sa leggere ogni sfumatura fra le righe, soprattutto le cose che dalle righe debordano. Era più che evidente che quel caro giovanotto avesse nel cuore un sentimento fatto solo di totale onestà. Un sentimento pulito, leale, serio e profondo. Una predilezione benedetta, da far inchinare Dio al suo cospetto. Non ci sarebbe motivo per non considerare quel matrimonio come un sacramento perfetto.
Eppure, Suor Maria sente che qualcosa non è come dovrebbe essere. Non che Candy non le appaia soddisfatta della propria scelta, anzi. Però, anche quella contentezza sembra una missione, un incarico assegnatole dal cielo, che porterà a termine a costo della vita. “Sarò felice” ha detto loro e non “Sono felice”. Quel verbo sbagliato, forse è solo una bazzecola, forse è una cosa importante. Forse non significa niente, forse significa tutto. Di sicuro, qualcosa la turba.
Qualche volta, di notte, l’ha sentita sospirare, una sera ha udito perfino dei secchi singhiozzi ben presto placati. Suor Maria non è madre e non è sposa, ma conosce l’amore. L’amore per Dio, per lei, è un impeto, le sgorga dal cuore con la stessa forza di quella pioggia. La sua scelta, in passato, è stata naturale, nessuno l’ha obbligata a indossare la tonaca. Non si è dovuta mai ripetere di aver fatto la cosa giusta, anzi, non ha mai sprecato alcuna parola al riguardo. Candy, invece, ha usato fin troppe frasi, la sera prima, per descrivere se stessa, come se dovesse qualche spiegazione a qualcuno. Era strana, era irrequieta, parlava veloce veloce, sorrideva ma spiegava spiegava spiegava, elencando le nobili ragioni di quel legame ideale.
Suor Maria e Miss Pony si sono guardate, mentre Candy giustificava se stessa dinanzi a se stessa. Ricordano bene quando è tornata dall’Inghilterra, molto più di un anno prima. Correva su per la collina con la foga di un cerbiatto pieno di sogni. E’ entrata in casa col fiato in gola, e il viso pieno di luce, pronunciando solo un nome. Aveva un milione di stelle cadenti negli occhi, perfino la sua voce sembrava diversa. Tremava come trema un cucciolo quando scoppia di felicità. Era bella come una Madonna che accetta l’annuncio di un Angelo.
Suor Maria e Miss Pony ricordano anche il modo febbrile con cui, fino a poche settimane prima, sfogliava quei giornali. Leggeva dei suoi successi, e non parlava. Zitta, come una bimba immersa in una fiaba che la trasporta dentro il libro. Zitta, la bocca protesa un poco, lo sguardo intento, e ogni tanto un sospiro, lieve, soffocato, pentito. Ma sempre in silenzio. Era Miss Pony a chiederle cosa leggeva di bello, e allora lei alzava gli occhi, e dentro di essi c’era annidato un miracolo. Amore. Allora, ne parlava, leggeva loro gli articoli, le interviste, e insieme le commentavano. Poi, abbassava di nuovo le palpebre, e tornava da sola col suo segreto incantesimo.
La sera prima, invece, nel raccontare loro di Albert e della sua dolce offerta, non è accaduto lo stesso prodigio. Era lieta, si, ma senza la stessa sottile magia di allora.
Suor Maria ha confidato quel pensiero a Miss Pony, e la sua buona amica le ha risposto con soavità: “Fidiamoci di Candy, farà la cosa giusta”.
Così, mentre le tiene una mano sulla spalla, Suor Maria dice una silenziosa preghiera per la sua dolce figlia maggiore.
Candy, intanto, passa una mano sul vetro per tentare vanamente di disappannarlo. E’ inquieta, in quel momento, perché Albert non è arrivato il giorno prima e non le ha nemmeno scritto. Vuole che torni, vuole dirgli ciò che ha pensato. Vuole chiedergli di sposarla al più presto. Spera che quella richiesta non la faccia apparire sfrontata ai suoi occhi, ma desidera anticipare il più possibile il momento della loro unione consacrata. Accelerare i tempi, sentirsi migliore con lui accanto. Obbligarsi ancora di più a dimenticare, tallonare la felicità e impossessarsene con la forza. Quando lui è presente lei è più forte. Quando il suo sguardo l’attraversa, si sente capace di combattere qualsiasi battaglia, anche quella contro i ricordi più penosi.
In quel momento, Mina salta su, e comincia a raspare il portone con una zampa. Scodinzola chiassosamente ed emette qualche affettuoso uggiolio. Dopo qualche istante, un ticchettio alla porta annuncia un visitatore ben accetto. Candy sorride, spera che sia Albert. Si precipita al portone, scavalcando il corpo possente della buona Mina che mugola quasi come un gatto.
Dietro l’uscio, avvolta in una mantella inzuppata, c’è Cora, la giovane figlia del postino. Qualche volta, quando suo padre era indisposto, è capitato che fosse lei a sobbarcarsi l’arrampicata fino alla cima della collina per portare a destinazione la corrispondenza. E’ una ragazza gioviale, biondissima, coi lineamenti aggraziati. Per lei, che ha sempre condotto una vita tranquilla e il posto più lontano che ha mai raggiunto è stato il lago, che ha studiato e letto di paesi lontani ma non si è mai allontanata da quella valle, Candy è una specie di piccolo mito in carne ed ossa. Nell’ultimo anno son diventate buone amiche, e Cora si è perfino fatta i ricci con un arnese speciale che ha comprato per corrispondenza. Cora pende dalle labbra di Candy, ascolta i suoi racconti, le sue avventure passate, ed è salita fin lassù, in un pomeriggio di tempesta, per portarle un telegramma urgente.
Viene fatta entrare in casa insieme a una cascata d’acqua. Mina scodinzola forsennata, Klin e Puppy saltano giù dalla finestra per un girotondo. I bambini son contenti di avere un diversivo, e la circondano ridendo e divertendosi per il suo aspetto da pulcino fradicio.
“Ho pensato che fosse importante” dice sorridendo, mentre si libera della mantella e del cappello “Mio padre non se la sentiva, così mi sono armata di coraggio io. Ammetto però che quando sono partita, ancora c’era solo una leggera pioggerella, altrimenti non so davvero se mi sarei arrischiata a tanto…”
Suor Maria si prende cura di lei, Miss Pony le prepara un punch col miele, Mina gioca a tirarle i lacci delle scarpe che grondano fiumiciattoli di pioggia, i bambini la strattonano qui e lì con gaiezza. Candy prende il telegramma che Cora le porge, è indirizzato a lei. E’ di Albert. Ha un testo strano, lapidario e un tantino allarmante. Mentre Candy lo legge si sente il cuore in gola.
Candy, tieni sotto controllo i dintorni della collina, evita che qualche sconosciuto si avvicini alla casa, se è necessario chiama lo sceriffo Elder dal villaggio. Un impegno improvviso mi ha tenuto fuori per un giorno in più, ma sarò lì al più presto possibile. Intanto, ti prego, sii molto prudente. Con tutto il mio amore, Albert
Candy rilegge quelle righe, ma non capisce. Aggrotta la fronte, poi piega il foglio in una tasca. Sta per chiudere la porta, lasciata aperta dopo l’arrivo gocciolante di Cora, ma ha un sussulto.
C’è un uomo sotto l’arco d’ingresso. La pioggia lo frusta con forza particolarmente scortese. E’ un tipo basso e atticciato, ha con sé una grossa valigia. C’è da chiedersi come abbia fatto a portarla fin lassù. A Candy non piace, non piace affatto. Memore del telegramma di Albert, sta quasi per sbattergli la porta davanti al viso, per quanto nessuno sia mai stato trattato senza rispetto in quella casa e le regole che ha imparato fin da piccola impongano la cordialità nei confronti dei pellegrini, ma l’uomo sussurra tremebondo:
“Non vige più l’uso di dare ospitalità ai viandanti?”

continua....

Edited by Odyssea - 9/7/2006, 11:18
 
Top
Odyssea
view post Posted on 8/7/2006, 15:21     +1   -1




"Candy arretra di un passo, è come se da quell’uomo emanasse una forza bruta e sgradevole. Non sa perché, ma si sente allarmata. Improvvisamente le piomba addosso, travolgente come la pioggia, la sensazione di una catastrofe. Si sente come se fosse sospesa a un fragile spago sollevato fra i tetti di due case alte, e lei ci cammina sopra, in bilico, tenendo le braccia stese per trovare un equilibrio. Non sa per quale motivo quell’immagine di sé si affaccia, irragionevole e un po’ demenziale, davanti ai suoi occhi, perché l’ingresso dello sconosciuto nella casa fa balenare un simile rapido film nel suo cervello. Eppure, ecco, appena le galosce gocciolanti dell’uomo strusciano sul pavimento di legno, lei vede se stessa su quel filo, sotto un cielo grigio cenere. Va avanti a passetti, ma non è un’acrobata, il rischio che cada è in eterno agguato.
Poi, l’immagine sparisce, e Candy si concentra solo sull’uomo. All’apparenza non c’è nulla di preoccupante in lui, ma Candy non è mai stata una sostenitrice della fisiognomica. Non è dall’aspetto di chicchessia che è possibile dedurre il carattere o, perfino, le intenzioni. Però, quell’ometto basso, che sorride in un modo esagerato, come se il fatto di essere zuppo e forse smarrito fra quelle valli non lo turbasse in alcun modo, ha qualcosa di strano, qualcosa di sgarbatamente determinato. Entra senza chiedere troppi permessi, e si guarda intorno con due occhi chiari e affamati. Non di pane, ma di cose. Affamati di curiosità.
“Bel posticino” esclama sorridendo “Un po’ difficile da raggiungere ma alquanto pittoresco. Sembra di stare dentro una fiaba dei fratelli Grimm. Vediamo un po’ quale? Cenerentola, forse? O magari Raperonzolo?”
Mina non è tranquilla, non è festosa come quando ha accolto l’arrivo di Cora. Se ne sta tesa, qualche metro indietro, con le zampe rigide come pilastri di granito e la coda in alto, una coda-sciabola che non si muove, sta semplicemente irta in quella posa. Un lieve ringhio, ancora abbozzato ma in rapido crescendo, proviene dalla sua gola.
L’uomo se ne accorge, e ha un attimo di fastidio.
“Può dire al suo cane di stare tranquillo? Non ho cattive intenzioni”
Candy risponde “va bene” ma non fa alcun cenno, non pronuncia alcuna parola per indurre Mina a placarsi.
Nessuno, ancora, si è accorto di quella visita, tranne la solerte Mina. Tutti sono nella stanza accanto, a giocare con Cora e aiutarla ad asciugarsi un poco. Candy sente il telegramma di Albert nella tasca, lo sente come se pulsasse.
“Sono un documentarista” continua l’uomo “Immortalo questi posti ameni. Non è che potrei fare una fotografia anche agli interni di questa suggestiva dimora?”
“No” è la risposta secca di Candy.
Non pago di quel rifiuto deciso, l’uomo posa a terra la sua voluminosa sacca, creando una pozzanghera d’acqua. Ne tira fuori una macchina robusta, ingombrante, che da sola sembra pesare quanto lui.
“Senta, non vorrei sembrarle scortese, ma mi pare proprio che la pioggia stia per diminuire. Dunque, rimanga pure qui fino ad allora, a ripararsi, ma poi vada”
L’uomo annuisce con apparente condiscendenza.
Candy non ha mai creato alcuna distanza col suo prossimo. E’ sempre stata aperta a tutti, l’esatto opposto della diffidenza e dell’oscurità. Non sono mancate le situazioni spiacevoli nelle quali si è tuffata a capofitto, solo a causa della sua totale carenza di sfiducia nei confronti di un altro essere umano. Non può negare che, a volte, abbia vissuto in modo imprudente, ma alla fine la sua fede nella bontà dell’animo umano l’ha sempre ripagata. L’essere orfana, e destinata eternamente a quella taccia pronunciata dal mondo come un’accusa immorale, non l’ha mai fatta sentire inferiore a nessuno, e non le ha mai impedito di stare bene con se stessa e quindi con tutti gli altri. Non ha mai provato sentimenti ostili per nessuno, nemmeno per Iriza e Neal, che pure l’hanno sempre usata come capro espiatorio dei loro capricci.
Tuttavia, in quel momento, si sente a disagio. Desidera solo che la pioggia finisca di scendere e che quell’uomo vada via. Se solo potesse andare sull’uscio a fare due sberleffi al cielo…..
In quel momento, l’uomo, che non sembra affatto un tipo da troppi convenevoli, dopo qualche istante di silenzio in cui sembra inseguire chissà quale pensiero, esclama:
“E’ lei la signorina Candy?”
“Eh?” Candy sobbalza, mentre Mina ringhia più forte.
“Potrei farle qualche domanda?” insiste lo sconosciuto.
“Ma di che sta parlando?”
“Niente di grave, solo qualche domandina veloce sul suo passato. Per esempio, cosa ne pensa dell’istituzione scolastica inglese?”
Candy non capisce, sebbene sia una persona perspicace, quell’uomo circumnaviga l’argomento in un modo abbastanza abile.
“Ha studiato a Londra, no? In una scuola piuttosto costosa mi pare.. Non sembra in grado di potersi permettere una simile retta…”
“Chi è lei? Cosa vuole davvero?”
Mina si fa avanti, ed è la prima volta che Candy la vede così, coi denti scoperti. Non sembra nemmeno più il solito cagnone giocoso, fa quasi paura.
“E’ stato lì che ha conosciuto il signor Grandchester?”
Quell’ultima domanda fluttua nell’aria come un fumetto. Poi, si trasforma in baionetta, così, come per crudele magia, e attraversa il petto di Candy all’altezza del cuore. Ne sente la punta metallica conficcata fra le costole, per un istante le riesce difficile respirare e ha la sensazione che, se si portasse le mani al petto, ammesso che riuscisse a muoversi da quella specie di improvvisa catatonia, se le ritroverebbe sporche di sangue vero. Poi, dentro di lei, qualcosa reagisce, qualcosa si erge.
“Ha quasi smesso di piovere, vada via” dice, e ha uno sguardo fermo da guerriera.
“E’ vero che avete iniziato allora una relazione immorale, che si trascina ancora adesso, impedendogli di contrarre una promessa matrimoniale con la signorina Marlowe?”
“Non so chi sia lei, anche se posso intuirlo a questo punto “ continua Candy, e non è mai stata così aspra, così sbrigativa. Non sembra neppure la sua voce quella “La smetta con queste disgustose domande e se ne vada immediatamente!”
Ma il giornalista non demorde.
“La gente sarà colpita dal fatto che una giovinetta allevata da una suora e che ha studiato in un istituto cattolico, possa essere a tal punto priva di senso morale! Farsi espellere da un istituto religioso per aver imbastito un intrigo amoroso con un giovanotto di buona famiglia! Mi chiedo se da parte sua, cara signorina, non fosse un tentativo di elevarsi socialmente..Ma forse no, voglio darle credito. Forse è stato solo quel corruttore d’un Terence a sedurla? Mi dica, ancora perdura questa illecita relazione? Non v’è dubbio, si tratta di un giovanotto senza alcuna virtù, è un attore mediocre e un uomo di dubbia onestà che….”
Candy non sa bene cosa accade, sa solo che sente il suo corpo andare avanti, ancora più rapido di quello di Mina che pure balza nella medesima direzione. E un istante dopo vede il suo pugno diritto diritto sulla faccia dell’uomo, e l’altra mano, rapida, che lo spinge verso l’uscita. Il giornalista barcolla all’indietro, oltrepassa la soglia come un gambero.
Accidenti, in pochi giorni ha rimediato un discreto bagaglio di percosse! Prima quel Grandchester, e adesso questa bambolina col pugno di ferro! Certo che gli ha fatto male, eppure non sembrava che potesse arrivare a tanto! L’ha spiata per giorni, nascosto dietro le siepi, a una certa distanza. Ha scattato pure qualche fotografia. Carina, molto carina. Un tesoretto di fanciulla. Beh, era preparato a una reazione così inurbana, anzi ne è ben contento. Lui ci campa sulle rappresaglie dei suoi riluttanti intervistati. E sa come provocare, sa cosa dire perché perfino il carattere più amabile si arrenda e sputi fuori il suo lato bellicoso. Non c’è dubbio, la ragazzina conosce Terence, e a sentir pronunciare il suo nome si è turbata in un modo eloquente. Dubita davvero che la tresca fra i due vada avanti, ammesso che ce ne sia mai stata una, ma lui della verità se ne fa un baffo. L’importante è raccontare al pubblico cose verosimili. L’importante è che alcuni dati siano reali, e lo sono eccome. E’ vero, ne ha le prove, che hanno studiato insieme in Inghilterra. E’ vero che tra loro c’era una relazione affettuosa. E’ vero che la signorina Candy era presente in ospedale quando Susanna Marlowe era ricoverata dopo l’incidente. Che le abbia salvato la vita, come hanno riferito alcuni infermieri presenti allora sul luogo del fatto, conta ben poco, avrebbe anche potuto tentare di ucciderla, no? Ed è quello che lui racconterà nell’articolone che ha in mente di scrivere. Amore illecito tra l'erede del Duca di Grandchester, figlio dell’attrice Eleanor Baker e anch’esso attore acclamato, e una giovane orfana di oscura discendenza. Amore illecito nato fra le mura di un istituto religioso, condotto avanti con peccaminosa intraprendenza. Chi ha sedotto chi? Chi ha iniziato questo turpe legame? Il giovane attore, ribelle per carattere, indomito, in eterno contrasto con la famiglia di appartenenza, o la ragazza, che già, nel suo passato, aveva tentato di insidiare altri giovani agiati? Questo vincolo immondo ucciderà la fragile e disgraziata Susanna Marlowe, che vive sulla sua triste sedia a rotelle, dopo aver salvato la vita all’ingrato giovane? E’ lecito che egli non la sposi, dopo averle rubato il futuro? Che esempio viene dato alle masse se si permette a un personaggio pubblico di convivere con una donna senza vincoli nuziali, intrattenendo allo stesso tempo un amorazzo con un’altra? Infine, la giovane Candy, ha attentato per caso alla vita della sua rivale?
Si, ha già l’articolo, lo sta creando da settimane, è uno zibaldone di succulente dicerie, ma sarà un successo. Terence Grandchester è una delle persone più famose a amate, ultimamente, e la gente divorerà tutto ciò che lo riguarda. La cosa buffa è che il giornalista non ha niente contro nessuno di loro, a dirla tutta la signorina Marlowe gli è perfino antipatica. Quando l’ha incontrata l’ultima volta, prima di partire per quell’ignoto villaggio, lo ha redarguito aspramente, perché ha travalicato i limiti del loro accordo. Ma se non l'avesse fatto che giornalista sarebbe? Se non prova a saltare, resta un mediocre come tanti. Ma lui vuole il successo, vuole i quattrini, vuole che i suoi servizi siano pagati a peso d’oro. Anche a costo di beccarsi qualche cazzotto e qualche denuncia. Tanto, in quel caso, la scamperebbe. Non ha inventato nulla, i fatti di partenza son tutti veri. Li ha solo interpretati liberamente usando una contorta immaginazione. E passi per un naso rotto o una mascella contusa. Anzi, ne allegherà le fotografie all’articolo per dare colore.
Intanto, però, si ritrova a terra, in mezzo all’erba bagnata, davanti alla Casa di Pony. Candy lo ha spinto con tutta la forza, e ne ha di energia anche se sembra esile. Quando si tratta di difendere qualcosa di giusto, Candy diventa un leone. Le fischiano le orecchie, non sente più né il rumore della pioggia né le voci dei bambini. Sente solo il proprio sangue che le scorre nel corpo come un vento selvaggio.
“Vada via” gli ripete, guardandolo con disprezzo.
Mina abbaia fortissimo adesso. Miss Pony, Suor Maria e tutti gli altri non possono non sentirla, e si precipitano fuori allarmati.
Il giornalista si alza, senza smettere di sorridere come un demente, o forse, come uno che non è demente affatto, e già pregusta il sapore di un cibo costoso, che fino a quel momento non si è potuto permettere. Afferra la macchina fotografica, e la rimette dentro la sacca. La inforca, mentre memorizza la posa di quello strano gruppetto assortito che lo fissa. Una suora, una donna anziana e grassoccia, una ragazza inzuppata, un nugolo di bambini. Due strane bestiole pelose, sembrano topi, che lo scrutano fremendo. Poi scattano, e il topo bianco gli assalta la testa, e ha certe unghiette aguzze che gli lasciano il segno nella pelle. L’uomo cerca di disfarsene, ma Klin è coriaceo. Beh, potrà sempre dire che è stata la ragazza a ferirlo quando l’ha supplicata di smetterla con quella relazione destinata a dare un pessimo esempio ai giovani virgulti della buona società. Intanto, Puppy, con un’aria placida da gran dama, gli si avvicina, adottando una tattica meno aggressiva. Fra lei e Klin intercorre un rapido scambio di sguardi, le loro pupille tonde si dicono qualcosa di silenzioso, nel linguaggio muto degli amici. Il candido orsetto con la maschera su un occhio salta sull’erba, ed è come se sghignazzasse. Allora, quando è a meno di un metro dall’uomo che già spera di essere salvo, la puzzola solleva la folta coda a forma di punto interrogativo, e gli spara addosso una zaffata di fetido olezzo. L’uomo tossisce, soffoca, e non si rende conto dell’esatto momento in cui Mina gli è addosso. Ne sente soltanto il peso sul petto. Il cane non fa niente più che abbaiargli davanti alla faccia, facendogli grondare sul viso una colata di saliva. Il giornalista la sente che scivola, dal muso del cane, che schizza come una putrida pioggia, e per poco non vomita. Mina abbaia e, ad ogni scattoso latrato, dal suo labbro inferiore la bava cade, crolla, con tonfi come di fango, sulle guance e sul collo del giornalista prigioniero.
Poi Candy la richiama, e Mina si stacca da quell’abbraccio aggressivo.
“Vada via” ripete all’uomo, mentre quello si rialza col viso contratto in un’espressione stomacata.
Ha smesso di piovere ormai, il cielo si apre pian piano. L’uomo è in piedi e, francamente, comincia ad essere stanco. Spera che quella piccola battaglia sia finita, ma non sa ancora quanto si sbaglia. Subito, sente qualcuno che lo afferra dalle spalle.
Candy sussulta, mentre scorge lo sceriffo Elder che appare oltre la gobba della collina. Dietro di lui, Albert, affannato e fremente. Intravede anche la sua automobile, ferma dove finisce il sentiero, con George al posto di guida. Lo sceriffo è uomo imponente, basta una sua mano sulle spalle del giornalista per impedirgli di muoversi. Gli dice qualcosa, ma Candy non ascolta, ha ancora un fiume di sangue nelle orecchie. Vede soltanto le scene che avvengono dinanzi ai suoi occhi, ma non sente altro che il battito del proprio cuore. TUTUM TUTUM TUTUM. Vede i gesti, concitati e seri, ma le sfuggono le parole. Albert afferra la sacca dell’uomo, ne tira fuori l’ingombrante apparecchio per le fotografie. Il giornalista tenta di riappropriarsene, ma Albert scuote le testa, gli lancia un’occhiata severa, e passa la macchina a George, sceso dall’auto con un salto lesto. Lo sceriffo stringe da dietro il collo del giornalista, non gli fa molto male, semplicemente lo tiene a bada. Poi, si allontanano insieme giù per il pendio, mentre il prigioniero recalcitra e minaccia chissà quali ritorsioni. Albert dice qualcosa a George, ma ancora Candy non sente, ancora è come se fosse sorda, o come se il mondo intorno si muovesse in un silenzio ovattato, e l’unica colonna sonora, l’unico accompagnamento possibile, è quello del proprio corpo che grida da dentro, del proprio sangue che stride, del proprio cuore che salta.
Cosa accade? Perché quell’uomo mi ha parlato di Terence? Cosa accade?
Ecco, in quella concitazione di eventi rivede ancora se stessa sul filo. Dondola, camminare su una cordicella sospesa senza cadere non è facile. Allarga le braccia, cerca disperatamente una posa che la faccia restare in alto senza precipitare nel vuoto. E’ brava a gestire la vertigine, è brava a coordinare i movimenti. Ma poi, sul più bello, quando sembra arrivata alla fine, quando il palazzo di fronte, alto, forte, sicuro, si avvicina a tal punto da poter sperare di raggiungerlo senza essere morta, qualcosa la urta. Qualcuno fa un nome nel vuoto, e Candy barcolla. Annaspa, mette un piede in fallo, sguscia, e resta aggrappata al filo da un braccio, dondolando verso un profondo abisso.
Cado, adesso cado…Credevo di essere diventata abile, di essere al sicuro, e poi basta un soffio di vento che perdo la presa.
Poi i suoni tornano. Sente le lacrime dei bambini, il rumore delle nuvole che si allontanano. Le voci allibite di Suor Maria e Miss Pony, Mina che abbaia ancora, verso il vuoto, verso un nuovo nemico invisibile. Klin e Puppy le vanno dietro, scivolando sull’erba bagnata come su una pista di burro.
Candy ha freddo, ma in quel momento le braccia di Albert la stringono. Appoggia la fronte sul suo petto, si rintana come una rondine.
“E’ tutto a posto” le sussurra lui dolcemente.
Candy non chiede nulla, resta così, silenziosa, confusa, ancora appesa a quel filo da un solo braccio. Albert le porge una mano, la tira su, ora è di nuovo salva, fino alla prossima volta è salva….
Resta con me, non andartene, finché ci sei tu non cado…
Intanto, a molti metri di distanza, ma non abbastanza da non avere un quadro preciso di ciò che accade, c’è qualcuno. Il tronco di un albero lo nasconde agli occhi degli altri. Un mantello blu cupo ondeggia nel vento, umido della recente pioggia. Una mano sul tronco, scorticata sulle nocche. Gocce di sangue fra le dita e sulla corteccia percossa da un pugno. Un alone di lacrime negli occhi color zaffiro infuocato.
Terence sa che non dovrebbe essere lì, è l’ultimo posto al mondo che avrebbe dovuto raggiungere. Ma non ha resistito. Poggia la schiena sul tronco, e si lascia scivolare giù, sull’erba rorida. Fissa il suolo, si tiene la fronte fra le mani. Ha il fiatone, ma non per la corsa. Si morde la bocca con un accanimento assassino, e ancora ripensa a ciò che ha visto.
Albert la farà felice, è un uomo perfetto. Io sono solo un’ombra ormai.
Ripensa a quell’abbraccio confidenziale che si è appena consumato sotto i suoi occhi. Al modo con cui Candy si è abbandonata, come se nient’altro al mondo potesse farla sentire altrettanto sicura.
Stanno bene insieme, non credi?
Una risatina di gola gli interrompe i sospiri. Una risatina un po’ isterica, incontrollata. Lo sa che stanno bene insieme, ed è certo che siano una coppia meglio assortita di un milione di altre. La farà felice, lei se lo merita.
E allora, perché sono così disperato, così tremendamente geloso?Se voglio la sua felicità, perché mi uccide il fatto che sia felice? Sono un maledetto egoista. Non c’è niente in cui Albert non mi batta. Non c’è niente che non dovrei imparare da lui. Io sono solo un’ombra ormai.
In quell’attimo, Mina, Klin e Puppy lo raggiungono, senza che nessuno, ai piedi della collina, si accorga di quella piccola fuga di gruppo. Klin, emettendo rapidi versetti di gioia, gli balza sul petto, e simula con le zampine un abbraccio. Si ricorda bene di lui, si sono arrampicati spesso insieme sugli alberi. Puppy esprime una contentezza meno chiassosa, dopotutto è una signora, ma gli si accosta a una gamba e si accoccola come una lucertolina nel sole. Mina non sa chi sia quel giovanotto che se ne sta nascosto, non l’ha mai visto, ma non fiuta alcun pericolo. Lo annusa, con la coda che spazzola allegra il vento. Poi decide che le è simpatico, e si rotola nell’erba per allietarlo con qualche moina, visto che appare così triste.
Terence sorride amaramente, si stropiccia la fronte con le dita.
“Non dite che mi avete visto” mormora, accarezzando il vello morbido di Klin.
Poi si alza in piedi e va via, in segreto, così com’è arrivato. Man mano che si allontana ripensa a ciò che è accaduto solo la sera prima, e ripensandoci muore ancora una volta. Muto, abbattuto, si porta dietro il suo cuore trasformato in sasso, e scompare"

continua......






Edited by Odyssea - 9/7/2006, 20:31
 
Top
Odyssea
view post Posted on 10/7/2006, 18:21     +1   -1




La sera prima
Central Park, poco prima del tramonto, ha qualcosa di intensamente suggestivo. Il grande polmone verde della città, realizzato allo scopo di donare una zona naturale ad una metropoli sempre più gigantesca, quando il sole si inchina si riempie di luce color ocra. L’aria è fresca, all’ombra degli alberi è addirittura raggelante. Le famiglie cominciano ad andar via, sebbene l’ora di chiusura sia ancora un po’ lontana, le signore in crinolina si allontanano con passo sinuoso, i bambini saltellano inseguendo una palla, gli uomini si lisciano i baffi conversando fra loro di ciò che accade nel mondo. Nulla di buono, in verità. La guerra incombe come una mannaia, ma se fino a poco tempo prima era solo uno spauracchio lontano, una carneficina combattuta soprattutto dai soldati degli altri e su un altro terreno, adesso fa paura davvero e suscita molto più che un pizzico di compassione o un’ondata di raccapriccio durante una chiacchierata qualsiasi. Se, come si paventa da più parti, gli Stati Uniti entreranno ufficialmente a far parte del conflitto, i giovani che andranno a morire non saranno soltanto i loro, ma anche i nostri. Un conto è un certo numero di soldati, giudicati eroici o incoscienti a secondo dei punti di vista, che decidono volontariamente di immolarsi, un conto è un arruolamento forzoso, che mieterà vittime su ben più larga scala, anche fra coloro che non sono né eroi né incoscienti. Gli strilloni, agli angoli delle strade, sembrano annunciatori di sventura. L’atmosfera è cupa, satura di cattivi presagi.
Intanto, all’interno del parco, seduto su una fredda panchina in un angolo tranquillo, Albert si guarda intorno con trepidazione. Lì accanto scorre un ruscello incanalato tra due sponde artificiali che sembrano scavate dalla natura, sormontato da un ponte di pietra bianca a forma di mezzaluna. Il cielo è color arancio, e appare immensamente distante. Albert lo fissa, e si accorge che le gambe gli tremano, in modo involontario, senza che riesca a controllarne il ritmo. Anche se si ferma, basta un istante perché tornino a fremere.
E’ nervoso, e non può negarlo. Continua a guardarsi intorno come se cercasse qualcosa. Tiene le mani in tasca, poi le tira fuori, poi guarda il cielo, e infine ancora intorno a sé, soffermandosi sulle facce delle persone che transitano.
A un tratto, un uomo gli si siede accanto. E’ infagottato come se fosse pieno inverno, cappello calato sugli occhi, un lembo del mantello intorno alla bocca. Adagia la schiena alla panchina, e un po’ scivola in avanti, in una posa dall’apparenza disinvolta. Albert lo sbircia un po’ di sbieco, ma guarda soprattutto avanti a sé. Chi passasse in quell’attimo e gettasse uno sguardo precipitoso a quegli uomini seduti, giurerebbe che nessuno dei due gli sia noto e che, d’altro canto, i due tizi non sembrano conoscersi nemmeno.
In realtà si conoscono eccome. Albert si stropiccia le mani, come se avesse freddo. Poi mormora con gentilezza:
“Sei così ben mimetizzato che non so nemmeno se sei tu”
L’altro annuisce e solleva per un istante la tesa del cappello. Due occhi cupi sgattaiolano dietro le frange, occhi per nulla ridenti, al punto che Albert ha un attimo di trasalimento. Certo, sapeva che non si sarebbe imbattuto in un campione di allegrezza, dopotutto Terence è sempre stato incline, anche nei bei momenti, a una certa inquietudine. Ha quello che qualcuno definirebbe “un carattere da artista”, così come immaginano che siano gli artisti coloro che non hanno dentro alcun fuoco sacro, cioè degli insoddisfatti cronici. Ma Albert sa che si tratta soltanto di un ragazzo disabituato dalla vita alla felicità. Quelli sono occhi che non dormono bene da un millennio, e che pensano troppo. Lo sconcerto di Albert è doppio: perché incontrare dopo molti mesi un amico è già di per sé un fatto capace di dargli un’intensa emozione, e perché conosce l’esatto motivo di quella tetraggine. Terence potrà anche essere bravo a fingere sul palco, ma lì, su quella panchina fredda, la sua anima è nuda e cruda come se fosse scorticata.
“Scusami per il ritardo, ma arrivare qui senza essere riconosciuto è stato abbastanza difficile” dice Terence, continuando a guardare altrove, dappertutto ma non Albert, quasi come se parlasse da solo “Ti trovo bene” aggiunge infine.
In effetti Albert sta bene, chiunque si accorgerebbe che si tratta di un uomo sereno. Forse un po’ meno in quel momento che è nervoso, ma è comunque talmente felice che il buonumore gli avanza e perdura anche in quegli strani attimi.
“Tu, invece, come stai Terry?”
“Una favola” è la sua risposta lapidaria “Piuttosto, volevo anche chiederti scusa perché non ho risposto alle tue lettere. Ne ho ricevute diverse nei mesi passati, ma francamente....”
“Non preoccuparti. Ho capito”
Albert sa che Terence non conosce mezze misure. Cancellare il passato, o almeno tentare di cancellarlo, esclude la possibilità di mantenere rapporti con chiunque, e con qualsiasi cosa, che a quel passato appartenga. Scrivendogli, Albert aveva preventivato un silenzio come risposta, ma lo ha fatto lo stesso, perché la speranza è l’ultima a morire. Purtroppo gli uomini come Terence dimenticano il dolore con difficoltà, perché sono incapaci di desiderare fiduciosamente che qualcosa cambi. Il male gli resta attaccato dentro, e solo un’indole davvero ottimista riuscirebbe a scamparla. Ma un carattere come il suo è portato a non guarire mai, e nemmeno di un poco. Questo è Terence, cocciuto perfino nella disperazione. Albert lo sa, e questa cosa non solo lo preoccupa ma un po’ lo spaventa. Non ha un’idea precisa di cosa Terence debba dirgli, ma solo qualche sospetto. Di certo non lo ha convocato a quell’ora, con un lapidario messaggio, dopo mesi di silenzio, solo per scusarsi di non aver risposto alle sue passate missive.
Terence emette un respiro che, in quel tardo pomeriggio primaverile ma ancora freddo, diventa denso come vapore. Poi dice:
“Avrei preferito sbrigarmela da solo, credimi, ma essere un personaggio piuttosto noto impedisce le cose più elementari. Figurarsi quando si tratta di andare in cerca di un balordo cui spezzerei volentieri le gambe. D’altronde non mi fido di nessun altro, così ho pensato a te”
Albert fa un sorrisetto divertito.
“Dovrei andare a spezzare le gambe a qualcuno al posto tuo?” esclama.
“Ne saresti assolutamente in grado, sei forte e tiri pugni decenti, nonostante la tua tendenza a preferire la diplomazia, a differenza di me. Comunque, devi semplicemente cercarlo, visto che sembra sparito nel nulla e al suo giornale non sanno, o fingono di non sapere, dove diamine sia andato a finire. Sono diversi giorni che impazzisco nel tentativo di rintracciarlo….”
“Cosa ti ha fatto questo tizio?”
“Sta cercando Candy”
Stavolta Terence guarda Albert negli occhi, mentre quest’ultimo ha un ciclopico sussulto.
“Cosa?”
“Si tratta di un giornalista da quattro soldi, che ha deciso di imbastire uno scandalo su di me. Ha indagato sul mio passato, e ne è venuta fuori anche Candy. Temo voglia rintracciarla per farle qualcuna di quelle disgustose domande che un mezza manica senza senso del limite può fare a una donna. Ne verrà fuori un articolo spazzatura, in cui io, nel migliore dei casi, risulterò essere una specie di bastardo approfittatore di donzelle in pericolo, e Candy…non so cosa potrà inventarsi su di lei ma…qualsiasi cosa sia….penso sia il caso di impedirlo”
Così, gli riferisce il nome del giornalista, quello stesso nome che Susanna gli ha rivelato dopo una serata di battibecchi. Era restia a parlarne, e questo non gli è piaciuto. Ha finto di non ricordarsene, ma era evidente che mentiva.
Albert è visibilmente sconvolto. Gli pone delle domande, discutono della questione con la razionalità necessaria a capirci qualcosa e opporre le giuste contromisure. Terence gli racconta dell’insulsa pseudo-intervista nel camerino. Albert lo ascolta con attenzione. Poi, Terence tace, e si piega in avanti, coi gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate davanti alla bocca. Intorno, nel parco, c’è sempre meno gente e sempre meno sole.
“Lei…come… sta?” gli domanda a un tratto, cadenzando bene le parole, come se facesse fatica a pronunciarle. Si volta, e guarda Albert di nuovo, diritto negli occhi.
“Piuttosto bene”
“Sicuro?”
“Si… Lo sai com’è fatta. Candy è una roccia”
“Già...”
“Tu, invece, sembri….”
“Consumato?”
“Si, direi di si”
“Io...ero sicuro che…che lei ce l’avrebbe fatta…” mormora “Ne sono felice”
Non sembra affatto felice, invece, sembra quasi morto. Ha il volto pallidissimo e le labbra, che affiorano dal mantello, sono livide.
“E’ merito tuo, ovviamente” aggiunge, dopo qualche minuto di silenzio.
Albert vorrebbe dirgli che anche Candy, in certi momenti, ha il suo stesso sguardo smarrito. Che ci sono stati giorni in cui ha temuto davvero di perderla. Che non conta solo il coraggio. Che Candy è circondata da un mare d’amore, ed è più facile, così, tornare a galla. Che Terence invece, sempre solo e sempre arricciato come una foglia secca su se stessa, non può guarire perché non vuole guarire.
Terence potrebbe rispondergli, se gli parlasse in quei termini, che guarire dalla sofferenza non è sempre una questione di buona volontà. Che ci sono dolori che, semplicemente, non passano. Che puoi solo imparare a gestire meglio la sopravvivenza, ma a vivere appieno non riuscirai mai più. Che un maledetto tarlo vorace ti roderà per sempre i calcagni. Che quando sai, e sai con una certezza assoluta che rasenta il prodigio, che non c’è un’altra persona giusta per te come quella che non è più con te, che lei è l’unica con la quale ti sentivi libero, l’unica per la quale la tua anima ha imparato a fare capriole che ti vergogneresti a raccontare, non puoi che sentirti dimezzato fino alla morte.
Comunque, non si dicono nulla al riguardo, perché ciascuno sa quanto è minato quel terreno. E se è vero che sono amici, è anche vero che in certi casi non lo si è abbastanza.
Terence sta ancora fissando Albert negli occhi, è come se una sensazione di allarme lo inducesse a cercare qualcosa che non sa ma che, forse, comincia a capire. Albert gli nasconde deliberatamente un segreto, ma non per crudeltà. Lo vuole preservare…da cosa?
Poi, un lampo, un fulmine nel cervello. Pezzi confusi che si uniscono e formano una scena distinta. Albert, sempre con lei a consolarla da amico esemplare. Albert così solare, così forte. Può essere facile aggrapparsi quando si cade.
Terence stringe i pugni sotto il mantello. Le labbra gli si piegano in un sorriso amarissimo che si sforza di essere garbato. Ha il cuore fermo, paralizzato.
“Tu sei innamorato di lei” dice. Non è una domanda, è una certezza.
“Si” risponde Albert, e benché sia orgoglioso di ciò che prova, non può non sentirsi imbarazzato. Non vuole infliggere a Terence un’altra pena. E’ già abbastanza corroso così. Ma, d’altro canto, non vorrebbe nemmeno che lo sapesse per qualche altra via….
“La sposerai, vero?”
“Si”
Terence deglutisce. E’ come se mandasse giù un grumo di fiele e aghi. Il cuore torna a battere e, accidenti, dopo quel momento di paresi, corre come un matto. Candy e Albert…avrebbe dovuto prevederlo…E forse, chissà, lo aveva previsto davvero, ma si era rifiutato di pensarci per più di un istante.
Candy è guarita, è felice, e sposerà Albert.
Così, coraggiosamente, allunga un braccio e gli stringe la mano.
“Beh…perfetto…cioè…io me lo aspettavo e…” deglutisce di nuovo e tace.
“Se vuoi prendermi a calci fallo pure” mormora Albert con voce sincera. Sa che Terence vuole che Candy stia bene, ma anche lui è un uomo, e certe cose le capisce.
“Oh..no..io..sono felice per voi….”
Quando una persona dice che è felice per qualcun altro, è come se ammettesse che non è felice affatto. Se sei davvero felice per qualcuno che ami, sei felice per te stesso. La felicità è tua anche se non è tua, è come se ti appartenesse. Dichiararsi felici per riflesso significa che, quanto meno, non lo si è abbastanza. Ma a Terence, in quel momento, non viene un’espressione più opportuna.
“Beh..allora..congratulazioni…” continua. E’ nervoso, adesso, parla a raffica “E’ la cosa migliore, anche per me! Insomma, in questo modo potrò finalmente smetterla di sperare! E se elimino quella maledetta speranza, allora vorrà dire che dovrò rimboccarmi le maniche sul serio e venirne fuori! Mi sa che è un ottimo punto di partenza…..” si zittisce all’improvviso, sembra quasi che gli abbiano interrotto la carica. Si alza in piedi e si sistema meglio il cappello.
“Tu e Susanna…voi….” osa Albert.
“E’ molto più probabile che incontri un’altra Candy uscendo dal parco, oggi stesso, fra cinque minuti esatti, uguale a lei, perfino le stesse lentiggini sul naso, piuttosto che mi innamori di Susanna” dice, secco, come se volesse liberarsi da quel sospetto “ Piuttosto, ti prego, indaga su quel giornalista e sulle sue intenzioni. Io ci ho provato, ma avrei fatto più danno che altro. Avrei alimentato le assurde idee di quell’omuncolo e molto probabilmente lo avrei ammazzato. Trovalo, ne hai i mezzi. E impedisci che la disturbi. A maggior ragione adesso, che il passato per lei è solo un’ombra. No, non trasalire, non lo dico con sarcasmo, credimi. E’ semplicemente una constatazione. Addio Albert, rendila felice, altrimenti quei calci che ti ho risparmiato prima te li darò dopo con gli interessi”
Così, dopo un’altra stretta di mano, Terence va via. Raggiunge l’uscita, e un po’ barcolla. Ha la mente affollata di cose e, allo stesso tempo, è come se fosse una tabula rasa. Fa freddo, è un gelido Marzo. I lampionai accendono i lumi sulle vie. Molte carrozze e qualche automobile passano nella penombra.
Allora, mentre cammina, ricorda tutto. Tutto.
La prima volta che l’ha incontrata, sul piroscafo. E’ stato come un incantesimo. Un attimo prima stava fissando l’oceano col cuore spezzato. Un attimo dopo rideva. Gli è bastato osservarla per sentirsi pieno di buonumore. Un’altra donna si offenderebbe sapendo che quella volta ha pensato che fosse irrimediabilmente buffa, ma Candy no, il suo broncino sarebbe di breve durata, poi si farebbe una gran risata anche lei. Era graziosa, nel suo abito da sera, col nastro fra i capelli che il vento della notte faceva stormire, e sul viso un’espressione non meno turbata della sua. Lo osservava come si guarderebbe un fantasma. Lui ha avuto paura, paura che si fosse accorta che stava piangendo. Nessuno deve vedermi piangere, nessuno.
Così, aiutato dal suo bizzarro visetto, lentigginoso come se fosse cosparso di coriandoli, ha spezzato la commozione ridendo. E mentre rideva pensava grazie, grazie stramba ragazzina con gli occhi di mare, grazie di avermi portato via dall’inferno almeno per adesso. Allora non sapeva quanto ancora lei lo avrebbe allontanato dagli inferi per una, cento, mille volte.
Ricorda quando l’ha rivista al porto, che salutava i suoi amici senza nessun atteggiamento di stucchevole cerimonia. Gli è parsa come lui, in un certo senso, un’anima libera. Così, ha deciso di seguirla. Vediamo dove vai signorina tuttelentiggini. Ricorda lo scherzo che le ha giocato, e lei che lo fissava senza abbassare gli occhi. Era diversa da tutte le altre ragazze che aveva mai conosciuto. Nessuna malizia nel suo sguardo, eppure nessuna timidezza.
Ricorda la vita al collegio, e sa che non è mai stato tanto fermo in un posto come allora. Aveva voglia di incontrarla, non sapeva ancora che nome dare a quella smania ma sentiva dentro qualcosa di premuroso e insieme temporalesco. Avrebbe potuto dire tutto di se stesso, ma non che fosse un tipo romantico. E invece, per quanto si accanisse a mostrarle la sua parte peggiore giurando che fosse l’unica, cominciava ad essere certo di avere un lato sentimentale. La prendeva in giro, la stuzzicava, la insultava a volte, e lei reagiva con una grinta da frantumare un diamante. E più quella schermaglia andava avanti, più Terence sapeva di essere in balia dell’Amore. Non si era mai sentito così, mai, vulnerabile come un bambino. E geloso. La gelosia gli toglieva il fiato e a tratti lo rendeva cattivo. Non sopportava che lei gli parlasse di Anthony, quando udiva pronunciare quel nome si sentiva calpestato. Terence era sempre stato il secondo nel cuore di chiunque, e che quello schema maledetto tendesse a ripetersi all’infinito lo uccideva. Per un ragazzo vissuto credendosi un eterno avanzo, un figlio abbandonato per la carriera, o sostituito da altri figli più meritevoli, amare, sentire il cuore spolpato da un sentimento assoluto, e vedersi paragonato ancora una volta a un altro migliore o più importante di lui, era un tormento. Vieni sempre dopo, giovanottino. Dopo il teatro, dopo l’onore della famiglia Grandchester, dopo Anthony. Per questo, diventava cattivo, per non far capire quanto non lo fosse affatto e quanto soffrisse. Non sono all’altezza? Bene, allora mi accanirò per dimostrarti quanto hai ragione. Se solo non si fosse fatto sopraffare così brutalmente dall’insicurezza e dalla rabbia, avrebbe visto la verità, e cioè che Candy non aveva mai avuto intenzione di fare un paragone in cui qualcuno risultasse perdente. Semplicemente, aveva provato a confidargli i suoi pensieri, perché si era fidata di lui. Gli aveva aperto il suo cuore, e del suo cuore faceva parte anche quel dramma. Se solo fosse stato più sicuro di se stesso, meno contaminato dalle esperienze del passato, se solo fosse cresciuto con la certezza di meritarsi l’amore degli altri, non si sarebbe sentito inferiore, e non sarebbe diventato cattivo.
Ricorda quando l’ha baciata. Stavano ballando sull’erba. La stringeva a sé e tutti i suoi sensi erano accesi. Sentiva forte il rumore dell’acqua sulla scogliera, il ritmo dolce del suo respiro, e il proprio, soffocato, soffocante. L’odore dei suoi capelli, che il sole rendeva raggianti. Lei, abbandonata, fiduciosa, che si faceva portare come una dama serena. Il tepore del suo palmo nel proprio, sembrava un morbido fazzoletto di seta. E poi, il bisogno straziante di accontentare anche il sapore. Quella bocca tenera come una viola. L’amore gli ha tramortito la prudenza. L’ha guardata, un istante, e non è più riuscito a fermarsi.
Ancora, se chiude gli occhi, torna indietro nel tempo e avverte il tocco ritroso di quei petali color pesca. Certo, ricorda bene anche lo schiaffo col quale lei ha contraccambiato il favore. I suoi occhi infuriati, e di nuovo quel paragone, di nuovo Anthony. Ma stavolta se l’era voluta. Almeno, però, gli aveva fornito un indizio importante e cioè che non era mai stata baciata prima di allora. Quella gradita rivelazione compensava il bruciore dello schiaffo e la collera del rifiuto.
E poi, ricorda un milione di altri momenti. La sua voce che lo chiama, mentre viene trascinata con forza fuori dalle scuderie. La notte trascorsa dinanzi alla prigione del collegio per tenerle compagnia. L’armonica suonata in una struggente ripetizione, come un messaggio, come un grido. Faceva freddo, quella notte, l’autunno era alle porte. Lei era oltre il pesante uscio di legno, nel gelo della cella. Son qui, amore mio, son qui. Non ti lascio, finché posso non ti lascio. La mia anima varca la soglia anche se io non posso. La mia anima dorme accanto a te se vuoi. Se solo fossi più grande
Ricorda quanto tempo son rimasti separati, e per quanto tempo non ha saputo più nulla di lei. Poi, ha scoperto che era tornata in America. E quando sembrava che finalmente il destino avesse deciso di congedare le avversità, ecco che il destino ha tirato fuori l’ultima lama, la più acuminata di tutte. Susanna. Da lì, è stato un lungo rotolare. Cadere su se stesso ripetute volte, farsi male, farsi così male da morirne ma purtroppo non morire. E adesso, scoprire che tutto è perduto, anche la più caparbia e stupida speranza.
Terence cammina lungo le vie di New York nel crepuscolo che avanza. I pensieri lo inseguono implacabili, lo torturano come aguzzini. E’ finita, stavolta è finita davvero. L’ha persa, ed è atroce pensare che l’avrebbe persa comunque. Se anche lui avesse lasciato Susanna, Candy sarebbe rimasta indietro. Troppo crudele infierire su una persona inferma. Troppo crudele essere felici a scapito di qualcuno che non può né combattere con le stesse armi né difendersi.
Eppure, paradossalmente, sebbene la sua anima sia franta in un milione di pezzi, Terence quella sera ha conquistato qualcosa. Ancora non lo sa ma nel suo cuore c’è un inatteso proponimento. Intanto vaga come uno spettro. Intanto vuole rivederla per l’ultima volta, poi si concentrerà su come continuare a vivere, sapendo che Candy è destinata a non essere più sua in un modo ormai definitivo. Sapendo che è diventato un’ombra e lei ha bisogno del sole. Sapendo che, ancora una volta, si è aggiudicato il secondo posto e forse nemmeno quello."

continua....














Edited by Odyssea - 11/7/2006, 10:41
 
Top
Odyssea
view post Posted on 13/7/2006, 19:13     +1   +1   -1




"Neal vacilla come un oggetto in bilico sul bordo di un tavolo. Vede a fatica le cose intorno a sé, e non soltanto perché è buio e in quella zona i lampionai non osano spingersi, e la luna è coperta da una crosta di nubi color ferro, ma perché ha gli occhi talmente pesti che non riesce più ad aprirli. Gonfi e macerati, circondati da un alone di sangue rappreso. Non che tutto il resto del viso stia meglio, o che il corpo si salvi da un lancinante dolore che gli impedisce di respirare. Ha le labbra spaccate, le gote che tendono all’indaco acceso, i capelli sudati e arruffati, e cammina a tentoni tenendosi l’addome e tossendo. Forse ha perfino qualche costola rotta; di sicuro, quando tenta di inalare aria, avverte una trafittura così acuta che preferirebbe rimanere asfissiato. Non ha mai avuto una soglia del dolore particolarmente elevata, ma stavolta, se pure fosse avvezzo a prenderle incassando con eroico stoicismo, la sua scarsa sopportazione del male sarebbe ampiamente giustificata, visto che, solo mezz’ora prima, il Tozzo gli ha ricordato in modo abbastanza empirico che deve pagare i suoi debiti. Ovvero, lo ha trascinato sul retro della bettola, sfracellandolo senza troppi giri di parole. Botte da ciechi, abbastanza forti da fargli desiderare di morire, ma non abbastanza da ucciderlo.
Neal non ha nemmeno provato a reagire. Non conosce alcun modo di assestare un pugno che non appaia vergognosamente goffo. Una femminuccia in crinolina saprebbe tirar calci e cazzotti molto meglio di lui. Comunque, Neal è la dimostrazione assoluta di come, l’incapacità fisica di torcere un capello a chicchessia, non significhi necessariamente buon cuore. E’ solo inettitudine, mancanza di esperienza e di tecnica, ma non intolleranza ai metodi violenti. Mentre il Tozzo lo colpiva, avrebbe voluto arrivare a una spranga di ferro, abbandonata lì vicino, arrugginita e sporca, e già immaginava di dargliela addosso e di percuotergli la testa tante di quelle volte da vedere il cervello schizzar via in un getto argenteo. Ma non è stato in grado di mettere in atto il suo piano, perché il Tozzo si è accorto della sua manovra, e la spranga di ferro l’ha presa per primo, bastonandolo a ripetizione sulla schiena. Neal lo ha ucciso coi pensieri, l’ha macellato, schiacciato, spellato, scuoiato e gettato nell’oceano, si è scrollato dalle mani la polvere e ha sciacquato il sangue, ed è andato via fischiettando, senza un solo capello fuori posto e senza un livido. Ma solo con l’immaginazione. In verità non è riuscito a far altro che piangere. Infine, il Tozzo lo ha lasciato lì, sulla strada infangata, ed è andato via con un passo talmente pesante da far tremare la terra, dopo avergli intimato di pagare al più presto il suo debito, altrimenti la prossima volta ci sarebbe andato pesante. Come se ancora lo avesse solo accarezzato.
Neal, gettato in un angolo come uno straccio, annusato con voluttà da due ratti affamati, è rimasto immobile per mezz’ora, con le palpebre incollate dal sangue e tutto il resto in pezzi. Il cuore correva oltre le sue costole dolenti. Il suo fiato sapeva di sangue e bourbon. Poi si è alzato in piedi, a fatica, scacciando via i topi che già pregustavano un lauto banchetto con le sue viscere.
Adesso, si trascina reggendosi ai muri, ai lampioni spenti, e finalmente è riuscito ad uscire da quel maledetto quartiere senza imbattersi in qualche altro intoppo. Per quella sera, ne ha avuto abbastanza. Ha accumulato esperienze per un decennio, se non per una vita intera.
Non avrebbe dovuto tornare alla bettola, lo sapeva bene, ma non ha resistito. Aveva bisogno di mandare giù qualcosa, e con una certa urgenza. E lì, il Tozzo ne ha approfittato per rammentargli in modo niente affatto simbolico il denaro che deve a tutti quanti.
Neal sputa sangue mentre entra in una rivendita di liquori e acquista una bottiglia di grappa. La manda giù direttamente dal collo, a garganella, usando le labbra come un imbuto, giù giù, nella sua gola in fiamme. L’alcool gli finisce sulle ferite e le fa sfrigolare come teste di cerini accesi. Grida per il dolore, e lascia cadere a terra la bottiglia, che si apre in cocci sparsi creando una pozza sul selciato.
E’ notte avanzata, ma riesce a trovare una carrozza a nolo. Il vetturino lo guarda con sospetto prima di farlo salire. Annusa le esalazioni che emana, osserva il suo aspetto fracassato.
“Eih…tu….postiglione…” mormora Neal con la voce strascicata tipica degli ubriachi “Tu..non sai..chi sciono io….Non guardarmi come se fossi un beone qualsiasi…Dammi un passaggio fino a casa….devo dare alla mia cara mamma la bella notizia….”
Il cocchiere fa una smorfia, infine lo fa salire, ma non dentro. Non vuole che gli appesti la vettura, meglio che resti agganciato al predellino posteriore. Altrimenti che rimanga dov’è.
Neal accetta, ridendo come solo gli ubriachi sanno fare. Durante il tragitto rischia più volte di cadere, e tutto il mondo gli ruota intorno, il cielo, la strada, i lampioni, le case, tutto vortica e si capovolge, soprattutto il suo stomaco che, a un tratto, rigurgita in volo. Vomita mentre la carrozza corre. Ride di nuovo, e quando è abbastanza vicino a casa salta giù dal predellino senza che il cocchiere se ne accorga. Gli ha dato un indirizzo falso, così non è tenuto a pagarlo quell’idiota… Ride della presunta idiozia altrui per non ridere della propria idiozia assodata. L’ubriachezza gli permette di non sentirsi esageratamente fallito, giusto un poco, quell’alone di insofferenza, quel sospetto di balordaggine che, fin tanto che l’alcool regge, non sono però abbastanza fermi da costringerlo a pensare alla piega che hanno assunto le cose, e a come, semplicemente, sia nei guai fino al collo. L’ubriachezza lo ottenebra, smussa perfino il dolore, arrotonda le fitte che gli attraversano il corpo senza soluzione di continuità.
Ride, mentre varca il cancello di casa. Guarda il giardino che gli scorre attorno e continua a ridere. Le rose, i narcisi, e quelle impettite orchideee…Quando era piccolo ha desiderato spesso di alzarsi di notte, e affettare con una cesoia ogni petalo di quei fiori insulsi. Soprattutto quelli che Iriza considerava di sua proprietà, così, per elezione, e non perché si fosse mai messa in ginocchio sulla terra per versare una goccia d’acqua o eseguire una potatura. Sarebbe stato molto divertente maciullare quei petali, ridurli a una violacea poltiglia….e osservare la faccia di sua sorella la mattina dopo. Mmh..si, molto divertente. Peccato che non ne abbia mai avuto il fegato. Il timore che lo scoprisse e lo attraversasse con quegli occhi di brace, lo ha fermato molto al di qua della finestra dalla quale avrebbe potuto saltar giù di soppiatto, lo ha bloccato allo stadio del puro pensiero. E poi, a conti fatti, era anche probabile che Iriza non ci facesse più caso di tanto. E, senza la certezza di infliggerle un dolore, non valeva la pena di agire.
Cammina, ed è quasi a casa. L’aria è fresca e pulita lì, niente esalazioni di osteria, a parte quelle che emanano dal suo fiato. Si ferma all’altezza dei gradini del patio, osservando l’antica dimora che si erge sontuosa nella notte. Quando odia quella casa, solo guardandola lo stomaco gli si contrae, e accade anche quando non ha bevuto e quando non è conciato come un mocassino logoro. Se solo avesse avuto un carattere meno pusillanime, le avrebbe dato fuoco da un pezzo. Da bambino, graffiava con un legno appuntito tutti i pezzi di argenteria di sua madre, ma di nascosto, facendo sempre in modo che la colpa ricadesse sulla negligenza della servitù. Era un modo per opporsi alla sua tirannia, per dirle, senza dirlo esplicitamente, che avrebbe voluto graffiare lei, e con molta più forza. Avrebbe voluto fare la stessa cosa alle bambole di Iriza, quelle più costose, quelle con cui giocava per dieci minuti e che poi buttava via con uno sbadiglio e un calcio capriccioso sul pavimento, ma, accidenti, sua sorella gli ha sempre fatto una maledetta paura. Adesso non è più così, ma prima il solo sentire la sua voce, al mattino, gli scaricava nel petto un crampo di panico.
Quando erano molto piccoli, e ancora non aveva capito quanto fosse preferibile allearsi col nemico e lasciare che l’odio si sfogasse con l’immaginazione, Iriza lo umiliava come un servetto. Derideva il suo fratellino scemo che aveva perfino paura a catturare un usignolo o una lucertola. Neal avrebbe voluto esserne all’altezza, avrebbe voluto che tanto la sorella che la madre la smettessero di osservarlo con quelle odiose facce da ultimo premio, da tentativo non riuscito, da battaglia persa e disgusto incallito. Non era abbastanza alto, all’inizio, né abbastanza chiaro di carnagione. Non riusciva a cavalcare con disinvoltura. Con gli strumenti musicali era uno zero. Iriza, invece, era alta e flessuosa e candida. Suonava il piano in modo leggiadro, e montava da amazzone perfetta. Neal le odiava entrambe, nel silenzio del suo cuore avariato. Odiava la madre e il suo sussiego impettito, il modo in cui gli ordinava di stare composto e diritto, di mangiare a bocca chiusa e di imitare, per carità, la sorella. Odiava Iriza e il suo sorrisetto e il modo in cui sapeva abilmente comprarsi la predilezione corruttibile della madre. Le odiava, e intanto graffiava gli argenti e desiderava di maciullare le bambole e le orchidee. Poi, ha capito. Ha capito che quando il nemico è troppo forte, è vantaggioso stringere solide alleanze. E’ inutile tentare di competere, se il fallimento è nel proprio destino. Così, è diventato come loro. Le ha imitate perfettamente, al punto che a un tratto è diventato difficile distinguere la copia dal modello. Non aveva un buon carattere, né un’indole innocente, per cui quell’imitazione ha dovuto solo forzare i limiti della sua inettitudine ma non quelli del suo onore. Se fosse stato più onesto, avrebbe sentito la coscienza che reagiva sommergendolo in un mare di senso di colpa. Ma un bambino che sogna come massima catarsi di ridurre in coriandoli un’aiuola, che gode nell’immaginare dei teneri fiori morti, non ha certo un carattere naturale da cherubino. Così, con un po’ di impegno, è diventato un loro sodale. Soprattutto di Iriza. Il suo schiavetto, il suo più esplicito seguace. Se falliva, non si riduceva a un mortificato mucchietto di carne timorosa, come una volta, ma si sperticava in complimenti su quanto fosse impossibile raggiungere una sorella così perfetta. Così, Iriza la smetteva di infierire, e di sorridere nel solito modo sferzante. Dopotutto, un fratello capace di capire di non poter competere con lei, doveva pur avere qualche dote. Non un’eccessiva intelligenza, ma almeno una vantaggiosa sottomissione.
Non che Neal avesse smesso di averne paura allora, soltanto faceva in modo che la perfida astuzia di Iriza si rivolgesse a qualcun altro. L’arrivo di Candy in quella casa è stato un toccasana. Ha distratto definitivamente l’attenzione della madre e della sorella dalle sue pecche di galateo, postura e prestanza fisica. Una pacchia, ed è per questo che anche lui si è dato da fare affinché la vita di quella ragazzina diventasse un autentico inferno.
Finché si occuperanno di biasimare lei, la smetteranno di biasimare me. Finché servirò loro per fare numero contro Candy, farò parte del gruppo. Le mie imperfezioni sembreranno niente a confronto con quelle di un’orfana senza nome e senza rispettabilità.
Mentre oltrepassa l’ingresso di casa, Neal ripensa al proprio stupore, quando ha capito che Candy non avrebbe ceduto nemmeno morta. Ripensa alla propria collera quando ha capito che perfino un’inutile anonima ragazzina come quella era più temeraria di lui, più dotata, più tenace. Perfino lei riusciva a tenere testa a sua madre e sua sorella, e senza bisogno di compiacerle falsamente. Anzi, tirava fuori le unghie e reagiva con un orgoglio indomato. Senza emularle, senza fingersi schiava, le metteva in difficoltà. Lui aveva dovuto trasformarsi in ringhioso tappeto per farsi notare, mentre lei contrattaccava con la dignità e con la forza di carattere. Maledetta orfana, non si decideva a sentirsi inferiore nonostante tutto l’impegno profuso per schiacciarla…
Comunque almeno a qualcosa è servita, visto che il suo arrivo ha consolidato il gruppo. Madre, figlia, figlio. Un terzetto vincente, finalmente complice. Padre assente, e non indispensabile, anzi superfluo e talvolta uggioso.
Entrando in casa barcolla e urta un vaso, che crolla a terra con un tonfo. Neal ride mentre cade in ginocchio fra i cocci e l’acqua e un mazzo di stupide rose sparpagliate. Ride mentre, finalmente, le distrugge fra le dita. Ride e poi si ferma e vomita sul tappeto di seta del salotto. Residui di bourbon, grappa e sangue a grumi. Ride pensando a quanto sua madre si adirerà quando vedrà le condizioni del tappeto. Si rende conto di fare un gran rumore, ma non gliene importa.
In quel momento, in lontananza giunge la luce di una candela. Qualcuno si avvicina scendendo la sfarzosa scalinata. Neal solleva la testa, e accanto a sé, con un lume in una mano e negli occhi due tizzoni infernali, c’è Iriza. Indossa una vestaglia verde smeraldo, e pantofole dorate. Ha i capelli sciolti e perfettamente ordinati. Lo fissa mentre vomita e ride e sfalda astiosamente i fiori, lo fissa e scuote la testa con raccapriccio.
“Sei disgustoso” gli dice seria.
“Mai quanto te, sorellina cara. A te continua a spettare il primato in tutte le cose” risponde il fratello, asciugandosi la bocca con il dorso di una mano.
“Quando la smetterai di renderci ridicoli?”
“Quando ti vedrò ridicolizzata al punto giusto”
Iriza strizza gli occhi, e Neal rivede la bambina feroce di un tempo, quella che lo umiliava per ogni cosa fatta male.
“Sei talmente inutile che perfino un’insignificante ragazza come Candy ha deciso di rifiutarti “ dice lei con tono inflessibile “Mi pare che questo la dica tutta sul tuo valore. Se perfino un’orfana che puzza di stalla ha considerato indesiderabile un’unione con te, significa che sei meno di zero. L’ho sempre sospettato che fossi un inetto, e ora me ne dai conferma. Visto che non sei in grado di giovare a te stesso, perché almeno non cerchi di non danneggiare noi?”
“Perché danneggiare voi è il mio scopo nella vita da un pezzo, ormai, non lo sapevi sorellina?”
Lo sguardo di Iriza diventa sempre più feroce. Il pensiero dei numerosi torti che potrebbe patire se suo fratello continuasse a farsi una pubblicità così negativa nel mondo, la fa rabbrividire di stizza. Già, durante qualche ricevimento, ha udito delle voci, dei pettegolezzi, del sarcasmo diffuso. E questo non lo sopporta. Sono gli altri che devono soccombere sotto la minaccia del suo dileggio, e non lei a doversi sentire a disagio perché quell’idiota di suo fratello non è abbastanza bravo da distruggersi la vita in segreto.
“Dovrebbero rinchiuderti, sei solo un pazzo. Puzzi di infima taverna e sei ridotto come un barbone. Che cosa ignobile! Un Legan che si degrada per colpa di Candy! Ti comporti come un popolano, non come un Legan!”
Neal sorride con malizia, e Iriza ne è un poco spiazzata. Quel fratello che non abbassa gli occhi è estremamente sgradevole.
“E dimmi, come dovrebbe comportarsi un Legan?” domanda Neal, alzandosi in piedi. Puzza talmente che Iriza arretra raggrinzendo il naso. Che strano.. E’ sempre stato più basso di lei mentre stavolta è come se la sovrastasse di almeno una spanna… “I Legan non cedono alle vili passioni del mondo, vero?”
“E’ la prima cosa giusta che dici”
“Questo vale anche per te immagino”
“Naturalmente”
“Infatti ti sposi con la speranza che il tuo caro marchese ci lasci la pelle abbastanza presto da permetterti di goderti il suo patrimonio senza avergli dato nulla in cambio”
“Non essere triviale Neal, stai esagerando!” esclama Iriza arretrando ancora.
“Tu sei immacolata come un giglio, vero sorellina? Disprezzi me che cedo all’attrazione delle cose mortali, carnali, del bere, del gioco, della passione, mentre tu sei d’un candore radiante. Mi condanni perché l’essere stato respinto da Candy mi ha ridotto in poltiglia. Vedi, come questi fiori…” allunga le braccia e le mostra una manciata di poveri petali ormai distrutti “Ma forse hai la memoria un po’ corta, cara futura marchesa. Non eri tu quella che spasimava come una plebea sol perché un certo giovane attore non ti degnava di uno sguardo? Lo ammetto, sei più brava di me a nascondere quanto, in fin dei conti, anche nel tuo corpo di statua scorra qualche goccia di sangue non del tutto blu, non del tutto ghiacciato. Ma ancora oggi, se qualcuno parla di Terence Grandchester in tua presenza, cominci a tremare”
“Il mio è solo disprezzo!” dice Iriza tremando davvero.
Neal ride, scuotendo la testa, come se l’idea di crederle sulla parola non lo sfiorasse nemmeno.
“Disprezzo, si, certo..” mormora, mentre si sostiene il petto dolorante per le percosse del Tozzo “Cioè, è anche disprezzo, non c’è dubbio, tu non sei capace di non provare per chiunque un pizzico di sana disapprovazione, anche per chi fingi di ammirare. Comunque in questo caso, il disprezzo è solo frutto della delusione, perché ti ha preferito quell’insignificante orfanella. Allora, permettimi di ribaltare il tuo commento. Se Terence Grandchester ha scelto lei invece di te, significa che nemmeno tu vali molto. Siamo entrambi due scarti”
“Non permetterti di definirmi così, io sono una Legan!” esclama Iriza “E sto per fare un matrimonio eccellente!”
“Con un uomo che ti ripugna solo guardare…”
“Avrò ciò che tu non avrai mai! Rispetto, onorabilità, e un patrimonio vastissimo!”
“E un disgustoso omettino sudato che gira per casa e blatera su ogni cosa…Certo, è un omettino titolato ma..”
“Smettila!”
Neal ride di nuovo, nonostante ridere gli provochi un dolore indicibile alle costole.
“Comunque sorellina, temo che le tue speranze avranno vita breve. Ho notato che il marchesino, oltre a essere schifosamente ricco, è anche un discreto bigotto. Se sapesse ciò che so io, è molto probabile che interromperebbe il fidanzamento…Un conto è qualche voce su un futuro cognato un po’ allegrotto, un conto è scoprire che…”
“Cosa?” grida Iriza, alzando la voce sul serio per la prima volta. Il lume trema nella sua mano, creandole un effetto strano sul viso che sembra vibrare.
Neal tace, e scuote ancora la testa.
“Non te dirò sorellina, preferisco lasciarti macerare nel dubbio” dice, sornione, e fa per dirigersi verso la scala.
“Neal Legan, fermati subito! Dimmi cos’hai combinato! Non costringermi a….”
“A fare cosa? A guardarmi nel solito modo feroce? A farmi sentire uno schiavetto senza spina dorsale? A chiamare la tua cara mammina così da seppellirmi all’unisono sotto un fuoco di noiose domande? A parlarmi fino alla nausea dell’onore dei Legan? Ma non hai capito che l’onore dei Legan non esiste?”
Su queste parole, Neal va via, salendo le scale con molta attenzione, nel buio. Ha la nausea, non vede l’ora di riposare un poco. Sente lo sguardo di Iriza sulla schiena, finché la luce della torcia glielo permette, lo sente come se fosse fatto di chiodi, gli fa quasi più male del colpo di spranga assestatogli dal Tozzo nello stesso punto. Sorride e, allo stesso tempo, è sconvolto. Stava per dirle una cosa che non è il caso di dirle. E’ stato tentato, ma si è fermato in tempo.
Entra nella sua stanza e si lascia cadere sul letto. Geme per il dolore, e per qualche minuto deve dominare il bisogno di svenire. E’ stanco e, allo stesso tempo, è fortissimo. Non si è mai sentito così male e così bene nella sua vita. Vorrebbe vomitare e ridere fino alle lacrime.
E’ soddisfatto di sé, del modo in cui ha risposto alla sorella. Se solo lo avesse fatto prima…L’aria sconvolta che aveva Iriza è decisamente impagabile.
Si rende conto di avere un asso nella mancia, qualcosa con cui poterla torturare, sia lei che la cara mammina. La minaccia di un simile scandalo le farà tremare. Intanto, tiene il segreto per sé, è troppo divertente lanciare il coltello e nascondere la mano. Glielo dirà a tempo debito, dopo averle crocifisse col dubbio, con l’incertezza.
E pensare che appena l’ha saputo, solo qualche ora prima, era talmente sconcertato da scappare per buttarsi a capofitto fra le braccia manesche del Tozzo. Sudava freddo, gli veniva da vomitare per l’ansia e la rabbia. Ma, a ben rifletterci, si tratta invece di una circostanza vantaggiosa. Non c’è modo migliore per trasformare definitivamente l’onore della famiglia Legan in un ammasso di sterco. Vedere Iriza distrutta, il marchese darsela a gambe, sua madre incurvata sotto il peso dello scandalo…Vederle umiliate davvero, schernite da chiunque, non più così perfette da farlo apparire un inetto in ogni cosa tentata e da fingere di amarlo sol perché è più comodo risultare uniti dinanzi agli altri….Non vede l’ora.
Non c’è dubbio, un figlio bastardo, nato dall’unione immorale fra un Legan ubriaco e una ragazza del popolo, è il modo migliore per portare tutti con sé dentro il fango."

continua....

Edited by Odyssea - 14/4/2008, 12:43
 
Top
Odyssea
view post Posted on 15/7/2006, 16:34     +1   +1   -1




"Non c’è nessuna danarosa famiglia americana, ai primi del 900, che non possegga una residenza a New York. La Grande Mela è una città in rapida espansione, il fulcro degli affari e della cultura, dello svago e della vita brillante, e nessuna casata dotata di mezzi economici e senso di dignità rinuncerebbe a sfoggiare una lussuosa dimora in uno dei quartieri più in vista.
I Brighton non sono da meno a nessuno quanto a bisogno di dimostrare qualcosa agli altri e, benché le loro sostanze non siano minimamente paragonabili a quelle degli Andrew, dei Cornwell o dei Legan, non hanno voluto rinunciare a prendere una casa nella città degli Stati Uniti più in voga del momento, soprattutto considerando la speciale occasione che li vede protagonisti. La loro unica figlia si sposa, e questa è una circostanza abbastanza importante da far scivolare in secondo piano fatti trascurabili, come ad esempio l’estrema difficoltà a pagare in un’unica soluzione tutta la somma richiesta per l’acquisto di un palazzo nel Greenwich Village. Tuttavia, poiché, pur secondaria quanto a rilevanza rispetto alla scelta dell’abito e all’abbinamento dei fiori, la questione rimane, il signor Brighton ha preferito alla fin fine prendere in affitto una dimora molto elegante piuttosto che comprarne una mediocre. La moglie, purtroppo, una signora estremamente esperta nell’arte di disporre le camelie nei vasi ma ben poco pratica di faccende economiche, ha preso la cosa con un certo fastidio. Avrebbe preferito che la figlia non fosse inferiore nemmeno di un dettaglio rispetto al futuro marito. E’ noto infatti che i Cornwell siano proprietari da molti anni di un’abitazione estremamente fastosa a Washington Square, ed è proprio lì che la loro cara Annie andrà ad abitare dopo le nozze quando resterà in città. La signora Brighton considera molto disdicevole che la famiglia della sposa debba accontentarsi di un affitto semestrale.
Già la preparazione di quel matrimonio le sta provocando numerosi attacchi biliari. Non c’è nulla che non subisca continui intoppi, non c’è nessun fornitore che non sbagli nel prendere un ordine e non tenti di rifilarle oggetti placcati d’argento al posto di quelli massicci, tovaglie che sembrano di Fiandra ma non lo sono, e prove di bouquet di discutibile gusto. Lei è convinta che dipenda dal fatto che il marito non ha investito nell’evento il massimo delle sue sostanze, e desidera solo farla morire di vergogna e di crepacuore. In verità, il signor Brighton sta facendo moltissimo per la sua cara figliola, e una persona più rilassata della moglie e meno propensa a vedere l’ombra della mendicità o dell’avarizia dietro ogni contrattempo, non potrebbe non giudicare del tutto soddisfacente la dote che ha assegnato alla ragazza, che comprende anche un’elegante villa in campagna e una rendita vitalizia di tremila dollari all’anno. Ma, nonostante quelle chiare prove, la signora Brighton continua a sentirsi inferiore.
Nelle loro discussioni private, accusa continuamente il marito di una cosa spregevole, e cioè di non fare per Annie tutto ciò che avrebbe fatto per una figlia naturale. In verità, in quel suo accanirsi a dichiarare che per lei Annie è come se fosse sua figlia, non si accorge di essere lei la prima a non considerarla tale davvero. Se la smettesse di insistere sull’argomento, se non considerasse ogni manovra del marito, affinché non dilapidi il patrimonio acquistando cigni e aironi, come mancanza di amore per la ragazza ma solo come rispettabile prudenza, se non desiderasse a tutti i costi il migliore abito da sposa di tutta New York con lo scopo esclusivo di dimostrare al mondo che in fin dei conti è una vera Brighton, insomma, se evitasse ogni volta di sottolineare che Annie è stata adottata, come se dovesse giustificarsi continuamente di una simile onta, forse qualcuno se ne dimenticherebbe.
Invece lei, non riesce a non sentirsi inferiore per qualcosa di cui accusa gli altri. Quando Annie ha rivelato le sue vere origini, per poco la signora Brighton non ha rischiato un infarto. E pensare che erano stati tutti così bravi a mantenere il segreto fino a quel momento! E’ rimasta chiusa in casa per settimane, senza osare incontrare alcuno dei suoi conoscenti nel timore che qualche arguta e insidiosa signora tirasse fuori l’infausto argomento, al quale non avrebbe saputo ancora ribattere con una dose sufficiente di finto orgoglio. E’ stato solo quando ha saputo del fidanzamento col giovane rampollo della famiglia Cornwell che ha azzardato qualche passeggiata pubblica. Certo, se si fosse trattato del maggiore, erede del nome e di gran parte del patrimonio, sarebbe stato meglio, ma anche il giovane Archie era un partito appetibile. Di sicuro la sua famiglia avrebbe fatto grandi cose per offrirgli un’ottima sistemazione sociale. Poi, la morte di Stear ha trasformato la situazione a suo vantaggio. Non che la signora Brighton sia così insensibile da gioire della scomparsa prematura d’un ragazzo innocente, ma, dopotutto, andando a combattere c’era il rischio concreto che finisse così, no? In ogni caso, la perdita del figlio maggiore, ha portato automaticamente Archie a diventare erede, e questa non è una cosa che una persona pratica come la signora Brighton possa disprezzare.
Se solo Annie avesse evitato di rendere pubblica la propria origine! La madre adottiva è convinta che le responsabilità maggiori per quella disfatta siano da imputare a Candy. Fin tanto che la cara Annie si è tenuta lontana dal suo influsso fuorviante, è stata una ragazzina placida e riservata, discretamente ambiziosa, e molto favorevole a tenere nascosta qualsiasi cosa potesse mettere in imbarazzo la sua famiglia acquisita. Non è stato nemmeno troppo difficile persuaderla a interrompere i rapporti con la casa di Pony, quando era molto piccola. Le è bastato mostrarle tutto ciò che avrebbe perso se si fosse saputo da dove veniva, i giocattoli, le feste con le amiche della buona società, i vestiti più alla moda, e l’amore condizionato dei suoi genitori. E Annie non ha avuto bisogno di un eccessivo dispendio di forze per capire che il proprio breve passato doveva essere cancellato. Si è adattata facilmente alla sua nuova condizione di signorinetta benpensante, il richiamo del divertimento e del successo sociale è stato subito per lei un magnete invincibile, unito al timore di deludere una nuova famiglia così affettuosa da volerle bene nonostante venisse dalla casa di Pony.
Fino a quando non hanno deciso di mandarla a studiare in Inghilterra….lì il negativo ascendente di quella ragazza ha ricominciato a farsi sentire. Ma almeno si è fidanzata con un giovanotto dabbene, con Candy di mezzo c’era sempre il rischio che perdesse la testa per il figlio di un carpentiere….Per fortuna Annie non è incauta fino a questo punto. Se l’è scelta bene la figliola, ha subito capito, appena l’ha vista, che la sua bellezza superava solo di poco il suo desiderio di riscatto.
Certo, in quel momento la signora Brighton non è tranquilla. A parte i preparativi del matrimonio che non le lasciano un attimo di tregua (soprattutto dovendo destreggiarsi con gli insufficienti mezzi messi a disposizione da quel taccagno di suo marito e facendo di tutto per non sfigurare), è profondamente seccata dopo aver saputo che Candy, la Candy che non ha mai taciuto a nessuno le proprie censurabili origini, si è promessa sposa al capo della famiglia Andrew. Per una donna convinta che la propria figliola avesse fatto un colpaccio sociale imparentandosi agli Andrew per riflesso, scoprire quella verità è stato un bel colpo. Lei ha cresciuto la sua cara ragazza nella bambagia, coi migliori precettori fin da bambina, insegnandole il rispetto dello stile richiesto da ogni buona società, e alla fin fine deve accontentarsi di un Cornwell, mentre Candy, che ha sempre vissuto senza regole e senza una guida dignitosa, e che non sa né suonare uno strumento né ballare elegantemente, che di certo mangia coi gomiti puntellati sul tavolo e parla senza misura, e che soprattutto non ha un centesimo di dote né un solo abito di classe nel suo guardaroba, è riuscita a sistemarsi col capo di una delle famiglie più ricche degli Stati Uniti! Quella è una cosa che le fa aumentare gli attacchi di bile, quando ci pensa.
Comunque, meglio fare buon viso a cattivo gioco.
Così, quando Annie entra nella stanza, come volando, chiedendole se Candy è arrivata, la signora Brighton sorride scuotendo la testa. Certo che la sua piccina è davvero bella. Snella, elegante, di modi compiti, con l’incarnato bianchissimo, mani sottili, e un portamento da principessa. Non smetterà mai di ripeterselo, l'ha selezionata bene, fra tutti i bambini della casa di Pony, ha preferito quella più graziosa, scartando le femminucce con caratteri grossolani, pelli olivastre e occhi storti. Ha voluto quella che le somigliava di più, e non si è sbagliata. La cara Annie, quanto ad aspetto e maniere, potrebbe competere con una Lady. Con l’abito grigio-celeste, le scarpe di raso e i capelli tenuti su da un nastro di taffettà, somiglia davvero a una preziosa bambola. L’unica nota stonata, in quell’occasione, è l’eccessiva emozione dovuta all’imminente visita di Candy.
“Mia cara, cerca di placare la tua agitazione. Arriverà all’ora concordata se ha un certo rispetto per la puntualità” mormora con voce quieta.
“Non vedo l’ora di riabbracciarla!” esclama Annie “Non ci incontriamo da diversi mesi ormai! Avrei tanto voluto andarla a trovare alla casa di Pony, ma è stato impossibile…”
“Avresti abbandonato la tua povera mamma al suo destino?” le domanda la signora Brighton un po’ piccata.
“Oh no, assolutamente no! Infatti, quando hai avuto quel malore proprio in prossimità della mia partenza, ho scartato volentieri l’idea di andare per restarti vicina! Peccato che tu sia stata male anche per il resto dell’inverno, cara mammina, altrimenti…”
La signora Brighton preferisce ignorare quell’insolenza. Ad essere sincera, ha un po’ esagerato i sintomi della sua indisposizione, proprio per evitare che partisse. Ma certo non ha potuto impedire che Candy fosse invitata alle nozze. Se pure avesse vinto ottenendo che non facesse parte della lista della sposa, di certo sarebbe stata invitata dallo sposo.
“Dimmi, mia cara, sei proprio sicura che si sia fidanzata col signor Andrew?” le domanda a un tratto “Non ho letto nulla al riguardo sugli annunci sociali del New York Times”
“Perché né a Candy né ad Albert importa nulla di apparire sul giornale“ le risponde Annie, sedendosi composta sul divano di fronte. La luce del sole, proveniente da una finestra alle sue spalle, le fa brillare i capelli nerissimi, rendendoli quasi blu.
“Come capo di una famiglia così in vista mi aspetterei che non assecondasse dei ghiribizzi misantropi. E’ suo dovere informare la società di ciò che accade. Certo, forse potrebbe dipendere dal fatto che il resto della famiglia..ehm..non condivide la sua scelta?”
Tenta quell’insinuazione, ma con una certa cautela, visto che potrebbe condurre ad argomenti spinosi. Non può certo permettersi di esprimere un’opinione sulle origini poco rispettabili della futura sposa di un Andrew, perché altrimenti dovrebbe dire la stessa cosa anche sul pessimo affare che Archie Cornwell sta per concludere sposando sua figlia. Certo, c’è una bella differenza, visto che Annie è stata educata in modo impeccabile, mentre Candy ha mantenuto un certo carattere naive che farebbe inorridire le migliori dame, ma è meglio evitare di esporsi troppo e di tradire quel tipo di considerazione. Annie non è più plasmabile come un tempo, c’è il rischio che le metta il broncio.
“Escludo che la signora Elroy faccia i salti di gioia, ammesso che sia già stata messa al corrente della cosa” spiega Annie “Piuttosto, mamma, ti ho confidato la notizia in gran segreto, lo sai. Candy mi aveva pregato di non dirlo ancora a nessuno.. Spero non ti sarai fatta sfuggire…”
“Una vera signora non si lascia sfuggire nemmeno un fiato “ la interrompe la madre.
Sorridere amabilmente è un’impresa per lei, in quei giorni, però si sforza di far levitare la parte più deliziosa di sé, seppellendo il più in basso possibile quella che sa di sale amarissimo. Figurarsi se ha intenzione di diffondere in giro l’informazione delle prossime nozze fra William Albert Andrew e Candy! Non desidera affatto, al momento, che l’attenzione e l’invidia dei suoi conoscenti vengano indirizzate verso qualcosa che non sia la festa che spetta, in esclusiva, alla sua bambina. D’altro canto, una simile notizia farebbe fermentare un miliardo di commenti sul senso di un’unione così impari fra il rampollo di un antico casato e una ragazzina priva di qualsiasi merito, e lei non vuole, assolutamente, che, per traslato, qualcuno estenda quelle chiose anche al matrimonio fra un Cornwell e una finta Brighton. Vive un eterno conflitto che la consuma da anni ormai. Ama sua figlia di un amore appassionato, commosso, quasi fanatico a volte, è conquistata dalla sua bellezza naturale e dal fatto che, nonostante non sia una Brighton di sangue, lo sembri perfettamente, ma, allo stesso tempo, una parte di sé si vergogna di lei.
In quel momento un servitore annuncia una visita e interrompe i pensieri sleali della signora Brighton. Annie balza su dal divano e si precipita fuori. Sua madre scruta quella totale assenza di contegno, assolutamente inconsueta in Annie che di solito è compassata quasi quanto una scultura di alabastro, e storce impercettibilmente la bocca. Candy ha sempre avuto su di lei quella nociva influenza. Le fa dimenticare le regole più ovvie del galateo.
L’ospite entra nella stanza, con la mano nella mano di Annie. La signora Brighton indossa la maschera delle buone occasioni, quella leggiadra e premurosa, ma il suo cuore va ad un disdicevole ritmo tribale.
Candy è piuttosto graziosa, nemmeno una persona di gusti difficili come la signora Brighton può negarlo. Tuttavia, non è un tipo di bellezza che lei si senta di consigliare. E’ trasandata, scomposta, sembra una popolana con la pelle ruvida che vive troppo al sole. E’ abbronzata, e le lentiggini si sono oltraggiosamente moltiplicate sul suo viso. Non ha mai usato una lozione schiarente? Non sa quanto le efelidi siano sinonimo di rozzezza? Quei capelli così ricci e disordinati, se li avesse per le mani lei proverebbe senz’altro a districarli e donerebbe loro un’acconciatura più sobria. E poi, ha dei modi davvero volgari. Com’è possibile che un Andrew l’abbia chiesta in moglie? Non si tratterà forse di un’impostura?
Invece di fare un educato inchino da gentildonna, Candy allunga rapida il passo verso la signora Brighton e le stringe vigorosamente la mano. E’ radiosa, arrossata dalla corsa, e indossa una gonna che non le copre adeguatamente i malleoli. Si intravede, quando si muove, uno sfacciato centimetro di caviglie. Con quell’aspetto, se qualcuno l’avesse vista entrare dalla porta principale, cosa mai potrebbe pensare?
Nonostante quelle riflessioni, la signora Brighton dimostra un’impeccabile cortesia, mentre osserva le ragazze con un sorrisetto marchiato a fuoco sulla bocca. Annie e Candy ridono, si parlano a raffica, sembrano due scimmiette invece che due signorine in un salotto buono. La signora Brighton inghiotte zaffate di bile aspra come veleno. A un tratto Annie si alza, tenendo ancora per mano l’amica.
“Andiamo a fare una passeggiata in giardino, ti dispiace mammina?” esclama con tono carezzevole, battendo le ciglia brune.
La madre sorride, mentre le invita ad uscire. Le dolgono le mascelle per lo sforzo di apparire compiaciuta. Se solo Candy fosse meno grossolana, meno ignorante in fatto di buone maniere! Se si pettinasse come una dama e non come una bambinetta svanita, se vestisse con più decoro e la smettesse di gesticolare come un pastore da gregge mentre parla , se placasse un po’ quella risata eccessivamente sguaiata, e evitasse di vantarsi di essere un’orfana dicendolo a destra e manca senza pudore, forse, con un po’ di impegno, potrebbe anche imparare a tollerarla."

continua...


Edited by Odyssea - 16/7/2006, 23:48
 
Top
Odyssea
view post Posted on 19/7/2006, 19:00     +1   -1




"Annie aveva aspettato l’arrivo di Candy col cuore molto più che solo in gola. Benché l’attesa di un’amica che non incontrava ormai da mesi fosse di per sé un evento capace di far salire le stelline negli occhi e far palpitare il corpo come se avesse inghiottito tutti i grilli del mondo, l’emozione di Annie non era dovuta solo a quell’angelica ansia. Voleva bene a Candy, ma in un suo modo speciale, che non tutti avrebbero considerato come il modo universalmente più consono per voler bene a qualcuno. E, allo stesso tempo, la temeva un po’. Temeva la sua capacità di farla sentire totalmente sbagliata anche con una frase pronunciata senza intenzione. Durante la loro corrispondenza di quegli ultimi mesi, Candy non aveva fatto altro che criticarla. Forse non se ne rendeva conto, ma qualsiasi confidenza lei le avesse fatto riguardo ai preparativi del matrimonio, la sua amica fin troppo sincera, invece di compiacersi o dispiacersi semplicemente in base al tenore del racconto, all’annuncio di un successo o di un intoppo, aveva espresso dozzine di consigli non richiesti su come organizzare le cose. Ad esempio, quando le aveva detto dei cigni, Candy le aveva chiesto se, in fin dei conti, era davvero indispensabile colmare la vasca della fontana con quei candidi animali che forse avrebbero preferito trovarsi in qualche lago del nord Europa. Annie non aveva bisogno di suggerimenti, per quelli ci pensava abbondantemente sua madre. Detestava quando gli altri la consideravano incapace di formulare un pensiero indipendente, o di avere un gusto personale. Ad essere sincera, a lei i cigni suscitavano perfino un po’ di ripulsa, perché un conto era vederli su qualche patinata incisione, e un conto ritrovarseli in giro che starnazzavano come sinuose oche, con quegli sguardi neri e profondi che ti fissavano, e quella strana postura del collo, quasi come se ti guardassero di traverso, ma Candy non lo sapeva, lei pensava che li adorasse, e allora perché non la smetteva di dire sempre la verità? Avrebbe preferito che la sua amica si limitasse ad ascoltare in modo un po’ più passivo. Si era perfino permessa di chiederle se era felice. Certo che era felice! Perché una simile domanda? A cosa voleva alludere? Dava forse per scontato che potesse non esserlo? Era senz’altro la ragazza più felice del mondo, e domande di quel genere la disturbavano un pò, perché le sembrava volessero mettere in discussione il suo stato d’animo. Sembrava volessero riferirsi a qualcosa di segreto, di recondito, di desolato. Forse intendeva che fosse infelice per qualche ragione misteriosa, o magari nemmeno tanto misteriosa? Forse voleva ricordarle che, in fin dei conti, a guardare la realtà senza nebbie e senza ombre, senza abbagli e senza inganni rosa, avrebbe avuto almeno un motivo per essere sconfortata? E cioè che il suo futuro marito non aveva mai manifestato per lei, a parte un’abbozzata tenerezza che sapeva quasi di misericordia, alcun tipo di trasporto un po’ più appassionato? Una vera amica, non avrebbe fatto meglio a sorvolare su un dettaglio tanto spiacevole invece che ricordaglielo, sia pur in modo così sottinteso?
Se Annie fosse stata un po’ meno paranoica, afflitta da piccole torturanti riflessioni che era lei stessa a fare ed elaborare fino a consumarsi la mente, avrebbe capito che le intenzioni che aveva attribuito a Candy erano soltanto illazioni delle sue meningi immerse in un pantano di pensieri. Però, se c’era una cosa che Annie non aveva mai saputo fare, era attribuirsi qualche colpa, addebitarsi una responsabilità. Si considerava una malinconica vittima delle sciagure, fin da quando si era sentita vittima sciagurata della condizione di orfana. Suor Maria e Miss Pony, quando lei chiedeva loro perché, perché fosse stata abbandonata in una cesta e lasciata ai piedi di un albero, cosa mai avesse commesso di male per meritarsi un simile castigo, le rispondevano sempre “non è colpa tua, non dipende da qualcosa che hai fatto, è solo accaduto, ma vedrai, la vita ti ricompenserà”.
Così, Annie aveva applicato quella regola a qualsiasi cosa le accadesse. Si meritava il bene che le pioveva addosso, perché era nata come se avesse un arto in meno. Era come se avesse un braccio fantasma, un’amputazione invisibile che faceva mostruosamente male, dunque erano ben accette, anzi doverose, le gratificazioni materiali o emotive che la vita si prendeva la briga di donarle. Dopotutto, lei era molto più sfortunata di Candy. La sua amica era forte e simpatica, non c’era persona al mondo che, guardandole insieme da bambine, non sentisse un’attrazione speciale per quella biondina tutta riccioli che sorrideva a bocca aperta, che abbracciava tutti con slancio, e si arrampicava sugli alberi come una capretta di montagna. Gli altri bambini la adoravano e la rispettavano. Candy era un capo, una guida, un condottiero e una mamma spiritosa, e non c’era avversità o dispiacere, da una sbucciatura sulle ginocchia a un pupazzo di neve venuto male, che le togliessero dal visetto lentigginoso quell’aria allegra e impertinente. Candy era una persona felice, dunque era più fortunata di lei. Chiunque, anche da adulta, la notava per prima in una stanza, perfino in una folla. Emanava una luce naturale, come se un piccolo sole raggiasse intorno. Dunque, partendo dalla medesima condizione di orfanelle rifiutate, era lei, Annie, la bambina davvero disgraziata. Perché era timida e silenziosa e per nulla affascinante. Perché nessuno la considerava simpatica, anzi i bambini le facevano i dispetti continuamente, e le boccacce dietro la schiena, e imitavano beffardamente il suo pianto. Perché non riusciva a correre senza stancarsi, e ad arrampicarsi senza rotolare giù con la pelle scorticata e il cuore in gola per la fatica e la paura. Perché Suor Maria e Miss Pony la trattavano come una specie di invalida, una cosettina incapace perfino di respirare senza l’aiuto degli altri e, in special modo, di Candy. Candy emanava un chiarore di alba estiva, Annie una penombra da crepuscolo d’autunno.
Così, convinta di essere stata sfavorita dalla sorte che le aveva elargito un carattere così poco ammirevole, Annie aveva deciso di impegnarsi con tutte le sue forze per ottenere lo stesso ciò che voleva. E quando la signora Brighton aveva scelto lei, invece di Candy, aveva capito che si trattava di un segnale. Qualcuno, per la prima volta nella vita, aveva preferito la bambina più pacata, più chiusa, più accartocciata, a quella più simpatica e divertente! Quella bella donna piena di lungimiranza meritava una possibilità! Così, l’aveva scelta a sua volta ed era andata via con lei. Non che non ci avesse lasciato il cuore alla casa di Pony. Benché separarsi da Candy fosse necessario per smetterla di sentirsi inferiore al suo confronto, non era stato affatto facile, perché le voleva bene sul serio, anche se in un modo personale, tipico delle Annie di tutto il mondo. Un modo silenzioso e segreto, pudico perfino. In ogni caso, non abbastanza eclatante da impedirle di andar via. Andar via per diventare improvvisamente la protagonista di qualcosa, e non soltanto une flebile comprimaria. Essere amata più di Candy, anche se non era come Candy. Essere amata solo lei, non una bimba fra decine di altri piccoli che meritavano tutti una dose equa di attenzioni, ma l’unica bambina per qualcuno, non paragonata agli altri, non subalterna per indole, ma sola e ineguagliata.
Però, lasciare Candy era stato un colpo, così doloroso da farle quasi rabbia. Non voleva dipendere così tanto da lei, sentiva che se avesse ceduto alla nostalgia sarebbe tornata indietro. Se la paura l’avesse strattonata, la vettura dei Brighton sarebbe partita con un'altra bambina al suo posto. Così, si era fatta forza. Non aveva pianto, non aveva concesso alla parte più fragile di sé di avere la meglio sul suo bisogno di allontanarsi. Non si era voltata indietro, per scorgere gli ultimi profili della casa di Pony all’orizzonte, la punta del campanile e la croce che riluceva nel sole. Non si era voltata indietro per vedere Candy che la salutava con la manina spalancata, col vento fra i capelli e nei vestiti, e sul viso lentigginoso un dolore che più forte di così c’era solo da perdere il fiato e perdere la vita. Era rimasta immobile, guardando avanti, il futuro, la linea dell’orizzonte, l’erba che ondeggiava, sentendo il profumo carezzevole della signora Brighton, i cui occhi erano pieni di promesse da mantenere.
Scusami Candy, ma è l’unico modo che conosco per andarmene. Evitare di guardarti, evitare di cercarti, perché se lo faccio rischio di perdere questa occasione. E tu lo sai quanto sono fifona. Se lascio che il panico prenda il sopravvento, resterò per sempre la piccola Annie lacrimafacile della Casa di Pony.
Così, si era distaccata sempre di più. Era l’unico modo per liberarsi dall’incubo di essere un’eterna figurante. La famiglia Brighton l’aveva fatta subito sentire speciale, lei, la povera Annie, quella un po’ uggiosa, quella che a trovare la frase giusta da dire al momento giusto non ci sarebbe riuscita nemmeno torchiandosi le meningi fino a farle fumare. Anzi, aveva scoperto che quelle sue caratteristiche, quella riservatezza, quella natura per certi aspetti pavida, che contava fino a cento prima di esprimere una qualsivoglia idea e alla fine non la esprimeva nemmeno, piaceva moltissimo alla sua nuova mamma. Che star zitta e quieta in un angolo, senza fare smorfie e ridere e farsi mordere il naso da un granchietto e legare le papere in fila e arrampicarsi con la rapidità di un procione e tirare il lazo da vero cowboy, si addiceva molto alle caratteristiche richieste a una gentildonna. Che forse, quello che per anni, paragonandosi a Candy, aveva considerato come un carattere indolente da bambina timida e un po’ tonta, altro non era che una personalità aristocratica, che stonava in un contesto meschino come la casa di Pony. Aveva un temperamento raffinato, e per anni gli altri l’avevano tacciata di codardia. I bambini si erano presi gioco di lei perché erano solo degli stolti ignoranti! In verità, Annie era solo troppo elegante per poter essere compresa da una ciurma di orfanelli selvatici.
Quella scoperta, l’aveva allontanata sempre di più. Si era fatta definitivamente corteggiare dalla sua nuova vita, dalla sua nuova famiglia, dalle mille sottili e meno sottili lusinghe che la signora Brighton aveva messo in atto per staccarla abilmente dal suo vergognoso passato. Della Annie fifona e lacrimona di un tempo era rimasto solo un ricordo, una tentazione tenuta a bada dall’opportunismo, un raro flashback, un lampo nostalgico che teneva segreto per non urtare la madre, ed era nata una nuova Annie, non meno insicura e ritrosa negli atteggiamenti sociali, sempre intimamente apprensiva, sempre malinconicamente pensosa, ma almeno consapevole che nessuno l’avrebbe giudicata in modo sfavorevole per quelle deficienze di carattere, e anzi che quanto più avesse ostentato la propria timidezza tanto più sarebbe risultata adorabile e virtuosa. In un mondo in cui il nome era tutto, le bastava essere una Brighton per risultare simpatica, e non doveva più affannarsi per catturare la simpatia di nessuno. Proprio per questo, era diventato obbligatorio tacere la sua provenienza, altrimenti la protezione data da quel nome non sarebbe servita più a nulla, e la sua insicurezza invece di essere soavità sarebbe tornata vigliaccheria.
Tutto era stato abbastanza facile, fino all’incontro con Archie e al collegio in Inghilterra, fino a quando, ancora una volta, il suo destino di comprimaria, di ancella, di comparsa, era tornato a perseguitarla. Senza Candy a fare da pietra di paragone, riusciva a sembrare perfino interessante, ma vicino a lei perdeva di nuovo, vicino a lei non c’era modo di fingere di essere solo graziosa e dolce, perché bastava la sua presenza abbagliante per farla tornare l’imbranata grigia creatura di molti anni prima. Diventava piccola, un’anonima bambina che non viene notata se non dopo un lungo giro di sguardi rivolti altrove. Una brunetta che non brilla, un’ossidiana opaca. Candy, invece, non aveva smesso di mandare una luce sfolgorante. Nessuno la ignorava; nel bene e nel male, nella pace e nella battaglia, Candy era sempre al centro dell’attenzione.
Quando aveva notato che, soprattutto, era al centro dell’attenzione di Archie, Annie avrebbe voluto morire, morire sul serio. Il cuore le si era contorto come un insetto ingabbiato fra i nodi di una tenda e il vetro d’una finestra. Un insetto cieco, sciocco, incapace di far niente di più che dibattersi vanamente. Delusione e rabbia si erano alternate all’invidia, un’invidia annebbiata e a tratti crudele. Ricordava ancora il sapore della pioggia nella bocca, quel tardo pomeriggio d’autunno, quando era scappata nascondendosi in una grotta trovata per caso lungo la fuga. Avrebbe voluto morire. A cosa le serviva aver imparato mille maniere da vera signora, avere un aspetto grazioso e leggiadro, ricamare fazzoletti e suonare romanze al pianoforte, se poi Archie era comunque attratto dal suo esatto opposto? Perché tutti amavano sempre e solo Candy, e perché lei, invece, doveva restare in eterno sullo sfondo, in una solitaria penombra?
Poi, le cose sono migliorate, in un certo senso. Archie è tornato da lei, e adesso si sposano. C’è di che essere raggianti, no? Sposa l’uomo che ama di più sulla terra, dunque le allusioni di Candy ad un’ipotetica mancanza di felicità sono state quanto meno indelicate…
Mentre camminano lentamente in giardino, Annie ha nel cuore molti segreti, molte certezze e molti dubbi, ma non li rivelerà mai a nessuno, perché parlarne sarebbe come morire. Stringe forte la mano di Candy ma non le confiderà mai che, ancora, una parte di sé la invidia. Nonostante sia a conoscenza della sua sofferenza, del modo in cui la vita si è accanita su di lei molto più che su se stessa, continua a considerarla più fortunata, più benedetta dalla sorte.
Il modo in cui Terence la guardava…Archie non ha mai guardato lei nella stessa maniera. C’era qualcosa di assoluto in quello sguardo, e Annie si è rosa a lungo nella certezza di non poter essere desiderata con la stessa intensità dall’uomo che ama. Archie è gentile con lei, premuroso, ma nella sua delicatezza c’è qualcosa di convenzionale, di statico, di rispettoso, ma mai di sanguigno, o di sconvolto, non gli ha mai letto negli occhi qualcosa che sapesse di eternità. Non ha mai avuto la sensazione che, senza di lei, lui non potesse vivere. Sono fidanzati perché sono affini, entrambi amano le comodità della vita elegante, adorano i fazzoletti ricamati, i profumi sobri, e detestano il chiasso. Ma, ad esempio, lui non le ha mai dato neanche un bacio, tranne un lieve tocco di labbra sulla fronte. Annie sa che è un giovanotto beneducato, che agisce secondo i principi più puri e innocenti, sa che nessuna ragazza assennata avrebbe da recriminare per una cosa del genere, e che la madre la redarguirebbe se le esponesse quel fatto come un cruccio, ma lei, che pure è assennata fino al midollo, avrebbe forse desiderato un po’ meno di disciplina e un po’ più di complicità, giusto quel pizzico che le svelasse di non essergli indifferente. Invece, a volte ha la sensazione che vadano avanti per forza d’inerzia. Per questo, i preparativi del matrimonio la angosciano invece di renderla allegra. Per questo, ogni frase di Candy, anche la più affettuosa e incolpevole, le sembra un’accusa, un’insidia. Soprattutto detta da lei….
Ancora, nel cuore di Annie, ringhia la certezza che Archie sia innamorato di Candy. E se anche così non fosse più, sapere che lo è stato, e che, comunque, non è innamorato di lei, la riempie di un’amarezza così atroce che mettersi a piangere per una dozzina di cigni o per una tovaglia strappata o per un bouquet troppo sgargiante è liberatorio. Sa cosa dovrebbe fare, ma non ha nessuna intenzione di farlo. Dovrebbe parlare con Archie, chiedergli cosa vuole, cosa sogna, cosa desidera. Ma ha paura delle risposte. Ha paura che, messo alle strette e costretto a rivelarle la verità, Archie le confessi che quel matrimonio non nasce esattamente all’insegna di un amore da romanzo. Così tace, e si tiene per sé quegli scrupoli. Andrà bene lo stesso, non tutti i matrimoni sono come nei romanzi. Anzi, meno sono sentimentali e più durano, perché non c’è modo di restare delusi da qualcuno che già in partenza non ci illude. Dove non c’è sogno non potrà mai esserci un brutto risveglio.
Intanto, Candy ed Annie passeggiano, e parlano dei preparativi delle nozze, della casa di Pony, del viaggio di Candy e di quella bella casa. Dapprima la loro conversazione è vaga, poi diventa più confidenziale. A un tratto il dialogo vira su Patty ed entrambe assumono un’espressione rattristata.
“Ho ricevuto una lettera dalla nonna” dice Annie “Mi ha scritto che la cara Patty non è in condizione di partire. Non sta bene, è ancora molto depressa, e i medici hanno consigliato un periodo di ricovero in una casa di cura….Così, purtroppo, non verrà…”
“Si, lo so” dice Candy con un sospiro “Mi ha scritto”
“La nonna?”
“No.. Patty stessa…Ecco, mi ha chiesto di mostrarti la lettera, l’ho portata con me…” tira fuori da una tasca nascosta fra le balze della gonna una busta bianca e gliela porge.
Annie trema per un istante. Perché Patty ha scritto a Candy, mentre lei si è dovuta accontentare di una lettera, per quanto cortese, della nonna? Il matrimonio è il suo! Non avrebbe dovuto privilegiare lei? La collera la abbaglia, ma dura poco, subito riconquista una specie di equilibrio, le rimane solo l’angolo di un occhio che vibra, ma poi si placa anche quello. Candy, che la conosce bene, nota quell’assalto, ed esclama dolcemente:
“Ha scritto ad entrambe, quella lettera è tanto per me che per te…Leggila, te ne accorgerai…” La abbraccia, le dà un bacio su una guancia. Annie sorride, poi legge la lettera. Quando smette ha gli occhi lucidi.
“Povera Patty…” mormora “ Non ha ancora dimenticato…Sembrava stare meglio e invece…”
“Invece il dolore la sommerge come un fiume in piena….Ci sono sofferenze che non passano mai..” dice Candy, continuando a tenerla stretta da un braccio mentre attraversano il prato in dolce pendio.
Annie ha un secondo sussulto. Candy è riuscita di nuovo a batterla in qualcosa…Ha conquistato un lato dolce, struggente, che prima non aveva. Prima la sua allegria era talmente ridondante da sommergere ogni altra caratteristica. Mentre adesso, sia pur fra le righe d’un carattere per natura positivo e solare, Candy ha qualcosa di inquieto, di straziato. E’ diventata più delicata, più morbida. E’ più adulta.
Prima lei era il sole e io la luna. Adesso lei è sole e luna insieme, caldo e freddo, luce e penombra, e a me è rimasto solo il crepuscolo. Ancora una volta ha qualcosa in più di me. Si è trasformata in donna, e io son rimasta una ragazzina.
Cerca di allontanare quella sensazione, non vuole che Candy, perspicace com’è, se ne accorga. Allora, con tono complice, quasi segreto, le chiede di Albert.
“Quando farete il grande passo anche voi?”
Candy sorride, insieme si siedono su una panchetta, all’ombra di un acero. Il giardino non è molto grande, ma abbastanza per una casa di città. Lo hanno già percorso ripetute volte in lungo e in largo, e hanno il viso arrossato dal sole. La signora Brighton avrebbe qualcosa da ridire su una prossima sposina con le gote color fragola. Una sposa perbene deve essere bianca, come una maiolica. Di sicuro si arrabbierà quando la vedrà quasi scottata.
“Avete fissato una data?” insiste ancora Annie, rifugiandosi all’ombra del grosso albero con le foglie d’un verde tenero.
Candy scuote la testa, senza smettere di sorridere.
“E’ la persona giusta per te” continua Annie “Un ragazzo a posto, anzi un uomo, con un ottimo patrimonio e una grande rispettabilità. E poi, ti vuole bene, si vede che ti porta in palmo di mano. E tu, quando sei con lui, sei tranquilla.. E’ questo ciò di cui abbiamo bisogno, qualcuno che ci faccia sentire serene, protette, avvolte in un bozzolo fatto di tenerezza e comodità”
L’amica stavolta ride.
“Io mi so proteggere benissimo da sola, sai!” esclama, mostrando i pugni come se stesse per ingaggiare una scazzottata, poi li adagia in grembo, e torna a stringere forte la mano di Annie “Albert è importantissimo per me…” sussurra alla fine, con voce carezzevole.
A un tratto, Annie parla senza pensare, o forse pensa a voce alta:
“Io lo sapevo che Terence era un fuoco di paglia” dice, decisa, quasi grintosa “Non era la persona adatta a te. Nulla da ridire su di lui, cioè è un bravo ragazzo sebbene un po’ singolare come carattere, sta avendo un certo successo e appartiene a una famiglia assolutamente stimata, ma ho sempre pensato che non aveste futuro...Ora posso dirtelo senza timore di rattristarti, ma credo che restando con Susanna Marlowe abbia fatto la scelta più decorosa. Quella povera ragazza, abbandonarla sarebbe stato crudele..In ogni caso, tu e Albert siete perfetti insieme, come me ed Archie, anime gemelle, affini fino al più esile dettaglio. Certo, può accadere nella vita di credere di aver amato qualcun altro, ma quando passa il tempo le cose sfumano, cambiano, e ti accorgi che ciò che conta è il presente, e il futuro, e il passato è solo una sciocca chimera....”
“Non dimenticherò mai del tutto il passato, mia cara Annie” sussurra Candy.
“Beh, magari dimenticare del tutto è impossibile, ma vivere bene no! Guardati, stai benissimo, sei carina e aggraziata molto più di quanto tu sia mai stata, e finalmente non dovrai pensare a dove vivere, a cosa fare…Ti attende una vita di agi e serenità”
“Purtroppo, però, io e gli agi talvolta abbiamo certe baruffe…” scherza Candy.
“Preferiresti gli stenti?” Annie spalanca gli occhi per lo stupore.
“Non sono un personaggio così romanzesco, mia cara amica! Non trovo che ci sia nulla di attraente in una vita di tribolazioni. Se capitano le affronto senza abbassare la testa, ma andarne in cerca proprio no. Dico solo che non mi si addice una vita di attesa domestica. Non sono fatta per diventare una brava mogliettina che tiene caldo il focolare e ricama uccelli del paradiso sulle tovaglie”
“Ne hai parlato con Albert? Lui che ne pensa?”
“Pensa che debba fare ciò che mi fa sentire meglio”
“Lo dicevo io, hai trovato un uomo perfetto! Credimi, non sono più delle dita di una sola mano i futuri mariti che non resterebbero di sasso dinanzi a una simile confidenza, e non farebbero un passo indietro nel timore di aver rivolto un’incauta proposta a una donna un po’ strampalata…Dunque, che farai?”
“ Ho bisogno di tornare a lavorare. Mi manca molto quel mondo, quel senso di utilità, di completezza. Quel rendersi utili e imparare continuamente qualcosa…”
“Una donna può ottenere queste cose anche nel matrimonio, senza andare a lavorare. Servire il proprio marito può dare un grande senso di utilità e completezza…”
“Si, credo sia vero…la felicità domestica è una grande cosa, l’affetto coniugale è senza dubbio un’esperienza appagante, e sono sicura che Albert è la persona giusta per me, ma sono anche sicura di aver bisogno di lavorare ancora”
“Ma non ne avrai bisogno! Albert potrà provvedere a tutte le tue esigenze!”
“Non lo farei per necessità...ma per amore…amore di questa missione, dei pazienti, di ciò che posso dar loro e soprattutto di ciò che loro danno a me”
“Non capisco cosa possano darti dei malati magari contagiosi…”
“Esperienza, rispetto, lezioni di dignità e di coraggio”
“Ti rendi conto di quanto tutto ciò sia…sconveniente? Insomma, una ragazza in cerca di affermazione sociale può anche compiere un colpo di testa, inseguire un sogno patetico e caritatevole, ma una donna in procinto di contrarre un matrimonio con il rappresentante di una famiglia in vista…credo che la cosa susciterà un certo… scalpore …Potresti renderti utile ai diseredati con qualche party di beneficenza….ma lavorare….Non pensi che danneggerebbe l’immagine degli Andrew?” Annie ha il viso ancora più arrossato, adesso, per il sole e soprattutto per il turbamento. Candy le stringe una mano fra le sue. Non è arrabbiata con Annie per quelle parole schiette e crude. Per quanto la sua amica non sia stata sempre un esempio di correttezza e dedizione totale, Candy non può far altro che amarla. Nonostante ogni trascorso, nonostante il suo formalismo, e la gelosia che le legge ancora dentro, nonostante gli ultimi dodici anni della loro vita abbiano brigato per separarle molto più che per unirle, e Annie abbia assecondato quella trama del destino senza opporsi troppo, Candy prova per lei una tenerezza assoluta, un amore incondizionato. Se Annie fosse più lucida, meno incline a credere solo a ciò che le risulta più conveniente credere, si renderebbe conto di quanto l’amore di Candy sia capace di passare sopra ad ogni accusa, ad ogni insulto, ad ogni invidia o infelice insinuazione. Di quanto quel sentimento sia un esempio di come si debba voler bene a qualcuno, senza aspettarsi nulla in cambio. Candy ama Annie molto più della signora Brighton, che le vuol bene a patto che le somigli ogni giorno di più.
“Non parliamo di me, mia cara. Sei tu l’unica protagonista di questi giorni di festa” esclama Candy infine scuotendo il capo “Non preoccuparti per me, per il mio onore, e per ciò che dirà l’opinione pubblica. Albert è dalla mia parte, e comunque non farei mai nulla per danneggiare il suo nome. Valuterò la cosa con molta attenzione, e mi comporterò sempre secondo coscienza. Comunque, c’è qualcun altro che voleva vederti oggi, sai? Ha insistito tanto per venire…” le strizza un occhio e ancora ride.
“Qualcun altro, chi?” Annie non capisce, è emozionata e divertita e anche un po’ allarmata.
“Qualcuno che è dovuto entrare di nascosto dal cancello esterno, per non farsi vedere….” bisbiglia Candy, in tono segreto. Quindi fischia, forte, come una vera signora non dovrebbe fare mai. Dall’acero, sopra le loro teste, salta giù un batuffolo bianco e nero, che le atterra in grembo. Annie emette un gridolino, poi riconosce Klin. Annie ride, lo abbraccia, disinteressandosi completamente a ciò che direbbe sua madre se la vedesse stropicciarsi il vestito per fare le coccole a un quadrupede maleodorante. Per un po’ torna bambina. Per un po’, in quel giardino del Greenwich Village, nel cuore di New York, è come se apparisse la casa di Pony, le colline, papà Albero sull’altura, e ancora tanta innocenza, non contaminata da sentimenti accessori e non sempre buoni. Per un po’, la gentildonna lascia il posto alla bimba. Per un po’ non esiste nient’altro che un immenso candore senza complicazioni. Poi la voce della signora Brighton, alle loro spalle, le fa sussultare, Klin si nasconde rapido sull’albero, Annie si sistema il vestito, e l’innocenza è passata."

continua....


Edited by Odyssea - 19/7/2006, 20:51
 
Top
Odyssea
view post Posted on 26/7/2006, 12:24     +1   +1   -1




“Carissime Candy ed Annie
scusatemi se vi scrivo una volta sola, ma non so se avrei la forza di moltiplicare anche solo per due l’energia che mi occorre per buttare giù queste poche righe. Perdonatemi amiche mie, perdonatemi. Credevo di potercela fare con un passaggio più breve lungo la landa della disperazione, e invece durante il viaggio mi sono accorta che questo deserto è molto più vasto di quanto immaginassi. Già sapevo che sarebbe stata dura, ma non così dura. Stear mi manca, e in un modo così atroce, così lancinante, che a volte desidererei che la Florida avesse dirupate montagne da valicare e dalle quali andare giù senza forza di gravità, come una foglia o un sasso…Guardo il mare, e questa natura lussureggiante, che sa di vita e di coraggio, e non vedo altro che il nulla. Perfino sollevare un braccio è una fatica immane. Mi manca, mi manca, lui mi manca, i suoi occhi limpidi dietro gli occhiali, la sua allegria, le sue idee originali e divertenti, la sua giocosa innocenza…Mi manca…Vorrei chiudere gli occhi, stretti stretti stretti, e ricordare solo le cose che non mi fanno struggere, ma non c’è nulla che non mi logori, perché tutto, anche i bei momenti, passano attraverso il dopo, attraverso il momento in cui il suo aereo si è schiantato come un’aquila vicina al tramonto…Non sono mai stata una roccia, amiche mie, ho sempre barcollato invece di camminare impettita. Una ragazzina insicura e malinconica. Poi, qualcosa è cambiato. Sembrava davvero che quel fiore misterioso che avevo nel petto, quel bocciolo appartenente a una specie ignota che se ne stava rintanato come in un ghiacciaio, avesse deciso di aprirsi…Ero così felice, così diversa! Son stati, quelli, i giorni più belli della mia vita. Ricordate la festa di Maggio? In quel giorno, Patty è rinata, ha lacerato il guscio, ha visto il sole. Quando sia io che Stear abbiamo smarrito gli occhiali e ci siamo messi affannosamente a cercarli e ci siamo guardati attraverso la nebbiolina creata dai nostri occhi non del tutto acuti, nonostante le mie pupille annaspassero, io ho visto un raggio che veniva da est. Era caldo e dolce, morbido, si posava sulle cose con al delicatezza di una piuma.. Era Stear che portava quell’alba e quel calore…Non sono mai stata così felice, mai. Ricordo tutto troppo bene, perché ho ripetuto ogni cosa fino a consumarmi. Ricordate la Scozia? Che vacanza meravigliosa, la prima della mia vita, la prima trascorsa vivendo, e non restando un passo indietro nascosta dietro una tenda a guardare la vita degli altri….Io sono ancora lì, mie care amiche lontane, sono rimasta su quelle scogliere e su quel lago, eccola la piccola Patty, sembra che sia qui in Florida, infiammata da questo sole cocente, e invece è ancora là, in un altro tempo e in un altro luogo…Non so se riuscirò a tornare indietro da questo viaggio mentale.. Ci provo, ma lo strappo mi fa talmente male che devo arretrare. Devo far andare il tempo al contrario e fare finta che la mia vita sia quella, ancora quella, sempre quella, per sempre.
I miei nonni son preoccupatissimi per me, e so che una nipote migliore di quanto non sia io si darebbe da fare per non farli stare troppo in ansia. Ma io non ci riesco. Ci ho provato, ve lo giuro! Ma il dolore mi chiama, mi invoca, è come una mano ossuta ma forte che spunta dalla terra e mi trascina giù, e io non oppongo troppe resistenze, perché laggiù, in quel nido di ricordi e illusioni, si sta meglio che quassù, con la crudele certezza che le illusioni sono svanite... Lo so, sembro pazza, ed è quello che pensano i medici. Che io abbia un grave esaurimento nervoso e debba essere ricoverata in una clinica. Ci andrò, lascerò che tentino di curarmi, anche se so che il mio dolore è senza speranza. Non servono parole, ragionamenti, discorsi su cose giuste e sbagliate.. Forse, mi servirebbe soltanto qualcuno che mi si sedesse accanto e, senza far lunghe teorie sul coraggio, su ciò che dobbiamo ai nostri cari, su cosa i morti si aspetterebbero che facessimo, su quanto il mio dolore sia lo stesso di molte altre persone che hanno perso in guerra qualcuno che amavano, piangesse con me, senza una sola sillaba dalle labbra che non sia un singhiozzo. Ecco, vorrei qualcuno che non si sforzasse di farmi capire che è venuto il momento di smetterla di rotolare…
Ma forse, non sarebbe giusto, e forse non servirebbe. Forse devo essere io, da sola, a tornare indietro. Forse deve essere Patty a rinascere un’altra volta. Ma non adesso. Adesso non sono pronta. Adesso è troppo buio. L’assenza di Stear non è ancora una nostalgia, ma un vero e proprio spasimo. Quando, e se, questo crampo tagliente diventerà più dolce, più languido, senza le coltellate che mi sfiancano adesso, quando si trasformerà in tenera malinconia, probabilmente ci rivedremo. Ma, al momento, non ne ho la forza. Non sarei una buona compagnia, e incontrarvi servirebbe solo a liquefarmi. Se venissi, non resisterei alla tentazione di andare sulla sua tomba, e vedere quella lastra di marmo mi farebbe scoppiare il cuore, e mi impedirebbe di galleggiare nel limbo comodo e struggente delle illusioni. Per questo, non verrò al matrimonio di Annie. Scusami mia dolce amica, ma se venissi non renderei il giusto omaggio alla tua felicità, che mi auguro sia immensa.
Cara Candy, spero che anche tu stia bene. Perdona l’egoismo di chi non riesce a staccarsi dai propri problemi per la gioia degli amici. Non sono come te, che nel dolore dai sempre il meglio della tua anima. Io sono come Evelyne, una tartarughina timida che, quando i colpi della sorte si fanno violenti, si rintana nel suo carapace ed evita perfino di respirare. Perdonami se non riesco a vivere bene e a rendere orgoglioso il mio prossimo...
Andrò in una clinica per qualche mese, così farò contenti i miei nonni, e da lì non so se potrò scrivere e ricevere lettere. Vi penserò, lo faccio continuamente. Rivedrò i vostri visi, insieme a quello di Stear, per dieci, cento, mille volte. Vi consumerò col ricordo. I medici tenteranno, forse, di strapparvi dalla mia mente, con chissà quali farmaci e trattamenti, ma io vi difenderò con le unghie. Non permetterò a nessuno di rapire i miei ricordi più belli. Magari sarebbe meglio che lo facessi, dimenticando se ne andrebbe anche il dolore, se la nebbia calasse sulle cose anche il male si smorzerebbe come un suono lontano, ma io vi proteggerò, vi custodirò in un angolo del mio cervello, sarete per sempre la mia tormentosa e bellissima nocciola segreta.
Vi voglio bene, anche se potrebbe sembrare di no, visto che mi macero nel mio dolore senza pensare ad altri che a me stessa. E invece vi amo. Perdonatemi. Ora vado, chiudo gli occhi e precipito di nuovo con Stear. Col pensiero, implodo un milione di volte. Col pensiero, vedo il cielo d’Europa che diventa cremisi. Col pensiero, muoio anch’io..
Ma non lo farò davvero, non temete. Se morissi sul serio non potrei più ricordare. Resterò su questa terra desertica, fino a che qualcosa non cambierà, se cambierà. Fino a quando la mia anima, o un farmaco miracoloso, non decideranno che è ora di una svolta. Intanto, aspetto e immagino e precipito e sento il rumore del metallo che si fonde. Sono con lui, non lo lascio solo. Gli stringo la mano, e vado giù. Sono con te amore mio, piccolo eroe, sono con te.
Patty”
 
Top
49 replies since 26/6/2006, 12:25   22591 views
  Share