Le idee per i racconti mi vengono d'improvviso, come lampadine che si accendono nel buio e così è accaduto anche per questo.
Cosa sarebbe accaduto se Elroy avesse rifiutato il suo consenso ad Albert che voleva sposare Candy? Lui avrebbe rinunciato a tutto se lei non avesse dato il suo consenso e, coerente con se stesso, così ha fatto.
Chi si pentirà delle proprie azioni? Albert che rinuncia ad un patrimonio immenso, alla ricchezza e agli agi per la sua Candy oppure Elroy che, presa da un moto di rabbia, allontana da sé il nipote su cui aveva investito tutto la sua vita?
L'avvicinarsi del Natale, la vecchiaia e la solitudine portano Elroy ad interrogarsi sulla propria vita.
Elroy vedrà il passato, il presente ed un futuro possibile, come in "Canto di Natale", di Charles Dickens ma qui gli spiriti sono meno lugubri ed assumono i volti di coloro che ha amato e che tornano a visitarla.
Cosa accadrà?
Buona lettura
“Chi ti dice che lei non sia interessata a te per i soldi e la posizione sociale?”
“Ci sposeremo. Non sono mai stato così sicuro di qualcosa in vita mia”, le rispose molto serio.
Elroy ebbe un mancamento e si dovette sedere sul divano. Albert le porse un bicchiere d’acqua.
“Stai scherzando vero?”
“No.”
“Non te lo posso permettere!”
“Così non otterrà nulla.”
“Non è adatta a te, al ruolo che deve avere la moglie di un Andrew!”
Albert scosse la testa.
“William! Non intendo accondiscendere a questo matrimonio!”
“Non intendo rinunciare a lei. Anzi, le dirò di più, sono disposto a rinunciare a tutto, nome, titolo, patrimonio se questi sono ostacoli tra noi due”, gli occhi azzurri lasciavano trapelare una volontà d’acciaio.
Elroy si sentì mancare l’aria per la seconda volta.
“Non puoi!”
“Certo che posso…”
“Sei l’unico erede…”
“Si sbaglia…ci sono Alistear e Archibald ed entrambi sono anche degli Andrew.”
Il silenzio calò tra loro.
Dopo un po’…
“E sia…”
“Bene, sistemerò le carte più urgenti e me ne andrò domani stesso…”, Albert non aveva fatto una piega.
“E sia ma te ne pentirai!”
“Non credo zia, sarà lei a farlo!”
Mai parole furono più profetiche.Natale 1929Elroy Andrew era una donna anziana, avvezza al comando e ad avere, a torto o a ragione, sempre l’ultima parola.
Da ormai 35 anni guidava con mano ferma la famiglia Andrew e i suoi affari e il patrimonio, già ingente, era aumentato sempre più.
Una decina di anni prima il nipote William aveva cominciato a sostituirla nel ruolo di comando che lei aveva assunto alla morte del fratello in attesa di poter passare la mano all’erede maschio una volta adulto.
Il giovane William aveva rinunciato a tutto per seguire il suo sogno d’amore e lei, incapace di accettare quel sogno, aveva scavato una abisso tra loro.
Elroy Andrew era un personaggio molto noto in America, una di quelle persone cui si faceva riferimento per tutto ciò che riguardava l’etichetta e le tradizioni dell’alta società e dell’esclusivissima aristocrazia americana che ancora conservava titoli, proprietà e memorie del Regno Unito.
Essere accettati nel salotto di Elroy Andrew era un privilegio e costituiva un biglietto di ammissione al ristrettissimo cerchio delle famigli che in America contavano davvero.
Raramente la signora concedeva visite, solitamente erano gli altri a recarsi da lei, eccezione erano le famiglie del clan degli Andrew: i Legan, i Cornwell e i Brown, quando ancora madre e figlio erano vivi.
La famiglia nel corso degli anni era stata colpita da una serie di sciagurate morti, sparizioni, incidenti che Elroy aveva attribuito alla corruzione e al degrado del mondo moderno e cui aveva risposto arroccandosi sempre più nella villa di Chicago dalla quale usciva di rado, solo per alcuni eventi di beneficenza o per quegli affari che richiedevano la sua presenza fisica altrove.
Gli ultimi sei mesi, poi, erano stati un incubo ad occhi aperti: la crisi economica e il crollo della Borsa avevano messo in ginocchio l’economia americana e aveva colpito pesantemente anche il patrimonio degli Andrew ma in misura minore rispetto alle altre famiglie grazie agli investimenti oculati e diversificati che aveva fatto nel corso degli anni.
Si era trovata da sola a fronteggiare una serie infinita di problemi e, dopo dieci anni, aveva pensato per la prima volta a quel nipote che aveva rinunciato a tutto per un sogno.
Non sapeva più nulla di lui dal giorno in cui le aveva consegnato tutti gli incartamenti relativi agli affari della famiglia, le chiavi della camera blindata e il documento in cui dichiarava la rinuncia a far valere il proprio diritto all’eredità in qualità di primogenito, per sempre.
Lui ora, sicuramente, non ha grattacapi a cui pensare.Elroy Andrew continuava a girarsi nel letto, incapace di addormentarsi.
Pensò che la causa fossero gli acciacchi dell’età oppure gli spifferi gelati che si facevano sentire sempre più o ancora il silenzio irreale che regnava nell’immensa villa sul lago o forse erano i pensieri della crisi economica.
Fatto stava che non riusciva a dormire.
Si alzò e, prendendo lo scialle di lana, si avvicinò alla finestra ad guardare il buio che regnava sul giardino.
Scese lentamente la scalinata fino ad arrivare al salotto dove il fuoco acceso mandava gli ultimi bagliori: quella stanza era stata per anni la biblioteca privata di William Albert e, da quando lui se n’era andato, lei aveva preso l’abitudine di farne il proprio rifugio dal mondo e dai problemi quotidiani; forse era anche un modo per scacciare lo spirito del nipote da quella casa.
Nell’andarsene lui non aveva preso con sé nulla se non pochi abiti, quella schifosissima puzzola e un vaso con le rose di Anthony.
Candy lo aveva atteso in giardino, il volto preoccupato, cui lui aveva risposto con un sorriso ed un abbraccio.
Quell’orfana! Era lei la causa di tutto!
E quello stupido aveva lasciato tutto per lei!
Se era quello che voleva, bene! Lei non lo avrebbe certo fermato!
Se quell’orfana valeva più di lei e dei legami di sangue quei legami non ci sarebbero più stati!
Ed Elroy aveva dimenticato il nipote, disinteressandosi completamente della sua sorte.
La decisione di William, però, aveva provocato un terremoto in seno alla famiglia che si era spaccata in due: da una parte i Cornwell e Charles Brown, dall’altra parte i Legan e il resto dei parenti.
Lei aveva contato sul fatto che Archibal ed Alistair prendessero sulle proprie spalle l’onere di sostituire lo zio ma si erano rifiutati; Sarah, la loro madre, aveva puntato i piedi perché lei rivedesse la sua decisione ma era rimasta ferma: la colpa era di William, non sua!
I due ragazzi non le avevano più rivolto la parola, così come i loro genitori, ripartiti per l’Africa insieme ai figli e alle nuore:
per non respirare più l’aria avvelenata di Chicago, così le avevano detto mentre si accomiatavano.
Chi invece era stata molto contenta della decisione era Lilith, un’altra delle sorelle di William, divenuta una presenza sempre più frequente nei consigli di amministrazione e alle riunioni di affari: la sua ambizione l’aveva portata là dove altre donne non erano arrivate e lei, Elroy, aveva bisogno di qualcuno che la supportasse nella difficile gestione del patrimonio.
Si sedette nella poltrona accanto al caminetto: magari scaldarsi un po’ le avrebbe conciliato il sonno.
Chiamò la domestica con il campanello e le ordinò di mettere lo scaldino nel proprio letto; assonnata, la ragazza rispose con un inchino ed uscì ma la signora la richiamò immediatamente per farsi portare anche un the caldo.
Mancavano tre giorni a Natale e la villa era deserta, salvo pochi domestici.
Lilith e Thomas erano, con Iriza, ad un ricevimento che avevano organizzato a New York e cui lei era stata invitata ma aveva declinato.
Ormai da anni la festa della nascita del Signore non le procurava altro che fastidi: dover organizzare la festa, pensare ai regali per i familiari, i doni di rappresentanza da mandare ai soci, agli amministratori, le feste di beneficenza e le visite agli ospedali e agli orfanotrofi, aumentati a dismisura insieme agli ospizi per i poveri.
Soprattutto quest’ultima incombenza, le visite, erano una tortura che le rinnovava il ricordo di quel disgraziato nipote e di quell’orfana che aveva voluto come moglie: la vista di tutti quei bambini petulanti la infastidiva così come la loro puzza di dignitosa povertà che non aveva mai potuto soffrire.
Aveva letteralmente preso ad odiare quella ragazzina che era entrata in casa propria perché imposta dal nipote: non aveva la minima paura o rispetto di lei e della famiglia e aveva istupidito tutti gli uomini a partire da Anthony per arrivare a William!
Poggiò la tazza, scosse la testa e si avviò verso la propria camera da letto; così facendo passò dinnanzi allo studio che era stato del fratello; era molto tempo che non vi entrava, quel luogo era rimasto tale e quale dalla sua morte: il piccolo William aveva voluto che non si toccasse nulla, nella sua illusione di bambino aveva creduto che prima o poi il padre sarebbe tornato a casa e avrebbe ripreso a giocare e a leggere con lui in quella stanza.
Udì un rumore provenire da dietro la porta.
Corrugò le sopracciglia e spinse sulla maniglia: forse qualche domestico aveva lasciato la finestra aperta.
Entrò e guardò stupita la luce suffusa che regnava nella stanza, la lampada sullo scrittoio era accesa e, chino sui fogli, vi era il fratello, impeccabile nel suo completo scuro, i capelli biondi ben pettinati con un po’ di gelatina, i baffi curati, i piccoli occhiali di tartaruga che facevano risaltare gli occhi blu.
Alzò lo sguardo e squadrò severamente la sorella:
“Elroy! Ti aspettavo…”
“Wi…William?”
Ora svengo!“Sì, sorella, sei stupita di vedermi…immagino…”
“Ma…ma…”, si sentiva mancare.
“Siediti”, le disse indicandole la poltrona di fronte alla scrivania.
Elroy incapace di rispondere si sedette tremando, con gli occhi sbarrati e la bocca asciutta.
“Vedo che sei sola, stasera…”
L’anziana donna lo guardava, incapace di pensare ad una risposta.
“Dov’è William? E Rose? Sarah e i piccoli? Come mai questo silenzio?”
“Tu, tu, dovresti essere morto…”
“Dettagli…”
“De…de…dettagli?”
“Non parliamo di me stasera ma di te…”
Ora mi sveglio, ora mi sveglio!“Sei sveglia!”
“Cosa, cosa vuoi?”
“Non credi ci sia troppo silenzio in questa casa?”, disse William alzandosi ed avvicinandosi al fuoco, poi si voltò per guardare la sorella che lo guardava a sua volta, allibita.
“No, non direi…”
“Mmm…tu dici? Me la ricordavo più viva questa casa…”
“Sono forse morta che ti posso vedere?”
“No, sei viva, vivissima ma non cambiamo discorso…”
“William, perché sei qui?”
“Ecco, appunto, diciamo che ho avuto la possibilità di avvisarti…”
“Avvisarmi di cosa?”
“Di fare tesoro di quanto vedrai in questi giorni…”
“In che senso?”
“Lo capirai…”
“William, spiegati!”, stava riaffiorando la sua abitudine a pretendere le cose anziché chiedere.
“Mi spiace, più di così non posso dirti…ricordati solo di questo…fai tesoro di quanto vedrai e pensa a quanto questa casa è divenuta vuota…Ora vai…”
Elroy balbettò qualcosa ma lo sguardo severo del fratello la fece tacere ed uscire barcollando.
George la vide camminare lungo il corridoio con lo sguardo allucinato, pallidissima e sudata.
“Signora, tutto bene?”
“George…George, lo ha visto anche lei?”
“Visto cosa?”
“Nello studio di William”
George la guardò da sotto in su.
“C’era lei fino a poco fa…”
“No, non nella biblioteca…nello studio di mio fratello.”
“Ma signora, è chiusa a chiave da anni…”
“Ma…ma…ho visto…”, poi si morse la lingua, non le avrebbe mai creduto, non avrebbe mai creduto che lei aveva visto William come se fosse stato vivo, l’avrebbe presa per pazza.
“Signora, credo sia stanca, domani l’attende una lunga giornata, è meglio che vada a riposare. Se vuole l’accompagno…”
“No, no, grazie…Va bene così.”
***
Era ormai tardo pomeriggio e finalmente era riuscita a rincasare, esausta dopo l’ennesima visita ai poverelli della città: non ne poteva più, le girava la testa aveva bisogno di qualcosa di caldo per riprendersi.
Chiamò la domestica e le ordinò di portarle un the in biblioteca. Si tolse il manicotto di pelliccia, il cappellino e il pesante cappotto che furono presi in consegna dalla cameriera personale.
“Madame, mi scusi…”
“Sì…”, cercò il nome ma non lo ricordava.
“Ecco, io, volevo chiederle se…se potevo avere il giorno di Natale libero, per poterlo passare con mio padre, ecco…lui…”
“Qual è il tuo giorno libero?”, la interruppe.
“Il lunedì, madame.”
“Natale è mercoledì per cui non è il tuo giorno libero.”
“Ma…”
La squadrò dall’alto in basso e la ragazza ammutolì mentre grandi lacrime invano trattenute le solcarono il viso; fece comunque un inchino e si ritirò.
Che gente!Elroy si svegliò di soprassalto, la notte era alta, fuori le stelle brillavano nel gelo invernale su un cielo nero di velluto.
Senza accorgersene si era addormentata accanto al fuoco, la teiera e la tazza erano ormai fredde, abbandonate sul tavolino accanto alla poltrona.
Si alzò rabbrividendo e nel chiarore delle braci gettò lo sguardo alla pendola vicino alla porta: poco ci mancò che svenisse quando si accorse della figura che sedeva nella poltrona accanto alla propria.
Due familiari occhi azzurri la guardavano, un sorriso sulla bocca giovane, un libro in mano in una posa che conosceva così bene che avrebbe saputo descrivere ogni dettaglio: pantaloni indaco alla zuava, camicia di seta bianca e giacca rosa polvere.
“Buona sera, zia cara.”
Sto diventando pazza! Sto diventando pazza! Prima William, ora lui!“Tu, tu non puoi essere qui!”
Elroy era ancora incerta se farsi prendere dal panico oppure convincersi che era un incubo: decise di girare il viso dall’altra parte e cercare di svegliarsi.
“Non è felice di vedermi, zia cara?”, domandò il giovane alzandosi: doveva avere sui 15 anni, la figura già slanciata, i capelli biondi corti e leggermente mossi, gli occhi di quell’azzurro così caratteristico da essere considerato un segno distintivo della discendenza degli Andrew.
“Tu, tu sei morto…da tanto…”, balbettò, la nausea le stringeva lo stomaco
“A maggior ragione dovrebbe essere felice di incontrarmi ancora”, le disse Anthony con voce dolce, avvicinandosi a lei.
“Perché sei qui? Questo è un sogno! Perché tu sei un sogno, vero?”
“Sì e no”, rispose enigmatico.
Elroy si appoggiò al bracciolo della poltrona, il suo vecchio cuore non era in grado di reggere un’emozione così forte.
Lo osservò meglio, gli occhi spalancati per la paura: non era cambiato affatto, era come lo ricordava.
Già, il tempo passa per i vivi ma non per i morti, anche William era tale e quale all’ultima volta che l’ho visto; rabbrividì ulteriormente. Perché continuava a vedere le ombre dei morti? Non era normale!
“Zia, venga con me”, le disse offrendole la mano per aiutarla ad alzarsi.
“Dove…dove vuoi portarmi?”
“Lo vedrà a tempo debito, venga.”
Anche se non avrebbe voluto si sentì costretta ad alzarsi, accettando la mano fredda di Anthony nella propria, tremante per il terrore di quelle visioni che nulla avevano di terreno.
Nella mente continuava a cercare di convincersi che era solo un incubo mentre percorrevano il corridoio, scendevano le scale e si dirigevano alla sala da ballo.
Man mano che si avvicinavano Elroy cominciò ad udire un piccolo coro di voci bianche che cantavano carole di Natale mentre la luce dorata delle candele e del fuoco traboccava dalla porta aperta sul corridoio.
Anthony accanto a lei sorrise.
“Eccoci” e le fece cenno di entrare.
La sala era gremita ed un gruppo di adulti ascoltava i bambini cantare sotto la guida del maestro di musica: William Albert non aveva più di quattro anni, c’erano poi Sarah, Rose Mary e Lilith e alcuni cuginetti che leggevano attenti gli spartiti.
Al pianoforte sedeva William suo fratello accompagnando, in sordina, le voci che si levavano leggere accanto al grande albero addobbato vicino alla finestra.
Sopra il caminetto erano appese tante calze, di fogge e colori diversi, fatte alla bell’e meglio dalle bambine con i ferri.
Si vide in un angolo, accanto ad un giovanotto che le parlava da vicino: aveva le guance arrossate e lo sguardo basso, non aveva ancora venticinque anni, ricordava bene quel Natale, il più felice di tutta la sua vita, poco prima che William morisse, poco prima che la vita di tutti andasse in pezzi insieme alla carrozza su cui avrebbero viaggiato da lì a poco il fratello e la cognata.
L’ultimo Natale felice.
“Non ci possono vedere, vero?”
“No, zia. Chi è quell’uomo? Quello accanto a voi...”
“Si chiama Henry, Henry Ford, lavorava in una fabbrica a Detroit, mio fratello l’aveva conosciuto lì. Erano diventati amici. William ha sempre avuto l’abitudine di stringere legami con gente di classe inferiore o di raccogliere orfani per strada, in questo William Albert è uguale al padre…”
“Di chi sta parlando zia?”
“Di George, lo vedi quel ragazzino là in fondo? Con i capelli e gli occhi scuri, che sta in disparte? Tuo nonno l’ha preso sotto la sua protezione qualche anno prima di questo Natale che vedi, era ancora molto piccolo.”
“Mi sembra che abbia fatto una buona scelta, George è un brav’uomo, è sempre stato molto buono e paziente con noi…”
Elroy annuì.
Il concerto finì e i piccoli si precipitarono in braccio alla Elroy giovane, primo fra tutti proprio il piccolo William che le saltò al collo per baciarla.
Anthony osservò attentamente la zia, la vide trattenere le lacrime.
“Le manca?”
“Chi?”
“A chi sta pensando?”
Elroy non rispose, due nomi le avevano attraversato il cuore.
Decise di parlare di quello più lontano nel tempo.
“Non ho potuto sposarlo, non potevo, quando William è morto ho dovuto assumere il controllo della famiglia e non c’è stato più spazio per nulla…”
Dell’altro, di Albert, non disse nulla ma ad Anthony non era sfuggito lo sguardo adorante che aveva rivolto al bambino che ora saltellava in giro per la sala e non rispose.
“E’ stato il più grande errore della mia vita…”, mormorò l’anziana donna
Il chiasso dei bambini attirò di nuovo l’attenzione dei due visitatori invisibili.
La giovane Elroy stava ballando un girotondo con i bambini, sollevandoli a turno perché potessero prendere i dolci appesi ai rami dell’abete.
“Eravate davvero diversa zia…”, le disse Anthony con lo sguardo sognante, “Non sa quante volte avrei voluto che avesse fatto la stessa cosa con noi…”
Elroy lo guardò pensierosa…
“Mi avreste voluto così?”
“Sì, anche Stear ed Archie…e credo anche lo zio, la adorava…”
“Come fai a saperlo?”
“Basta osservare…”
Albert si era aggrappato al collo della giovane zia e continuava a darle baci mentre lei rideva e lo faceva girare al ritmo del valzer che la madre stava suonando in quel momento.
Elroy, la vecchia Elroy, si nascose il viso tra le mani, incapace di guardare ancora quelle immagini che aveva sepolto così bene nei recessi della mente fino a quel momento.
Quando scoprì il volto la sala da ballo era deserta, illuminata solo dalla luce bianca della luna che disegnava i contorni delle finestre sul pavimento di marmo lucido…tutto era così freddo ora…
Anthony accanto a lei la guardava in silenzio.
“E ora?”
“Ora il mio tempo è finito…”
“Ma…”
“Domani sera, alla stessa ora, riceverà un’altra visita…”
“Ma…”
“Le ho voluto bene, zia…”, le disse mentre la sua figura diveniva sempre più diafana fino a scomparire.
Elroy cercò di afferrarlo, per poterlo abbracciare, ma Anthony si dissolse come nebbia nelle sue mani.
Lei restò attonita a guardare la sala immersa nella penombra, i colori fino a quel momento brillanti e caldi divenuti lividi e freddi.
Con passi pesanti si avviò verso a propria camera, ben sapendo che non sarebbe riuscita a prendere sonno.
***
L’antivigilia di Natale volgeva al termine ed Elroy attendeva tremante l’apparire del terzo spettro: non riusciva ad immaginare sotto quale aspetto esso sarebbe apparso ma ciò che temeva di più era cosa le avrebbe mostrato stavolta.
Il riaffiorare dei ricordi l’aveva fatta star male tutto il giorno e le aveva impedito di essere presente con la mente agli impegni cui aveva dovuto presenziare.
Le parole del fratello le tornavano alla mente:
Non credi ci sia troppo silenzio in questa casa?Forse c’era davvero troppo silenzio in quella casa.
I bambini di quel Natale di tanti anni prima erano cresciuti e i loro figli non erano stati sostituiti da altri: i nipoti ormai uomini se ne erano andati lontano, Iriza non sembrava particolarmente interessata a mettere al mondo della prole e William…chissà se aveva avuto dei figli…
Non sopportava da tempo la vista dei bambini, le ricordavano ciò che non aveva potuto avere: riuscire negli affari, come aveva fatto lei, aveva richiesto il sacrificio della vita privata, così come aveva fatto suo fratello prima di lei, raramente a casa con la famiglia, e come aveva fatto, in un primo momento, anche William Albert prima di rifiutarsi di mettere al primo posto nella propria vita gli interessi della famiglia.
Non aveva tollerato quel tentativo di conciliare due mondi e soprattutto non aveva tollerato l’incapacità di William di comprendere quanto fosse importante un matrimonio oculato in una società esclusiva come quella americana.
Ma forse, davvero, quella casa cominciava ad essere troppo vuota…
La pendola infine scoccò le 10 e nulla accadde.
Dopo mezz’ora ancora nulla.
Elroy si era quasi convinta che nei giorni precedenti era stata preda di sogni troppo vividi e si stava accingendo a raggiungere la propria stanza quando vide una figura di donna venirle in contro: brillava nel buio di una luce soffusa, calda e morbida.
Le ci volle molto poco per riconoscerla: era la nipote prediletta, Rose Mary.
I capelli biondi e lunghi fluttuavano leggeri ma il viso era triste e gli occhi pieni di pianto trattenuto.
Atterrita la fissò.
“Afferrate la mia veste”, le disse, “il mio compito è mostrarvi questo Natale…”
Un turbine di neve avvolse le due donne e quando Elroy aprì gli occhi di nuovo si trovò di fronte ad un edificio basso e largo, dal tetto spiovente, con un piccolo campanile, dietro di esso una collina sormontata da una grande quercia secolare.
Una quarantina di bambini giocavano nella neve guardati da due donne strette i grandi scialli di lana grezza. Molti dei bambini portavano abiti più grandi di loro, chiaramente frutto di tanti passaggi di mano, forse anche risultato di qualche forma di beneficenza.
Elroy non fece in tempo ad aprire bocca che si ritrovò all’interno dell’edificio, in una stanza in cui campeggiava un alto albero di Natale adorno di nastri di stoffa e biscotti appesi.
Una donna dai lunghi riccioli dorati stava finendo di legare gli ultimi dolcetti all’albero aiutata da una bambina che le somigliava in maniera straordinaria.
“Candy!”, mormorò Elroy, “Ma dove siamo?”
Elroy si guardò intorno piuttosto disgustata.
“Questa è la casa di Pony!”, rispose Rose.
Sentì la porta aprirsi e chiudersi e Albert fece la sua comparsa nella stanza.
Indossava abiti vecchi e logori, molti strati uno sull’altro perché tenessero caldo, la figura imponente dell’uomo appariva un po’ più curva di quanto Elroy non ricordasse. Un velo di barba bionda copriva le guance, accenni di occhiaie scurivano il volto pallido.
Candy sollevò gli occhi e sorrise: “Ciao amore mio, sei tornato presto!!”, quindi si alzò per andare a salutarlo con un bacio mentre la bambina gridava: “Papi, papi!”
“Ciao piccola! Sì, oggi ho finito prima, volevo aiutarvi a…” ma una tosse violenta lo costrinse ad interrompersi.
Candy lo guardò preoccupata: “Dovresti riguardarti di più!”
“Non è niente, davvero”, ma la voce era roca e il respiro affrettato, “Dov’è Anthony?”
”Sono qui papà!”, rispose un ragazzino sui dieci anni.
Elroy dovette soffocare un grido di stupore: era tale e quale al padre, tale e quale al cugino di cui portava il nome.
“Io, io credevo che…”
“Credeva che Candy avrebbe lasciato Albert, vero? E che lui fosse stato troppo orgoglioso per tornare indietro, vero?”
Elroy annuì.
“E invece Albert e Candy sono felici…anche se…”
“Anche se…”
“Lo vedrete da voi, zia”, le rispose fredda Rose.
Elroy sentì un brivido scenderle lungo la schiena.
Albert ed Anthony uscirono.
Candy udì la tosse di Albert tornare di quando in quando ed il viso era preoccupato.
Miss Pony era entrata nel frattempo e le aveva messo una mano sulla spalla:
“Si dovrebbe curare.”
“Lo sa anche lui”, le rispose.
“C’è sempre un posto per voi qui, stareste meglio, ti potresti occupare meglio anche di lui…”
“Albert non vorrebbe ma non ce la facciamo più a pagare l’affitto, credo che alla fine dovremo accettare la vostra ospitalità”, mormorò Candy sull’orlo del pianto.
“Non dirlo nemmeno per scherzo, è la tua casa questa, non devi sentirti un’ospite!”
“Per Albert è una sofferenza non riuscire a mantenere la sua famiglia…”
“Lavorate in due e lui fa due lavori…com’è possibile Candy?”
“Lo pagano una miseria, Miss Pony, e continua a stare male…e poi c’è sempre meno lavoro, anche i miei pazienti non sanno come pagarmi ed io non so dire di no…ma i bambini hanno bisogno di tutto e non vogliamo che smettano di andare a scuola…ma costa…”
Miss Pony sospirò, la vita non era mai stata facile per quella bambina, ora era ancora peggio.
“George ha portato un pacco per voi ieri…”
“Mi spiace non averlo incontrato”
“Non poteva fermarsi a lungo, ha detto che la signora aveva bisogno di lui nel pomeriggio. Cosa c’è dentro?”
“Sono abiti e libri per i bambini, è l’unica cosa che Albert accetta da lui…”, rispose Candy con tristezza.
Più tardi, messi a letto i piccoli, Candy ed Albert aveva scambiato due chiacchiere con le due donne, poi avevano preso i figli e si erano avviati verso casa.
Elroy e Rose Mary li seguivano in silenzio. Elroy avrebbe voluto parlare con William, chiedergli come stava, ma sapeva bene che lui non la poteva vedere ne sentire.
Candy continuava a scrutare il viso di Albert che portava in braccio la piccola Rose addormentata. Anthony camminava tenendo per mano la madre, ciondolando per il sonno, qualche volta tossiva anche lui.
“Cos’ha William?”
“Il male dei poveri, di chi vive in ambienti malsani”, rispose Rose.
Elroy sentì la gola seccarsi.
“E il bambino?”
“Seguirà la stessa sorte del padre…”
Le tremò la voce: “E…e guarirà?”
“Impossibile dirlo, il futuro non è chiaro…”
Le si gelò il sangue nelle vene.
“George lo sa…non mi ha mai detto nulla…”
“Se l’avesse fatto sarebbe cambiato qualcosa?”
Elroy restò in silenzio.
“Albert”
“Dimmi amore mio…”
“C’è qualcosa che ti preoccupa..”
“Non ti si può nascondere nulla, eh?”
“No…”
Albert guardò nel vuoto per un po’, poi: “Ho perso il lavoro…mi spiace…alla segheria mi hanno detto che le commesse si sono ridotte della metà e che non hanno più bisogno di me e di Frank, così ci hanno licenziato dall’oggi al domani…”
“Troveremo il modo di andare avanti…”
“Se penso che…”
“Non ci pensare…”
“Avrei voluto regalarti un bel vestito per Natale e portarti a ballare…”
“Da quando in qua ti piace andare alle feste da ballo?”, gli chiese cercando di scherzare.
“Ricordi la sera del nostro debutto?”
“Sì…”, Candy sorrise sognante, “sembra così lontano…in fondo lo è, sono passati tanti anni…”
“Sembravi una principessa…”
“E tu eri il mio principe…lo sei ancora…”
“Candy mi spiace!”
“Non lo devi dire!”
“Avrei voluto darti di più..”
“Ci sei tu accanto a me e questo mi basta…e ci sono Anthony e Rose…Non potrei essere più felice di così…”
Albert prese a tossire violentemente, tanto che Candy dovette prendere la bambina dalle sue braccia.
“Albert, ti devi riguardare di più…Domani vado a prendere le medicine…”
“No, passerà è solo un po’ di tosse…”
“Vuoi cercare di raccontarla al tuo medico?”
“No amore mio…lo so…ti prometto che mi coprirò bene…ma i soldi servono per la scuola dei bambini…Quando passerà questa crisi vedrai che tutto andrà per il meglio…”
“Credi che passerà presto?…”
Albert scosse la testa, i giornali non facevano che parlare del crollo della Borsa di ottobre e di come tutta l’economia americana fosse sprofondata in un baratro dal quale non si sapeva come uscire.
“Sarà dura piccola”, la tosse ancora arrivava di quando in quando.
“Se andassi a parlare con la zia?”
“No!”, gridò Albert provocandosi un altro eccesso di tosse.
“Ma…”
“No, Candy! Ce la faremo con le nostre forze…”
“Sai, è un po’ che ci penso…il tuo medaglione…è d’oro e pesante, pensavo di venderlo, dovrebbero darci parecchio…avremo i soldi per passare l’inverno…”
“Penso che abbiamo già venduto il tuo anello di fidanzamento e il medaglione è un ricordo, non vorrei che lo facessi…”
“Allora lo porterò al Banco dei Pegni e quando passerà questo brutto periodo lo riscatteremo di nuovo, cosa ne pensi?”
“Candy!”, lacrime di rabbia solcarono le guance di Albert, cercò di non farsi vedere dal figlio e dalla moglie, di nascondersi nel buio ma lei gli sfiorò le labbra con un bacio, “Andrà tutto bene!”
Non una parola cattiva avevano detto i due sposi verso di lei anche se era proprio lei la causa della loro rovina.
“Io, io posso aiutarli, se solo chiedessero…!”, gemette Elroy.
Rose la guardò severa: “C’è bisogno che chiedano?!”
Afferratale una mano, Rose la ricondusse nel turbine di neve.
Non fece in tempo a riprendersi dai propri pensieri che si ritrovò nel salotto elegante di quella che riconobbe come Casa Legan, dove Lilith ed Iriza chiacchieravano accanto al fuoco, il the fumante ed i dolcetti sul tavolo.
“Non la sopporto più!”
“Devi portare pazienza, Iriza, vedrai che prima o poi ce ne libereremo…!”
“Tutte quelle sue fisse su come mi dovrei comportare, su quale marito dovrei trovare, non ne posso più!”
“Dalla sua benevolenza dipende il nostro futuro, ha ancora in mano lei i cordoni della borsa e faremo in modo che, alla sua morte, nel testamento lasci tutto a te. Tuo fratello è un inetto! Da quando William se n’è andato le cose non potrebbero andare meglio per noi…”
“Ah! Vecchia stupida!”
“Di chi stanno parlando?”
“Non l’avete capito, zia?”, le chiese ironica Rose; Elroy l’aveva capito benissimo ma non voleva credere a ciò che stava udendo.
Ancora il turbine di neve: Elroy continuava a ripensare al viso stanco di William e alle parole astiose di Iriza e non riuscì a mettere a fuoco la scena dinnanzi a lei…
“Dove siamo?”, chiese titubante.
“Questa è la casa della famiglia di Rachel, la vostra cameriera, e quello è suo padre, invalido, gli altri sono i fratelli, la madre è morta dando alla luce il più piccolo.”
Elroy si guardò intorno: la stanza era piccola e buia, l’unica luce quella del fuoco di carbone che ardeva nel camino. La tavola era imbandita per la cena, i piatti già sul tavolo, nell’aria un odore di cavolo bollito e cipolla. La porta si aprì facendo entrare freddo e neve ma Rachel la richiuse subito: aveva con sé un fagotto.
Elroy spalancò gli occhi: a quell’ora avrebbe dovuto essere in servizio, non a girare per la città!
“Padre, eccomi!”
“Bentornata cara! Perché quelle lacrime?”
“Domani sera non potrò essere qui e nemmeno a Natale, la signora mi ha rifiutato il giorno libero! Se sapesse che sono qui mi licenzierebbe…sono venuta a portarvi qualcosa da mangiare…”
Il fratello più grande battè un pugno sul tavolo: “Maledetta egoista, vecchia senza cuore! Non ha una famiglia anche lei? Perché non capisce?”
“Non maledirla, Raphael, è grazie a lei che mangiamo…”, lo ammonì il padre.
“Cosa hai portato oggi?”, chiese poi rivolto alla figlia.
“Un po’ di arrosto e del pasticcio di carne; c’è anche un pezzo di pudding.”
“Ma…ma quelli sono gli avanzi della cucina”, mormorò Elroy.
“Già”, le rispose Rose, “Quello che voi gettate viene portato da Rachel alla sua famiglia perché il salario non le basta per curare il padre e sfamare i fratelli, la crisi ha fatto perdere il posto di garzone dal fornaio al fratello più grande che non ha più trovato lavoro…”
“Mio Dio!”, fu l’unica cosa che le riuscì di dire mentre la neve l’avvolgeva di nuovo e si ritrovava sola nella propria camera.
Sentì la pendola scandire tutte le ore della notte fino a quando un sole pallido non fece capolino tra le nubi basse che portavano l’annuncio della neve.
ContinuaCredits
Tutti i personaggi del manga/anime di Candy Candy, presenti in questa Fanfiction, gli avvenimenti ed eventuali frasi riportate appartengono di diritto all’autrice Kyoko Mizuki, alla Toei Animation and Fabbri Editori che curano e distribuiscono il manga/anime in Europa.
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