Candy Candy

Il tormento e l'estasi

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nannetta70
view post Posted on 31/5/2010, 14:58     +5   +1   -1




Buon pomeriggio forumelli tutti, mi concedo una piccola pausa per riprendere le fila di ciò che tempo fa avevo lasciato in sospeso. A dire il vero non credevo che avrei ritrovato l'ispirazione, che, disgraziatamente va e viene. Alle volte la mia fantasia corre all'impazzata, alle volte si ferma di botto e mi lascia a bocca asciutta. Prendetemi così, pazzerella come sono, senza creare troppe aspettative intorno a questa favoletta senza pretese. Per me è solo una valvola di sfogo dalla routine quotidiana, insieme alle traduzioni di Alys che già conoscete. Un po' traduco, un po' scrivo, un po' sogno ad occhi aperti, così come viene, senza programmare niente.

Alcuni di voi già sanno di cosa sto parlando e conoscono anche i primi capitoli della favoletta di cui parlo. L'avevo intitolata Il tormento e l'estasi, ma non sono più tanto sicura che questo possa essere il titolo più azzeccato, anche perché non ho la più pallida idea di come si dipanerà. Magari, se mai dovessi arrivare alla fine (perché non posso garantire che la fantasia non mi abbandoni) troveremo insieme il titolo appropriato, se lo vorrete.

Alcuni capitoli postati tempo fa sono stati ritoccati. Alcuni hanno subito aggiunte, altri qualche taglio.

La molla che ha fatto scattare questa piccola follia è stata la delusione per il finale dell'anime. Inutile nascondere che l'anime, per quando denso di limiti e incongruenze rispetto al manga, abbia comunque influenzato la mia fantasia. Ci sono episodi della storia di Candy e Terence che sono resi meglio nel manga rispetto all'anime, ma se non avessi preso come punto di riferimento l'anime avrei tradito la bambina che allora viveva per Candy Candy e non vedeva l'ora di uscire da scuola per fare tutti i compiti nel primo pomeriggio e avere così l'agognato premio, ossia guardare Candy senza il patema d'animo di non aver adempiuto ai propri doveri scolastici. Era bellissimo, con la mente libera, assaporare la merenda aspettando quella sigla meravigliosa che ha scandito gli anni migliori della mia vita.

Perdonate anche qualche licenza che mi sono concessa, rispetto alla storia originale.

Così eccomi di nuovo qua, grazie al Capitano Esthertr al quale ho chiesto l'autorizzazione a postare in sezione protetta. Non facciamoci illusioni però. Non so ancora come si incontreranno e che cosa combineranno, la sezione protetta l'ho scelta solo a titolo precauzionale, perché la passione incontrollabile di quei due non so a cosa possa portare.

Vi abbraccio tutti, uno per uno.


Capitolo 1

Illinois, Casa di Pony, 6 maggio 1983

-Nonna, coraggio, prendila in braccio, non aver paura.

Una voce argentina rideva divertita mentre sollevava per aria un fagottino avvolto in una tutina di morbida ciniglia rosa, da cui spuntavano corti riccioli castani, due guancie piene e vellutate come pesche e due occhi blu come l’oceano. La vecchia, sdraiata sulla sedia a dondolo, sotto le fronde del grande albero che l’aveva protetta dalla neve quando era stata abbandonata, allungò le mani venose e tremanti per afferrare il fagottino che la giovane le porgeva e, con cautela, se lo portò al petto. Quello, accovacciandosi tra le pieghe del vestito della vecchia, riuscì, brontolando con vigore mentre si portava un pugnetto alla bocca e lo sfregava sulle tenere gengive rosa, a trovare la sua posizione preferita, infilando la manina grassoccia nell’incavo del petto della sua trisavola.
Lentamente, cullato dalla ninna nanna che la donna aveva intonato, chiuse gli occhi e si addormentò. Una lacrima di commozione bagnò la guancia rugosa della vecchia, mentre, immobile per non svegliare quel piccolo cucciolo assonnato, dirigeva lo sguardo verso il cimitero oltre il ruscello che costeggiava la casa, ove riposavano diverse persone che avevano amato e vissuto la Casa di Pony, fra cui le sue fondatrici. Tutto intorno, un ampio roseto, che la donna aveva impiantato decine di anni prima, delimitava il verdissimo prato in cui i piccoli orfani della casa amavano ruzzolare e rincorrersi. A maggio, in piena fioritura, quei boccioli vellutati emanavano un intenso profumo di felicità, la stessa che regnava in quell’oasi di paradiso, ma che si manifestava ai sensi in un particolare mese dell’anno, insieme ai vivaci colori che la donna aveva voluto regnassero nella sua dimora.
La casa aveva subito degli ampliamenti, in modo da poter ospitare quanti più bambini possibile, includendovi un piccolo ambulatorio medico e una scuola con annessa biblioteca, che i suoi benefattori avevano avuto cura di allestire con lo stesso amore con il quale avevano seguito l’educazione dei piccoli ospiti. Vi era sempre la piccola chiesa, ristrutturata con diversi interventi nel corso degli ultimi decenni e arricchita da una campana che cadenzava i lenti ritmi di quel paesaggio bucolico. Tutto intorno tepore, silenzio e ronzio di api alla ricerca di nettare da succhiare.

-Come posso aver paura di prendere in braccio un pargolo, figliola, quando ne ho tirati su tantissimi, oltre i miei. La vecchia si asciugò una lacrima con il palmo della mano e sorrise alla giovane che la osservava con tenerezza.
-Nonna, ti sei commossa un’altra volta. Non voglio che tu stia male. Troppe emozioni ti stancano, lo sai. Dai qua, tanto Rose tra poco dovrà prendere la poppata.
-Aspetta, lasciala ancora un poco tra le mie braccia, ti prego. Voglio che attraverso me, anche il nonno senta il suo calore.
-Nonna! La giovane gettò le braccia al collo della vecchia e la strinse con tutte le sue forze - Nonna - le disse, accarezzandole i capelli sapientemente acconciati sulla nuca - non avrai intenzione di farmi commuovere ancora? Il nonno sarà senz’altro felice di vedere Rose fra le tue braccia, ma non vuole vederti piangere.
-Lo so, figliola, ha sempre sofferto tanto delle mie lacrime, ma lui sa anche che ora io non sto soffrendo, perché il momento di ricongiungerci è molto vicino e non vedo l’ora che arrivi - sospirò la vecchia con un filo di voce - mi dispiace solo che Rose non sia arrivata in tempo per conoscere l’uomo meraviglioso che è stato il suo trisavolo.
-Perché parli in questo modo, tu starai con noi per molto tempo e poi, dobbiamo ancora festeggiare il tuo compleanno - disse la giovane non troppo convinta, turbata dalla determinazione con cui la sua bisnonna aveva pronunciato quelle parole.

La vecchia tacque. Sorrise alla figlia di suo nipote con tutta la dolcezza che quegli occhi, ancora verdissimi nonostante le evidenti cataratte, avevano sempre espresso. Erano ancora due smeraldi, grandi e profondi, vivi, ma velati di serena rassegnazione.
La mente volò a ritroso ai suoi primi dieci anni, festeggiati in quella casa a suon di risate e di una mensa spartana ma immensamente accogliente, con tutti i piccoli abitanti dell’orfanotrofio che lei aveva sempre considerato come fratelli di sangue. Sorrise al pensiero di tutte le marachelle che in quella circostanza aveva combinato, in particolare alle botte che aveva dato e preso da uno dei suoi amichetti preferiti, solo per il fatto che questi fosse felice di lasciare l’orfanotrofio per affidarsi ad una nuova famiglia. Lei non aveva mai sentito il desiderio di allontanarsi da quel posto che l’aveva accolta e protetta come una figlia e allora si era indignata al pensiero che gli altri orfani desiderassero avere un papà e una mamma convenzionali. Non riusciva a capire come facesse il suo piccolo amico a sentirsi tanto felice, lei al suo posto sarebbe morta di disperazione in quel momento. Quel luogo incantato le apparteneva e lei apparteneva a quel luogo. Lì era nata e da lì non sarebbe mai andata via, anche se vi era stato un periodo della sua vita in cui aveva temuto di non ritornarci. Ma alla fine i suoi desideri si erano avverati, perché le circostanze e gli imprevisti che la vita le aveva riservato l’avevano miracolosamente ricondotta a quelle fronde che l’avevano avvolta fin da piccina come braccia materne. Una ribelle dal cuore nobile e non una nobile dal cuore ribelle, l’aveva sempre definita l’uomo della sua vita. Perché indifferente alle usanze del casato a cui apparteneva, aveva deciso di vivere gli ultimi decenni della sua esistenza assecondando il proprio spirito libero e ridendo in faccia alle convenzioni. Invisa alla classe sociale a cui apparteneva per le sue scelte poco ortodosse, aveva rinunciato a vivere nel lusso e nella mondanità pur di tornare alle sue umili origini.
-Violet, ascoltami, io sono felice di andarmene da questo mondo, che mi ha donato tante sofferenze ma anche immense gioie. Dopo anni di tormento e di pena ho potuto avere una famiglia mia, grazie ad un uomo che è stato per me padre, fratello, amico, amante tenero e appassionato, complice, compagno di avventure e sventure, senza il quale io mi sono sempre sentita persa, come adesso. Lui è stato un faro nella mia vita e lo sarà anche nell’aldilà. E il mio posto è accanto a lui, ovunque sia non ha importanza.

La giovane si staccò dal collo della donna per guardarla diritto negli occhi.
-Pensi sempre a lui, non è così?
-Si, ogni istante della giornata. Ogni mio pensiero è impregnato della sua presenza. Lui ha sempre dettato i ritmi della mia esistenza, anche ora. Nonostante sia andato via un anno fa, io lo sento accanto a me. Sento il suo respiro, il suono della sua voce che mi accarezza, lo sento rabboccarmi le coperte la notte e sedersi al bordo del letto in attesa che io mi addormenti. Sento le sue mani che mi accarezzano i capelli e mi cingono la vita, sento che mi chiama con quel buffo nomignolo che mi ha sempre fatto tanto arrabbiare. Sento che mi aspetta. In passato mi ero convinta di poter realizzare i miei sogni e vivere la mia vita escludendolo dai miei piani, ma il destino ci ha dimostrato che siamo nati per amarci, anche al di là di questo mondo. - Tacque, ritornando ad osservare il cimitero oltre il ruscello.

-Ho predisposto tutto, Violet, per quando arriverà il momento, vorrei che rispettaste le mie volontà - proseguì con il fiato corto. Un colpo di tosse le impedì di proseguire e Rose si svegliò di soprassalto, piangendo disperatamente per essere stata strappata così violentemente dalle braccia di morfeo.
Presto la bimba tornò fra le braccia della madre, mentre la vecchia si rilassava sulla sedia a dondolo, poggiando il capo sulla spalliera.
-Perché non mi racconti ancora di lui, nonna? Chiese la giovane mentre allattava la piccola.
Un lieve sorriso increspò le labbra sottili, circondate di piccolo rughe - Non ti sei stancata si sentirmi parlare di lui?
-Non potrei mai stancarmi di sentirti raccontare del vostro primo incontro e delle vostre scorribande al collegio. Ma non ti sei mai soffermata troppo sul vostro riavvicinamento a Londra.
-No? Strano figliola, perché quello è stato uno dei periodi più intensi della mia vita…e anche più emozionanti - proseguì dopo una breve pausa con un sorriso malizioso.
-Ma non mi hai mai raccontato nei particolari come vi siete riavvicinati tu e il bisnonno.
-No? Lo sanno tutti figliola. Allora sei l’unica a non saperlo…
La donna sospirò, con espressione sognante. Ripercorrere le tappe di quell’avventura non le era di peso. L’aveva raccontata tante di quelle volte che oramai neppure si ricordava più quali potessero essere le persone a lei vicine che non ne erano al corrente. Era stanca, spossata, quasi senza fiato oramai. Sentiva che l’anima stava per congedarsi dal quel corpo ridotto ad un fardello diventato troppo pesante da sopportare. Ma decise che valeva la pena fare ancora un piccolo sforzo, per quella pronipote che tanto le somigliava e che lei tanto amava per averle donato l’ultima gioia sulla terra: quella di veder nascere una creatura tanto simile nei lineamenti al suo amato marito.

Chicago, 25 marzo1920

Ancora incredula davanti a quel pezzo di carta, in viaggio sul treno che la riportava a Chicago, Candy leggeva e rileggeva, con un misto di compiacimento e di orgoglio, il contenuto dell’attestato rilasciato dalla Medical School dell’Harvard College, la più prestigiosa Università degli Stati Uniti. L’autocompiacimento non faceva parte della sua indole, né per lei costituiva un vanto esibire un titolo che nulla aggiungeva alle sue doti umane e professionali, frutto di un’inclinazione naturale proiettata verso il suo prossimo e sapientemente esercitata lungo le corsie degli ospedali. Ma quel pezzo di carta, quel banale pezzo di carta era la prova schiacciante che un’umile orfanella cresciuta nella campagna dell’Illinois, lontana dallo sfarzo che caratterizzava la vita in casa Andrew e che lei suo malgrado aveva dovuto condividere fino ad allora, poteva farcela con le proprie forze.
Non che non fosse riconoscente agli Andrew per la loro generosità. O meglio, tutta la sua gratitudine era rivolta a William Albert Andrew, il suo benefattore, colui che gratuitamente e senza chiederle niente in cambio, le aveva offerto un affetto sincero, l’aveva cresciuta, protetta e istruita, non tanto per farne una persona migliore di quanto già non lo fosse, ma soprattutto per esaltare qualità che lui, arguto uomo di mondo, era riuscito ad intravvedere in lei fin da bambina.

Difatti, davanti a quella che la zia Elroy aveva definito l’ennesima intemperanza di quell’orfana vivace e turbolenta, l’unico che immediatamente si era schierato dalla sua parte era stato proprio lui, Albert. Si, Albert, che lei non era riuscita mai a chiamare zio William, vuoi per la giovane età del milionario, vuoi per la confidenza che si era instaurata fra loro fin dai tempi in cui avevano convissuto a Londra, vuoi per quel sottile legame che li univa e che li aveva fatti sentire sempre come fratelli nell’anima.
E poi Albert, così refrattario al protocollo e alle formalità che aveva sempre dovuto subire, quale rampollo di una delle più prestigiose famiglie degli Stati Uniti degli inizi del XX secolo, con lei poteva permettersi il lusso di essere se stesso, di parlare dei suoi argomenti preferiti, la natura, gli animali, dei suoi sogni nel cassetto, del desiderio di tornare in Africa, di tutte quelle cose che alla Zia Elroy avrebbero fatto storcere il naso di disgusto.
In fondo un incompreso Albert, che una volta rivelata la sua vera identità, si era ritrovato circondato dai benpensanti dell’alta società di Chicago, falsi e opportunisti fino al midollo, i quali non perdevano occasione per tentare invano di conquistarsi la sua simpatia facendo sfoggio delle loro abilità nel polo, il criket, la caccia alla volpe come se fossero l’unico scopo della loro vacua vita, ignari di suscitare al contrario tutto il disprezzo dell’uomo che, a stento, riusciva a malapena a tollerare le riunioni conviviali a cui era sottoposto. Tuttavia, un uomo solare Albert, la cui indole ottimista e genuina non era stata neppure lontanamente scalfita dall’ipocrisia in cui era immerso per nascita, quell’ipocrisia e superficialità che avevano finito per esaltare in lui il desiderio di contrapporvisi ogni volta che se ne fosse presentata l’occasione, quasi un’arma di autodifesa, un muro elevato a protezione della sua reale natura di uomo semplice di fronte alla rigidità del blasone e dell’etichetta.
E soprattutto un uomo di carattere Albert, che non aveva esitato un attimo a difenderla a spada tratta in più di un’occasione, l’ultima, il suo desiderio espresso alla zia Elroy di prendere la laurea in medicina.

-Candice, ti proibisco perfino di pensare ad un’eventualità del genere, figuriamoci di attuarla. Ti ho già ripetuto più volte che le signorine della buona società non lavorano e non vivono da sole. E ho già sopportato abbastanza le tue stravaganze. Hai già superato abbondantemente l’età da marito e dovresti iniziare a preoccuparti di trovare un buon partito prima che sia troppo tardi - La voce stridula della zia Elroy risuonava nella sala da intrattenimento di palazzo Andrew a Chicago. Con quell’aria stanca, il colorito olivastro e i capelli più grigi del solito raccolti in uno chignon, non sembrava passarsela troppo bene. Forse era semplicemente invecchiata, pensò Candy.
-Prima che sia troppo tardi per cosa, zia Elroy? Candy già sapeva dove la zia volesse andare a parare, ma non si volle privare del piacere di risponderle provocatoriamente, sostenendo lo sguardo della vecchia. Non era più la timorosa bambina che aveva subito in silenzio per anni la freddezza e l’indifferenza di quella strana donna. Le aveva perdonato l’umiliazione subita con dignità e rassegnazione, quella volta che a Londra l’aveva respinta in occasione della passeggiata domenicale con i cugini Corwell; e quella volta che, di ritorno da New York febbricitante e dolorante, l’aveva cacciata di casa in malo modo, denigrandola agli occhi di tutta la famiglia. Ma non aveva dimenticato lo sguardo sprezzante con cui, in tutte quelle occasioni, l’aveva guardata dall’alto in basso facendola sentire inadeguata e fuori luogo. Perdonare si, non ne avrebbe potuto fare a meno, dimenticare no, perché non era lei che doveva vergognarsi, ora che era cresciuta lo aveva capito.

-Hai inteso perfettamente quello che voglio dire Candice- rispose Emily Elroy, alzandosi dalla poltrona in cui era sprofondata e poggiandosi sul bastone traballante sotto il suo peso - Sono vecchia ormai e un altro dispiacere da parte tua sarebbe fatale per me. Ti prego di non insistere, la nostra discussione finisce qui - e così dicendo si avviò verso l’uscita, subito sostenuta dalla sua dama di compagnia, spuntata miracolosamente dal nulla non appena si era sollevata dalla poltrona. Sapeva di poter far leva sul buon cuore di quella giovane a cui non era mai riuscita ad affezionarsi, ma che aveva suo malgrado tollerato per l’affetto viscerale che nutriva verso suo nipote William. I legami di sangue erano quelli che contavano realmente per Emily Elroy, le affinità di cuore erano un concetto troppo elevato per un animo arido come il suo.
“La solita arma del ricatto morale”, pensò Candy, “come se farmi sentire in colpa possa servire a farmi cambiare idea.” - Non cambierò idea zia Elroy, sono una donna ormai, indipendente per giunta, che le piaccia o no - le gridò Candy alle spalle, mentre la zia spariva dietro lo stipite della porta, infrangendo ancora una volta il protocollo che imponeva alle signorine di buona famiglia di non avere mai l’ultima parola, soprattutto con le persone più grandi e di rango più elevato.

Quella stessa sera Albert aveva indovinato subito il turbamento di Candy. Seduti sul divano di fronte al camino dello studio di lui, con in mano una tazza di tè bollente, si scambiavano come al solito le impressioni relative al vissuto della giornata. Lei gli raccontava, con il suo solito fare brillante e carico di entusiasmo, gli avvenimenti della giornata, le persone incontrate, i casi disperati ma anche i successi professionali, la soddisfazione di aver salvato una vita umana, lo sconforto di averne perduta una. Le mani che gesticolavano, quasi ad aggiungere enfasi ad ogni parola pronunciata con tono squillante, come se l’espressività dei suoi occhi mentre parlava avesse bisogno di ulteriore sostegno per descrivere i fatti. Ma non ne aveva, in realtà. Perché quella luce negli occhi già bastava a dire tutto. Il volto di Candy non era solo bello, era anche espressivo , di quella espressività tipica di un’anima profonda e sensibile. Candy comunicava più con gli occhi che non con le parole, occhi verdi, grandi e profondi come specchi d’acqua di un’anima pura, occhi da cerbiatto che si potevano leggere come un libro aperto. Candy non poteva avere segreti, meno che mai per Albert.

-E quindi hai cucito quel pover’uomo senza somministrargli prima un po’ di anestetico?- Domandò Albert tra una risata e l’altra, mentre lei, tutta rossa in viso, si portava le mani in fronte.
-Beh, diciamo che me ne sono accorta in tempo, in realtà mi ero distratta a guardare fuori dalla finestra la fioccata di neve che veniva giù, nonostante sia marzo inoltrato. Ma poi mi son fatta perdonare esagerando un po’ con l’anestetico, al punto tale che quel poveretto si è addormentato sul lettino come un sasso. Ma almeno sono riuscita a fare bene il mio lavoro, la cicatrice neppure si vede! esclamò lei felice del risultato ottenuto, davanti ad un Albert sempre più divertito.
-E dimmi un po’, Flanny si è accorta di qualcosa? Mi immagino la sua faccia! chiese Albert sempre più incuriosito dall’espressione di Candy.
-No, per fortuna. Quando è entrata nella sala del pronto soccorso il tizio si era appena risvegliato. In realtà, era un po’ confuso, ma Flanny ha pensato che fosse per via dello spavento. Lui non era in grado di fornire spiegazioni e io sono sgattaiolata fuori come se niente fosse - concluse lei con l’espressione tipica di chi viene sorpreso con le mani nel sacco.
-Sei la solita pasticciona Candy, ma ciò che mi sorprende di te è che poi riesci sempre a cavartela egregiamente - continuò lui. In realtà avrebbe voluto chiederle perché, quella sera, l’espressione dei suoi occhi fosse particolarmente intensa, a volte quasi distratta da qualcosa che voleva celare ma che a lui non era sfuggita.
-E tu, raccontami di te oggi - chiese lei, indovinando lo sguardo interrogativo di Albert. No, non voleva parlargli del suo colloquio con la zia.
-Al solito- rispose lui- soliti colloqui di lavoro, solite lamentele dei dipendenti, solite lettere di protesta, solita noia…Candy, perché non mi racconti tutto? aggiunse, senza riuscire a trattenersi oltre.
- Tutto cosa? -rispose lei, lo sguardo perso a guardare il fuoco del camino. Lo sapeva, ad Albert non avrebbe potuto nascondere nulla, e in fondo neppure era giusto perché ciò che aveva sempre contraddistinto il loro rapporto era proprio la sincerità.
-Voglio essere un medico- affermò lei senza tanti preamboli. In fondo la schiettezza l’aveva sempre ripagata.
-Bene, e cosa te lo impedisce? chiese Albert per niente turbato da quell’affermazione così perentoria. Il silenzio li avvolse entrambi, insieme alla penombra che era scesa nella stanza. I capelli di Albert, sempre lunghi, nonostante la moda del momento imponesse agli uomini dell’alta società il capello corto e ben curato, brillavano sotto le luci che i tizzoni ardenti del camino proiettavano. Le braccia incrociate sul petto, il volto rivolto verso Candy, una gamba accavallata sull’altra.
-La zia Elroy sostiene che non sia conveniente per una signorina di buona famiglia lavorare e vivere da sola. Figuriamoci poi esercitare una professione da uomini. Non voglio darle cruccio, ma sento che la mia vita può andare solo in una direzione, ed è quella che già ho intrapreso. Non ci sono altre strade per me Albert. Non dopo quello che è successo a New York. - Improvvisamente, era diventato difficile parlare, spiegarsi. Ancora una volta, e nonostante fossero passati diversi anni, anche solo lontanamente pensare a New York , le scatenava un senso di vertigine e di disagio che le impediva di parlare. Perché continuava a farle quell’effetto? Dopotutto non aveva più saputo nulla di lui e, lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Non funzionava così?
-Se intendi continuare gli studi perché il lavoro ti appassiona, come credo e vedo, e hai il desiderio di migliorare, sarò felice di darti tutto il mio appoggio Candy. Non saresti la prima donna medico nella storia di questo paese. E neppure mi importa di quello che pensa zia Elroy, né dell’etichetta che t’imporrebbe un buon matrimonio con il miglior partito sul mercato in questo momento. Ma se questo tuo desiderio nasce dall’idea di soffocare nel lavoro sentimenti che ti ostini a celare, sappi che non mi avrai fra i tuoi alleati. Il modo in cui ti occupi degli altri attraverso la professione di infermiera già ti assorbe completamente, l’abnegazione di te stessa è più che evidente in ogni azione che compi e ritengo che questo sia già più che sufficiente. Non hai nessuna colpa da espiare Candy, ricordalo bene e …- esitò - …quello che è successo a New York…è stato frutto delle circostanze e di una decisione presa da entrambi consapevolmente, giusta o sbagliata che fosse.

Le parole di Albert la colpirono come un ceffone. Come faceva quest’uomo a leggerle nell’anima con tanta facilità? Meglio di lei lui aveva intuito le ragioni recondite del suo desiderio di diventare medico. Raggiungere l’apice della preparazione professionale per raggiungere l’apice dell’annullamento di se stessa per gli altri. Dedicarsi completamente alla felicità altrui, visto che per la sua non ci sarebbe stato più spazio, né tempo da dedicare.
-Una cosa non esclude l’altra Albert - si voltò a guardarlo negli occhi azzurro cielo, che aspettavano una reazione, consapevoli di averla suscitata – è vero, da quando lui non fa più parte della mia vita, sono riuscita a colmare il vuoto che mi ha lasciato solo grazie al lavoro che più mi appassiona. Ed è anche vero che forse il mio modo di prendermi cura degli altri riflette il bisogno di esorcizzare un dolore che non si lenisce in poco tempo, ma è anche vero che io amo questo lavoro e non vedo perché dovrei precludermi la possibilità di migliorarmi solo perché le donne del mio tempo aborriscono il lavoro e la tua famiglia, dico tua Albert, perché la mia sei solo tu, oltre alle mie madri, ne fa una questione di protocollo.
-Quindi questo vuoto è stato colmato?O mi sbaglio? Le chiese Albert, tuttavia scettico circa la risposta della ragazza
-Questo non ha più importanza Albert, lui ha una sua vita, per di più con un’altra donna, non voglio neppure parlarne - gli rispose, un po’rattristata e un po’ infastidita, più con se stessa che non con Albert che l’aveva portata su un argomento così scottante per lei.
-Perdonami Candy, non volevo riportare a galla avvenimenti che, da quello che leggo nei tuoi occhi, sono ancora freschi di giornata. Il vuoto non è colmato Candy, e prima ne prenderai coscienza meglio sarà per te. Neppure riesci più a pronunciare il suo nome, ci hai pensato? Non si può fuggire per sempre, la realtà va affrontata, ma se può esserti di conforto, ti aiuterò a diventare ciò che già sei, un ottimo medico - E così dicendo si alzò dal divano con agilità, la sua statura imponente ed elegante, il fisico asciutto ed agile di chi è vissuto per molto tempo all’aria aperta.
-Buonanotte Candy- le disse mentre si voltava a guardarla con quello sguardo colmo di serenità che le infondeva sicurezza.
-Buonanotte Albert - rispose lei, voltandosi subito dopo a guardare i tizzoni del camino che iniziavano pian piano a spegnersi, ancora frastornata dall’analisi psicologica della sua interiorità, così messa allo scoperto dal suo amico. Si, aveva ragione, lui aveva la capacità di sbatterle in faccia la realtà con una delicatezza innata e inusuale in un uomo, e forse solo da lui lei avrebbe accettato tanta franchezza. Ma sapeva anche che da Albert poteva aspettarsi tutto il bene possibile e che il suo era un autentico tentativo di aiutarla a recuperare se stessa, non tanto come persona, quanto come donna.

Una donna che, dal suo ritorno a New York, aveva fatto di tutto per occultare la sua femminilità, rifiutando il corteggiamento di tutti gli uomini che con lei avevano tentato un approccio, scoraggiando, a volte maldestramente, le avances di questo o quel pretendente, vestendo con una sobrietà portata all’eccesso anche nelle occasioni in cui la sua appartenenza alla famiglia Andrew le imponeva quel minimo di formale civetteria considerata attributo indispensabile delle signorine di buona famiglia. La divisa da infermiera era diventata il suo scudo di protezione dagli sguardi ammirati degli uomini che incontrava nel suo cammino, l’ancora di salvezza di fronte alla galanteria dei più spavaldi, baluardo di un’emancipazione femminile che di lì a poco avrebbe portato al riconoscimento alle donne del diritto al voto anche negli Stati Uniti.

Eppure, la sua malcelata femminilità, costretta tra le pieghe di abiti informali, finiva sempre per emergere, con tutta la sua prepotenza, dai suoi sorrisi, dalla sua gestualità, dai modi garbati e allo stesso tempo diretti con cui si relazionava con il suo prossimo, dalla linea ben proporzionata di fianchi e seni, da quegli occhi che parlavano senza parole, di un verde cangiante a seconda degli stati d’animo, dal brillante edera allo scintillante smeraldo, arricchiti da folte ciglia e incorniciati da una perfetta arcata sopraccigliare. La bocca a cuore sapientemente disegnata per strappare baci anche al più freddo degli uomini sulla terra, il nasino all’insù e tutte quelle efelidi sparse sugli zigomi alti, che lungi dallo scomparire con l’età, si accendevano alla luce del sole, donandole un bel colorito lievemente ambrato che faceva contrasto sul resto della pelle bianchissima del suo corpo.
I capelli poi, neppure si rendeva conto di quanto attraessero l’altro sesso. Sapientemente raccolti in un morbido chignon sulla nuca, erano tanto ribelli che non riuscivano a stare al loro posto per troppo tempo. Così, tra una urgenza in corsia e l’altra, una o più ciocche sfuggivano al nastro che inutilmente li imprigionava, per finire ad incorniciarle l’ovale perfetto come se fossero il frutto di una posa studiata da parte della proprietaria. Di un biondo d’orato, dagli accenti caldi, quei capelli attiravano l’attenzione di tutti coloro che incontrava nel suo cammino, uomini e donne, vecchi e bambini. Lei al contrario non vi prestava attenzione mentre spostava le ciocche ribelli dietro l’orecchio con gesti frettolosi e impazienti.

Certo le code oramai non le portava più, ma di tanto in tanto le tirava fuori quando si recava alla casa di Pony, dove poteva giocare con i suoi piccoli amici e arrampicarsi sugli alberi, senza dover rendere conto a nessuno del suo comportamento ribelle e poco consono ad una signorina in avanzata età da marito. Perché ancora, a 22 anni,Candy si arrampicava sugli alberi, e correva e saltava e l’avrebbe fatto fino a che le fossero rimaste energie da spendere, in barba alla sua famiglia adottiva che l’avrebbe voluta relegata al ruolo di annoiata padrona di casa e moglie di un noioso e panciuto rampollo di buona famiglia.
Solo Albert non le chiedeva di essere ciò che non sarebbe mai stata, di fare ciò che non avrebbe mai fatto, solo lui non la forzava a trovare marito e non solo perché la rispettava dal profondo del cuore, ma anche perché era l’unico ad aver capito che mai lei si sarebbe donata a qualcuno senza amore. Perché nel suo cuore non c’era più spazio per un altro amore. Perché l’amore, quello vero, totale, pieno e incondizionato lei lo avevo già incontrato e il suo cuore ne era ancora totalmente impregnato. Un amore di quelli destinati a durare per sempre, che non si dimenticano più, che fanno morire e rinascere contemporaneamente per non morire mai.
Solo Albert aveva compreso il suo stato d’animo e senza fare domande le era stato vicino quando lei si sentiva sprofondare nel baratro del nulla. Quel nulla che, nonostante gli impegni professionali che la gratificavano umanamente, alle volte riemergeva dalle fondamenta del suo essere per ricordarle la sua fragilità, facendo vacillare l’unica certezza a cui era ancorata ora la direzione che la sua vita aveva preso: quella di aver agito per senso del dovere e dell’onore, di avere agito secondo i dettami di una generosità intrinseca alla sua natura, che mai avrebbe potuto strapparsi di dosso senza rinnegare se stessa.

E così, quell’amore mai morto ma più vivo che mai, per l’unico uomo che avesse su di lei il potere di farla sentire in paradiso e all’inferno allo stesso tempo, donna e bambina, forte e fragile, di suscitarle un miscuglio di emozioni, sensazioni, sentimenti, quell’uomo che ora era di un’altra, per sempre, ora quell’amore mai sopito lei lo aveva convertito nell’amore per il suo prossimo, i sofferenti, i deboli, i derelitti, un amore che non poteva sopprimere o strapparsi dal petto come se fosse un corsetto, ma che poteva riscattare donando tutta se stessa a chi più ne avesse bisogno. Una sorta di patto con la Candy ragionevole per non soccombere alla ragione, un modo per salvare l’unica cosa che gli rimaneva di lui, senza cadere nel baratro della morte dell’anima, ossia l’amore per lui. E solo grazie a questo amore convertito era sopravvissuta al dolore e alla conseguente apatia per un vita senza il suono della sua voce, senza la musica della sua armonica, senza quel suo modo irriverente di prenderla in giro e di guardarla, insinuandosi nelle pieghe del suo essere come soltanto lui sapeva fare anche solo con uno sguardo.

Questo amore ora aveva bisogno di un'altra prova con cui confrontarsi, aveva bisogno di crescere per continuare a donarsi, svilupparsi attraverso la ragione, andare a braccetto con l’intelletto per perfezionarsi e per rendersi totalmente disponibile al prossimo. Miss Candice White Andrew sarebbe stata un medico, a qualunque costo, anche se avesse dovuto indebitarsi fino al collo a vita per pagarsi gli studi.
Non ce ne fu alcun bisogno, perché Albert riuscì ancora una volta ad imporre la sua autorità con il solito fare pacato che finiva sempre per innervosire la zia Elroy.
-È fuori discussione William! Non basta dover sopportare l’oltraggio di vederla lavorare in quell’ospedale tutti i giorni. Non esce accompagnata, non frequenta i salotti, e rifiuta tutti i partiti che le propongo. Questa ragazza è la pietra dello scandalo della nostra famiglia, non intendo tollerare un’altra stravaganza William. Sono stufa di venire additata per quella che non ha saputo educare come si conviene quell’orfana. Mi pento amaramente del giorno in cui ho acconsentito all’adozione! Gli occhi di Emily Elroy erano rosso fuoco, mentre si portava la mano al petto come se volesse simulare un malore. Le scenate melodrammatiche le erano sempre piaciute, ma con Albert non sortivano alcun effetto.
- Si calmi zia, non è il caso di agitarsi- le rispose Albert con il suo fare compassato per niente turbato, sorseggiando il suo tè appoggiato alla mensola del camino - anche perché la decisione è già presa, quindi è del tutto inutile scaldarsi tanto, oltre che dannoso vista la sua età. L’espressione di Albert tradiva un misto di divertimento e commiserazione per quella povera donna, degna solo del suo compatimento, a cui doveva, suo malgrado, il rispetto dettato dal legame di sangue che li univa. - Da quando Candy ha raggiunto la maggiore età, non è più sotto la mia tutela, ma per mia volontà può già disporre di una cospicua somma di danaro, parte dell’eredità che le spetta di diritto. Per cui frequenterà la migliore Università esistente negli Stati Uniti e prenderà la laurea in medicina, come desidera. Quanto ai pettegolezzi, zia, lei sa bene che non mi sono mai curato delle idiozie a cui fa tanto caso la nostra famiglia e non inizierò di certo adesso. Quanto invece ad un eventuale scandalo, io mi preoccuperei di più se di Candy si parlasse negli stessi termini con cui si parla delle signorine altolocate della nostra società che hanno libero accesso alla nostra casa e di cui tanto lei si compiace, che dietro il falso perbenismo nascondono un animo lascivo, pronte a tradire il talamo nuziale per una notte di libidine con un uomo che non è il proprio marito! Se non c’è altro zia, avrei un mucchio di carte che mi attendono- e con questo Albert William Andrew lasciò una scandalizzata zia Elroy a bocca aperta, incapace di ribattere ad una realtà che lei conosceva tanto bene, ma che le regole della alta borghesia di cui faceva parte le imponeva di sottacere.

E così quel pezzo di carta in mano, come lei lo chiamava, poggiato sul grembo traballante sotto le sollecitazioni del treno in corsa, le conferiva il titolo di dottore in medicina tanto agognato, con una specializzazione in pediatria, espressione della sua propensione per bambini. “Visto che non potrò averne di miei, mi occuperò di quelli degli altri” si diceva, lei che cercava di immaginare come sarebbero stati i suoi se ne avesse avuti, e li vedeva tutti con i capelli castani e gli occhi blu mare in burrasca.
Ad Harvard si era letteralmente tuffata negli studi, passando giornate e nottate intere a perfezionare quanto aveva imparato tra le corsie degli ospedali in cui aveva lavorato. L’unione fra l’esperienza, la preparazione e l’innato intuito avevano dato eccellenti risultati, elevandola al rango di studentessa migliore della facoltà di medicina. La maturità l’aveva resa meno distratta, ma aveva conservato comunque la capacità di alleggerire le situazioni più serie con una battuta al momento giusto e anche se a volte ne combinava una delle sue, la sua rinomata serietà la portava sempre a correggere il tiro appena in tempo per non far danno.

Con quel titolo in mano era tornata a Chicago, ancora incerta su come e se utilizzarlo. In realtà, nulla era cambiato in lei se non per l’acquisizione di un maggiore professionalità che le avrebbe consentito di prendersi a cuore anche i casi più disperati, ma la sua indole, così carica di umanità, quella non era cambiata per niente.
-Flanny sarà orgogliosa di me - pensava mentre rientrava a casa in treno, meditando sul da farsi il giorno seguente, quando avrebbe preso servizio in ospedale. Come l’avrebbero accolta? Come la Candy di sempre, giocherellona e dalla battuta pronta o come la dottoressa Candice Andrew a cui si deve riverenza e verso cui si prova soggezione e senso di inferiorità?

Flanny. Le era sempre importato della sua opinione. Ci teneva a fare bella figura davanti ai suoi occhi, perché in lei aveva sempre riposto una sconfinata fiducia. Era a Candy che Flanny in fondo incuteva soggezione, con quel suo modo serioso di affrontare la vita e il lavoro, che la facevano sembrare più grande dei suoi 25 anni. L’espressione grave del volto, forse retaggio di un’infanzia non proprio felice, la rendevano a volta più cupa di quanto in realtà non lo fosse. I lineamenti delicati, anche se non perfetti, rispettavano però perfettamente le proporzioni del suo volto e l’insieme era veramente molto gradevole. Gli occhi grandi e scuri, profondi ed espressivi, non sorridevano mai, o quasi, solo le rare volte in cui Candy la sorprendeva con uno dei suoi scherzi. Quegli occhi, che lei nascondeva dietro le lenti degli occhiali. Candy l’aveva vista più di una volta senza, ed in effetti, erano molto più grandi di quanto non sembrassero dietro le lenti. I capelli lunghissimi, lisci e corvini, rigorosamente raccolti in una coda di cavallo, mai lasciati sciolti sulle spalle per non incorrere nel rischio di cadere nella civetteria tipicamente femminile che lei tanto detestava. Se Candy era morigerata nell’abbigliamento, Flanny davvero rasentava la mortificazione per antonomasia di tutto l’universo femminile. Tuttavia, la figura slanciata e il portamento elegante tradivano una femminilità sicuramente meno conturbante di quella di Candy ma altrettanto attraente per il sesso forte, che ad ogni buon conto sembrava intimidito dai suoi modi autoritari e alle volte perfino bruschi.
I loro rapporti inizialmente non erano stati facili. L’istintiva simpatia che Candy aveva provato per Flanny non era stata immediatamente contraccambiata. Candy considerava Flanny un punto di riferimento, una sorella maggiore su cui poter contare nei momenti difficili che la professione spesso riservava loro, certa dell’assoluta affidabilità della giovane donna che mai si era smentita in tutti quegli anni. Flanny, al contrario, non nutriva troppa fiducia in Candy, che considerava una bambina viziata, inesperta per vocazione e inidonea ad affrontare un lavoro tanto impegnativo. Una ribelle che tentava di andare contro corrente pur di fare dispetto alla sua blasonata famiglia.
No, non le piaceva inizialmente, eppure, suo malgrado col tempo dovette ricredersi. La naturale diffidenza della ragazza cedette il posto pian piano alla tenerezza che Candy sapeva infondere al cuore umano. Quei sorrisi aperti tradivano sincerità, la sua disponibilità, in orari impossibili in cui anche le infermiere più pazienti sbottavano, rispecchiava quella profonda umiltà che non poteva appartenere ad una borghese capricciosa e petulante. Candy non aveva timore di sporcarsi le mani con il sangue dei proletari, pur essendo cresciuta in un ambiente che i proletari li teneva a distanza. E questo bastò a conquistarla.

L’accoglienza in ospedale era stata strepitosa. Le sue colleghe di corsia, la caposala, il medico di reparto, tutti le diedero il benvenuto e in quell’istante Candy capì che nulla era cambiato nell’animo delle persone che per lei avevano sempre nutrito solo sentimenti di benevolenza. Era come se non si fosse mai separata da loro, come se quegli anni passati sui libri fossero stati solo pochi giorni, come se il tempo si fosse fermato nel momento in cui il suo treno partiva per Harvard e avesse ripreso a scorrere proprio in quel momento. Lei era sempre l’infermiera Candy Candy in fondo, quella con tante lentiggini, che un diploma di laurea in medicina non avrebbe mai cancellato.

-Cosa pensi di fare ora?- le chiese Flanny, nel momento di pausa che condividevano insieme, come sempre, sedute su una delle panchine nel parco interno dell’ospedale. Restia alle smancerie e all’esternazione dei propri sentimenti, Flanny si era limitata a concedere un frettoloso abbraccio all’amica, per poi tornare in corsia, rimandando ad un altro momento la domanda che tanto le stava a cuore fare.
-Quello che ho sempre fatto. Occuparmi dei malati. Ad Harvard ho capito che non me la cavavo tanto male come infermiera. Ora ho acquisito qualche conoscenza medica in più ma, di fatto, questo non cambia molto la sostanza delle cose. Ci sono cose che non si imparano sui libri, ma solo ascoltando il tuo prossimo e cercando di capire come puoi aiutarlo - rispose Candy con un mezzo sorriso, mentre si allungava sulla panchina per sgranchirsi le gambe, incrociando le braccia dietro la nuca.
-Quella di cui parli si chiama empatia, Candy, e tu ne hai da vendere, a differenza di me che posso eseguire perfettamente un’amputazione, ma non sono capace di leggere nel cuore della gente come sai fare tu- aggiunse Flanny, in tono vagamente sconsolato. Per la prima volta da quando la conosceva, Candy notò nel tono di voce dell’amica un’insolita inflessione, come di insoddisfazione rispetto a ciò che era sempre stato lo scopo della sua vita, il lavoro, e di rimprovero verso se stessa.
-Flanny tu sei l’infermiera migliore che io abbia mai conosciuto e quello che ho imparato lo devo a te e Miss Marry Jean. Non capisco di cosa tu stia parlando - le rispose Candy, sorpresa nel vedere una Flanny così insolitamente demoralizzata.
-Candy, io…ho sentito la tua mancanza, voglio dire…mi sono resa conto che…dove non arrivo io, arrivi tu e viceversa. Ecco, ho pensato che ora, con quel diploma, potrai aspirare a diventare qualcuno in campo medico, magari a trasferirti in qualche altro ospedale che ti offra di più, economicamente e professionalmente. Dopotutto perché dovresti accontentarti di..
-Flanny, cosa dici? La interruppe Candy, sempre più sorpresa dalle riflessioni dell’amica - Perché dovrei cambiare ospedale? Io sto bene qui, con te, con voi, mi sento a casa e…
-Fammi finire Candy- le parlò sopra Flanny. – Quello che voglio dire è che tu, rimanendo qui, sprecheresti il tuo talento e butteresti alle ortiche anni di studio e sacrifici. Perché invece non pensare a come sfruttare al meglio le tue potenzialità? Il tono di Flanny questa volta era deciso, quasi autoritario, non era un consiglio, era un ordine.
-Io, beh , ti ringrazio, non ci avevo ancora pensato, quel pezzo di carta serviva più a me stessa che…
-Sciocchezze Candy- la interruppe di nuovo Flanny, con ancora più enfasi. - Quel pezzo di carta, come lo chiami tu, riflette il valore che di te già tutti conoscono. Non l’hai preso solo per te, non prendermi in giro. Il mondo sta cambiando per fortuna, non dimenticare che questo anno è stato riconosciuto in tutto il paese il diritto al voto per noi donne, e che sempre più spesso siamo chiamate a ricoprire incarichi che prima erano considerati appannaggio degli uomini. La grande guerra ci ha spinte a rimboccarci le maniche. Laddove i nostri uomini morivano al fronte in Europa, le nostre braccia li sostituivano in fabbrica. La forza lavoro eravamo noi Candy, e lo siamo ancora, anche se la guerra è finita grazie al cielo. Soprattutto perché la guerra è finita e c’è ancora tanto da fare.
- Non capisco, io…la interruppe ancora, timidamente, Candy.
-Ho una proposta da farti- Flanny inspirò come se volesse raccogliere tutto il suo coraggio. Il petto si gonfiò, la voce assunse un tono ancora più grave - Poc’anzi ti ho detto che mi sei mancata perché la tua assenza mi ha aperto gli occhi. Io e te ci completiamo Candy. Il mio sangue freddo, la tua sensibilità, la mia tempestività, il tuo intuito, il mio rigore, la tua elasticità, la mia esperienza al servizio della tua preparazione, la nostra professionalità.
-È molto bello quello che dici - disse Candy, ancora incredula davanti ai complimenti di Flanny. Non avrebbe mai immaginato di suscitare la stima di quella donna dall’apparenza così fredda e scostante, né tanto meno avrebbe pensato che davvero le volesse così bene, anche se col tempo aveva imparato a conoscerla.- È per questo che lavoriamo così bene insieme e siamo anche amiche, le due cose non sempre vanno di pari passo- aggiunse ancora non riuscendo a capire dove l’amica volesse arrivare.
-Non montarti la testa - si affrettò a ribattere Flanny, con un’espressione ironica degli occhi che ammorbidiva il suo solito tono brusco. - Amo le sfide e, forse, insieme, potremmo cogliere quella che mi è stata appena lanciata - proseguì, ora eccitata mentre guardava l’amica diritto negli occhi.

Candy rimase in silenzio, il cuore diede un’accelerata. Lei non si era mai tirata indietro davanti alle prove e alle sfide della vita, che l’avevano sempre galvanizzata. Era riuscita perfino ad avere la meglio su un sentimento che fino a qualche anno prima la stava distruggendo, sublimandolo nell’elevazione degli altri al primo posto della scala dei suoi valori. Occhi verdi negli occhi neri, attese che l’amica continuasse.
-Qualche giorno fa, ho ricevuto la visita di Miss Mary Jean, la quale mi ha parlato di essere in contatto epistolare con il direttore medico dell’ Homoeopathic Hospital di Londra, che ha recentemente ottenuto il patrocinio del Duca di Lancaster. Sai di cosa sto parlando?
-Certo - rispose Candy, catturata dalle parole dell’amica. Un lampo di eccitazione attraversò anche i suoi occhi - è l’ospedale londinese che si occupa di cure alternative che nell’epidemia di tifo del 1854 riuscirono a salvare più vite umane delle cure tradizionali.
-Brava. Con il riconoscimento ufficiale del Duca di Lancaster, l’ospedale ha ottenuto nuovi fondi da investire nella ricerca di cure alternative a patologie del nostro tempo considerate letali, soprattutto per i bambini, visto l’alto tasso di mortalità in età infantile. Per questo è stato avviato un piano di reclutamento di personale altamente qualificato da impiegare in questo nuovo progetto, disposto a sacrificare la propria vita al servizio della medicina, ma anche dall’intelligenza aperta a nuove sperimentazioni in campo omeopatico. Che ne dici, Candy?- ora il sorriso di Flanny era inequivocabilmente aperto e rifletteva tutto il suo entusiasmo. La decisione per lei era già presa, ma avrebbe voluto partire con la sua amica.
-Io, non saprei, non so se ne sarei all’altezza - per un attimo, l’insicurezza intrinseca alla sua profonda umiltà prese il sopravvento. Anche se in cuor suo sapeva che non era il lavoro a spaventarla, ma il luogo in cui si sarebbe dovuta trasferire.
Londra. Un sapore dolceamaro invase la sua bocca. Londra e la Royal Sant Paul School. Un fitta la petto. Londra e la seconda collina di Pony. Un senso di languore nello stomaco. Londra e il suono di un’armonica, lo zoo Blu River e le passeggiate nei boschi. Il battito accelerato del suo polso e il colorito improvvisamente acceso non sfuggirono ad un’attentissima Flanny.
-Andiamo Candy – il tono un misto di rimprovero e di insolita tenerezza - Sai bene che ne saresti all’altezza. Saresti, saremmo, perfette tu ed io, e lo sai. Sii sincera con te stessa, non è il lavoro a preoccuparti ma il fatto che a Londra viva Terence e sua moglie e…
-Non pronunciare quel nome Flanny, ti prego - la interruppe Candy con le lacrime agli occhi. Sentire il suo nome anche dopo tanti anni le provocava sempre lo stesso effetto. Il solo suono di quelle consonanti e vocali le strappava i punti della ferita che lei, con tanta cura, aveva cercato di cucire e ricucire. Ma quei punti di sutura erano debolissimi, bastava un soffio per farli saltare, era la peggiore suturazione che lei avesse mai eseguito perché, lungi dal rimarginarsi completamente, la ferita rimaneva sempre aperta in profondità.

Dopo quella notte a New York, con in tasca la decisione che avrebbe cambiato il corso della sua vita, lei era ritornata prima alla casa di Pony e poi a Chicago e con fatica aveva ripreso in mano le redini della sua vita. Certo, l’appoggio affettivo non le era mancato e questo indubbiamente l’aveva aiutata parecchio. Sentirsi amati e compresi non è un lusso che tutti possono permettersi, né qualcuno aveva mai pensato di recriminare sulla sua decisione. Chi conosceva bene Candy sapeva che, davanti a circostanze tanto inquietanti, non c’era spazio per una decisione diversa da quella definitivamente presa.
Quello che lei non avrebbe mai immaginato quella notte a New York era che dopo tanti anni lei potesse continuare a sentirsi esattamente come nell’istante in cui aveva compreso la gravità della situazione. La sua vita aveva preso una piega che la gratificava, non poteva negarlo, che l’aveva immunizzata dalla depressione nemica della sua indole, ma quel dolore, così lancinante e devastante, era rimasto e lei lo teneva a bada non cedendogli il passo, ma quello la seguiva sempre, ovunque lei andasse, alimentandosi della profondità dei suoi sentimenti come l’ombra trova sostentamento nel sole.

Alla fine si era arresa. Quel dolore era inseparabile dalla sua anima. Ne era diventato parte integrante, non poteva strapparlo senza lacerarsi e così aveva finito per conviverci. Aveva trovato il coraggio di guardarlo in faccia ogni giorno e di accettarlo per quello che era, una parte di se stessa, ma ad una condizione. Che non prendesse il sopravvento. In un certo senso era riuscita a cronicizzarlo non pronunciando più il nome di lui, non menzionando fatti che lo riguardassero, non rievocando ricordi o persone che, anche solo indirettamente lo coinvolgessero, non leggendo più i rotocalchi che riportavano i suoi successi professionali e le sue vicende familiari.

Ripassò mentalmente lo strazio provato nel leggere la lettera di Susanna, dopo la loro rottura. Non posso camminare ma so che lui è dalla mia parte. Lui è dalla mia parte. Una semplice frase densa del più profondo dei significati. Lui ha accettato di stare con me per sempre. Tutto ciò che posso fare è aspettarlo per sempre, se sarà necessario. Non mi perderò d’animo fino a che lui non cadrà ai miei piedi. E prima o poi lo farà. Questo era il messaggio di Susanna, celato dietro i suoi modi gentili e delicati, questa era la realtà che l’aveva fatta piangere inconsolabile per giorni e notti intere, immaginando che prima o poi lui sarebbe finito tra le braccia di lei.

E così, per la prima volta in vita sua lei aveva mentito. Io sto bene. Terence ora è nel mio passato e non guardo indietro. Un giorno ci rivedremo forse, quando saremo diventati vecchi, e rideremo molto. Sapeva di mentire, perché sapeva, mentre scriveva, che non avrebbe potuto chiedere tanto a se stessa. Lei non era una fonte inesauribile di risorse e il pozzo da cui attingere in tutti quegli anni si era prosciugato. Sapeva anche che la menzogna non faceva parte della sua natura e che già le era costato parecchio scrivere ciò che non corrispondeva al vero. Perché lui non faceva parte del suo passato, dopo tanti anni lui faceva ancora parte di lei come una seconda pelle. Perché ancora si guardava indietro e si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se quel maledetto incidente non fosse mai accaduto. Perché non si sarebbe più rivisti, lei non avrebbe sopportato di vederli insieme felici, figuriamoci ridere molto. Quante idiozie aveva dovuto scrivere per avvalorare la sua decisione.

Grazie Terence, ora sono felice...ti ho amato. No, quella lettera invece non ebbe proprio il coraggio di spedirla perché non c’era niente di più falso. Poteva forse convincere gli altri di questo, poteva convincere lui e lei, ma non avrebbe più potuto guardarsi allo specchio dopo la dichiarazione di una menzogna tanto grande. Lei non sarebbe stata mai più felice. Senz’altro avrebbe raggiunto la serenità, frutto dell’elaborazione del lutto, tipico di una personalità equilibrata come la sua, ma la felicità mai. Felicità sarebbe stato svegliarsi accanto a lui al mattino, condividere con lui gioie e dolori di una vita insieme, ascoltare la sua voce, placare i suoi scatti d’ira, consolarlo nei momenti di sconforto, ridere, piangere e invecchiare insieme. Felicità sarebbe stato accarezzargli i capelli, guardarlo negli occhi, fare l’amore con lui per l’eternità e crescere i suoi figli. Quello solo era il sapore della felicità per lei. E lo amava ancora, e lo avrebbe sempre amato, sempre e per sempre.

Ora, la proposta di Flanny scombussolava il precario equilibrio che lei tanto faticosamente aveva raggiunto. Sebbene Londra, agli inizi del XX secolo, fosse considerata la città più grande del mondo e le opportunità di incontrarsi potevano essere ridotte al minimo, il solo pensiero di vivere in un luogo in cui avrebbero respirato la stessa aria, calpestato le stesse strade, mangiato lo stesso cibo, le risultava insopportabile.
Quando per pura casualità aveva letto del suo matrimonio con Susanna e del loro trasferimento insieme a Londra, per un attimo si era sentita mancare dal dolore che aveva provato. Un dolore sordo, fisico, un pugno allo stomaco che le aveva impedito di toccare cibo per diversi giorni. Ma il pensiero che lui avrebbe vissuto il resto della sua vita oltreoceano l’aveva parzialmente sollevata. Non ci sarebbe stato più il rischio, anche remoto, di incontrarsi, e i rotocalchi locali avrebbero diradato la pubblicazione di notizie sull’attore più famoso del momento. Quella era l’ultima notizia che aveva appreso di lui.

-Ti chiedo scusa se sono stata così invadente, non ho rispettato il patto che abbiamo fatto tanti anni fa - disse Flanny alzandosi dalla panchina e parandosi davanti a lei con le braccia incrociate. - Lo so non dovevo nominarlo, ma è inutile nascondersi dietro un dito. La verità è che tu hai paura di incontrarlo di nuovo e di quello che proveresti nel vederlo con lei, ora che sono sposati.
-Basta Flanny - ora la voce di Candy era irritata, mentre, ancora seduta nella panchina, la guardava dal basso verso l’alto. - Non è necessario che tu mi ricordi quali siano le mie paure. Le conosco molto bene, una per una. Ci convivo ogni giorno e oramai non possono più farmi troppo male. Me ne hanno già fatto abbastanza in passato. Quindi, ti prego, non fare sempre quella che porta la verità in tasca. Con me non ce n’è bisogno!
-E allora vieni con me! - disse Flanny tentando di scuoterla - ti prometto che non lo incontrerai, se non lo vorrai. Ci butteremo a capo fitto nel lavoro, otterremo dei risultati strepitosi, affronteremo la nuova sfida insieme. Flanny era un fiume in piena, Candy non l’aveva mai vista così entusiasta. Inoltre gesticolare come stava facendo non era una sua prerogativa, lei che con uno sguardo e pochi cenni della mano sapeva spiegarsi perfettamente.
-Certo che non lo voglio incontrare – rispose Candy alla frase che più l’aveva colpita rispetto alle altre - non voglio incontrare un uomo che appartiene ad un’altra donna, nemmeno se non fosse…lui. E così dicendo si alzò dalla panchina e si diresse verso l’entrata della corsia, mani nelle tasche, testa alta, passo deciso.
-Non mi hai dato una risposta - le corse dietro Flanny, impaziente di capire le intenzioni dell’amica.
-Ci penserò e quando avrò deciso ti farò sapere- le rispose Candy senza voltarsi, gli occhi verdi fissi davanti a sé, l’espressione pensierosa. In realtà aveva già deciso.

Edited by nannetta70 - 2/6/2010, 15:37
 
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Grazie nannetta cara per aver postato la tua storia.......mi piace molto come hai scelto di iniziarla :wub:
 
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nannetta70
view post Posted on 31/5/2010, 17:05     +1   +1   -1




Vado avanti. Qualche ritocchino qua e là rispetto a quello originario, ma la sostanza è invariata.

Capitolo 2

New York, 28 gennaio 1919

Il 1918 era stato un anno menomabile per gli Stati Uniti. La fine della grande guerra mondiale, decretata l’11 novembre del 1918 con l’armistizio fra gli alleati e la Germania, aveva sancito l’ingresso degli Stati Uniti nell’economia mondiale quale maggiore potenza industriale. Grazie al calo produttivo in Europa, di lì a poco i commerci statunitensi avrebbero prosperato in tutti i mercati mondiali e le esportazioni di prodotti agricoli e industriali sarebbero aumentate notevolmente. Dal punto di vista sociale, la guerra aveva apportato numerosi mutamenti, che videro il decisivo contributo femminile alla vita del paese: dalla produzione industriale all’assistenza sanitaria, dall’insegnamento all’impiego nella pubblica amministrazione e nella guida di ditte agricole e artigianali.
Tutta l’Europa, al contrario, era uscita dalla grande guerra in condizioni di grande instabilità politica ed economica. Le gravi perdite di vite umane e di beni materiali avevano sconvolto non solo le potenze vinte ma anche quelle vincitrici. Anche l’Inghilterra si era trovata in una situazione di grande debolezza economica e pesantemente indebitata con gli Stati Uniti. Le difficoltà economiche erano accentuate dal fatto che le industrie erano state trasformate in impianti in grado di produrre solo materiale bellico. Questa situazione portò all’aumento delle tensioni sociali: scioperi ed agitazioni si verificarono non solo in Inghilterra ma in tutta Europa. Aumentarono i partiti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali che provocarono veri e propri tentativi di rivoluzione contro i governi. Soprattutto perché durante la guerra la grande borghesia aveva accumulato grandi ricchezze, a cui finirono per contrapporsi le grandi masse popolari deluse dalle mancate riforme disattese dalle forze politiche in cui la prima si era insinuata .
Tale devastati effetti irruppero nella scena mondiale nell’immediato dopo guerra, a cui si aggiunsero gli effetti delle malattie epidemiche, conseguenza delle privazioni alimentari ed igieniche, imposte dal conflitto tanto ai combattenti, quanto alla popolazione civile. Tra il 1918 e il 1920, infatti, si era diffusa anche oltre i confini europei l’epidemia di “spagnola” (a).

Mentre la grande guerra imperversava sul fronte Europeo, la popolazione americana, sebbene gli Stati Uniti fossero entrati in guerra nel 1917, aveva continuato la propria vita di sempre aliena al dramma vissuto oltreoceano. Alle devastazioni inflitte ai civili in Europa dai carri armati e dagli aeroplani e ai militari dagli scontri corpo a corpo lungo le trincee edificate al fronte occidentale, si era contrapposta negli States una finta spensieratezza, come se l’oceano avesse attutito l’eco del dolore riportato dalle cronache dei quotidiani.
Stravaccato sulla sua poltrona di cuoio preferita, le gambe distese sulla scrivania di legno di mogano invecchiato, un sottile sigaro tra le labbra, piccola indulgenza verso se stesso, che amava concedersi nei momenti di massima concentrazione da quando aveva smesso di fumare,Terence G. Grandchester, leggeva assorto le ultime notizie sulla fine della guerra riportate sul Times. Ogni americano aveva continuato a condurre la vita di sempre e Terence, come gli altri, la propria. La sua fama di brillante attore shakespeariano aveva raggiunto l’acme proprio in quegli anni di tribolazione mondiale e lo aveva oramai consacrato a divo di Broadway a tutti gli effetti. Proporzionalmente ai successi professionali, era cresciuto anche il suo conto in banca, benché il suo tenore di vita non fosse contrassegnato dagli agi che di fatto avrebbe potuto permettersi. Certo, la casa che aveva acquistato in Central Park e l’auto Chevrolet decappottabile nera con la quale soleva circolare per le strade di New York, non erano un lusso che la media borghesia avrebbe potuto concedersi. Tuttavia, conforme al suo animo schivo e nemico dell’ostentazione, Terence non aveva mai fatto sfoggio della sua posizione nell’alta società di allora. La quale invano faceva di tutto per contenderselo nelle occasioni mondane, tollerando le volte in cui lui, senza troppi convenevoli ma pur sempre con l’innata eleganza affinata anche dalla raggiunta maturità, declinava gli inviti, per finire le sue serate alla “Buca degli Artisti”, luogo d’incontro dei giovani bohemién di New York.

Era cresciuto Terence, gli ultimi anni trascorsi, forse, quelli più difficili anche della sua dolorosa infanzia. Un’adolescenza avara di spensieratezza aveva fatto da corollario ad un’infanzia decisamente caratterizzata dall’assenza di calore familiare. Un padre prima invadente, poi assente, una madre insicura e fragile avevano accelerato il processo di maturazione di un adolescente vissuto senza punti di riferimento stabili.
Ciò nonostante, l’indole geneticamente sana aveva avuto la meglio sul ragazzino destinato a perdersi, trasformandolo in un uomo che, alla soglia dei 22 anni, sapeva il fatto suo.

Indubbiamente non era stato facile uscire dal baratro in cui era caduto quando aveva rotto con lei. Di fatto, alle volte, non era neppure sicuro di esserne uscito completamente, ma senz’altro, era riuscito a dominare l’angoscia che lo aveva assalito per mesi e mesi, dopo aver preso coscienza di dover vivere una vita senza Candy. Il vuoto che aveva sentito quando si era dovuto allontanare da Londra, mitigato dalla speranza di rivederla ancora, diventato una voragine nel momento in cui le loro strade si erano divise per sempre, non era minimamente paragonabile a quello che aveva provato quando sua madre lo aveva cacciato. Semplicemente erano due cose del tutto differenti. Perché il cordone ombelicale con Eleonor era rimasto intatto, nonostante l’umiliazione subita quella notte a casa dell’attrice, come solo può essere il legame che lega un figlio alla propria madre, una sorta di richiamo del sangue, pronto ad avere la meglio su ogni sorta di risentimento e di orgoglio. Ma il legame con Candy era molto più stabile del legame che lo univa alla madre ma paradossalmente più burrascoso, un filo sottilissimo di inossidabile acciaio sbatacchiato dai marosi della vita, che tuttavia faceva vibrare le corde della sua anima, che gli accapponava la pelle e lo faceva sentire ancora più vulnerabile di quanto già non lo fosse. Eleonor lo aveva partorito nelle carni. Candy nell’amore. Un filo, nondimeno, minato da rimorso, rimpianto, senso di colpa, sentimenti tutti che avevano devastato la sua anima travagliata, portandolo più di una volta a risoluzioni malsane.

Dopo quella maledetta notte a New York, infatti,Terence aveva vagato senza meta per lunghi mesi, assalito dalla tentazione costante di farla finita, tentazione frenata solo dalla disperazione di sapere che lei, in una eventualità del genere, sarebbe morta di dolore. Perché si può morire di dolore, lui l’aveva sperato ogni dannatissimo e lunghissimo giorno passato a bere, e a bere e ancora a bere. L’alcol aveva annebbiato il sentimento sublime che lei aveva avuto il potere di scatenargli, ma non ne aveva avuto la meglio. Un diamante composto da mille abbaglianti sfaccettature, impregnate di tutti i colori dell’arcobaleno: attrazione, passione, affetto, stima, tenerezza, fiducia, dedizione, simpatia, complicità, ammirazione, una miscela esplosiva capace di farlo sentire in paradiso solo per il fatto di averla incontrata. Un sentimento che inizialmente neppure aveva riconosciuto, lui che di calore non ne aveva mai ricevuto, un sentimento a cui inizialmente neppure era riuscito a dare un nome, ma che con il tempo aveva trasformato il felino selvaggio che era in lui in un docile e mansueto agnellino quando si trattava di lei.

Quel sentimento che aveva dovuto cedere il posto al dovere e all’onore, oscurando le sfaccettature del diamante in un grigio opprimente, rendendo ancora più cupi i suoi giorni e gettandolo in uno sconforto senza via di ritorno. Da quando lei se ne era andata, aveva preso ad odiare tutto e tutti, riflesso di un cieco odio verso se stesso per il fatto di essersi trovato proprio lì, in quel momento, sul palcoscenico, durante le prove, sotto quel riflettore. Forse, se le avesse parlato subito di lei, se avesse avuto la forza di esternare quel fuoco che si portava dentro, anziché tenere sempre tutto per sé, forse Susanna non si sarebbe fatta tutte quelle illusioni su di lui, forse non avrebbe fantasticato come aveva fatto. Eppure lui non aveva fatto nulla per illuderla, anzi, l’aveva educatamente tenuta a distanza, ma forse parlarle sinceramente del sentimento che nutriva per Candy l’avrebbe alla fine stancata. E forse lei non lo avrebbe salvato da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da una vita lontano dal teatro. Ma avrebbe avuto Candy, e questo sarebbe bastato a riempire la sua vita. E con lei al suo fianco avrebbe potuto affrontare qualunque difficoltà e la sua vita sarebbe stata una tavolozza di colori, riflesso di quel diamante che si portava nel cuore, anche senza un braccio o senza una gamba o completamente mutilato. La morte poi, sarebbe stata comunque più gradevole della vita accanto a Susanna, accanto ad una donna che era stata capace di ispirargli prima indifferenza, poi compassione mista a riconoscenza e, infine, nonostante tutti i suoi sforzi per sottrarsi ad un sentimento tanto negativo, disprezzo. Non perché avesse sacrificato la sua vita per lui, gesto altruistico che la sua nobiltà d’animo non poteva ignorare e non apprezzare , ma per il fatto che lei avesse fatto leva sul suo senso di colpa, così privando di valore un gesto di generosità che si era rivelato tutt’altro che disinteressato, pretendendo in cambio un sentimento che lei non avrebbe mai potuto avere come se fosse un oggetto, calpestando la propria dignità in nome di un amore che non sarebbe mai stato corrisposto. Lui che dignità ne aveva da vendere, che odiava le persone prive di amor proprio e che invece aveva finito per odiare anche se stesso, che la dignità l’aveva affogata nell’alcol, accettando di venire calpestato come uno straccio dai balordi che frequentava nelle bettole e che finivano per riempirlo di botte quando lui era totalmente incapace di intendere e volere.

Poi l’incontro con Albert, che aveva odiato con tutto le sue forze mentre ascoltava le sue parole. Che ne sapeva lui dell’amore? Si era forse mai innamorato? Cosa ne poteva sapere della devastazione interiore che aveva fatto scempio del suo cuore? Aveva mai amato Candy come l’amava lui? Sapeva cosa si provava nel vedersi privare dell’unica ragione di vita? Conosceva il deserto che era diventato il suo cuore da quando lui l’aveva lasciata andare? L’aveva detestato come si detesta un benpensante alieno alla sofferenza, che suggerisce l’antidoto ad una malattia che non conosce.

Tuttavia, quella visione da lontano lo aveva scosso dal torpore. Lei, più bella di quanto lui avesse mai potuto immaginare, sembrava così tranquilla, così serena che, per un attimo, inizialmente, si sentì tradito. Si, lei l’aveva tradito, quel viso dal sorriso aperto senza l’ombra del rimpianto, era proprio di chi non sarebbe mai morto di dolore per un amore finito. Lei non aveva perso il rispetto di se stessa, aveva continuato la sua vita con la stessa tenacia, la stessa forza di volontà che lui aveva sempre ammirato in lei e che, per un istante, in quel momento, aveva invece detestato. Perché lei non si era consumata dal dolore come lui? Perché il suo viso era privo di occhiaie figlie di notti insonni, e le sue gote era sempre rosee e piene, mentre lui sembrava un fantasma? Ma poi, il sentimento così forte che ancora provava divorò ogni dubbio. Semplicemente, lei aveva mantenuto la promessa, come gli aveva detto Albert, aveva tentato di essere felice e forse era riuscita nel suo intento. Dopo tutto era stato lui a chiederglielo e a prometterle altrettanto. Era lui, allora, che l’aveva tradita, perché lui la sua promessa non era riuscito a mantenerla. Affrontare la vita con gioia lontano da lei non era così facile per il suo cuore spezzato, né sarebbe stato semplice fingere una serenità accanto ad una donna che al massimo poteva meritare la sua gratitudine. Ma glielo aveva promesso. Non poteva venir meno ad una promessa fatta alla sua Candy. Sarebbe tornato al teatro. Sarebbe tornato da Susanna.

E così, la vita gli si era incollata addosso, suo malgrado. E l’aveva costretto a dirle addio per sempre. Allora era convinto che fosse l’unica cosa giusta da fare. In realtà avrebbe voluto tornare a Londra, come aveva detto ad Albert, ma nel 1916 la guerra in Europa era in pieno svolgimento e non era prudente mettersi in viaggio proprio in quei giorni, meno che mai con un’invalida al seguito. Londra era sempre stata la patria del teatro shakespeariano, in cui si respirava il clima ideale per qualunque attore di teatro che avesse voluto crescere professionalmente. Ma Londra era molto di più per lui, che portava sangue britannico fra le vene. Quel sangue che in un certo periodo della sua vita avrebbe voluto cavarsi dalle vene, generato da un nome che non avrebbe più voluto portare. Ma Londra era anche il luogo in cui i suoi genitori si erano conosciuti e dove lui era stato concepito. Almeno di questo doveva essere loro grato. Perché non avrebbe mai voluto non nascere. Non dopo averla incontrata, aver ascoltato la sua voce, contemplato i suoi occhi, sfiorato i suoi capelli, condiviso con lei quell’indimenticabile stagione alla Sant Paul School. Non dopo aver conosciuto l’Amore grazie a lei.

A Londra lui conservava i ricordi più belli sua vita, quelli che avrebbero alleviato una esistenza di sopravvivenza affettiva. Ed era a Londra che voleva tornare, per porre più distanza fisica possibile tra loro, un mare di acqua, blu come i suoi occhi, a separarli per sempre, come se la determinazione di entrambi non bastasse a scongiurare il pericolo, sempre incombente sulla sua fragilità, di prendere il primo treno per Chicago e andare da lei, prenderla fra le braccia, baciarla fino allo sfinimento, fare l’amore con lei ovunque si trovassero ed in barba alle convenzioni, per poi pentirsi amaramente di averla disonorata. A Londra non avrebbe più saputo nulla di lei, soprattutto non avrebbe saputo che forse un giorno si sarebbe sposata e che avrebbe avuto dei figli da un uomo che non era lui. No, immaginarla consenziente tra le braccia di un altro lo avrebbe davvero fatto impazzire di dolore, avrebbe mandato in frantumi quel fragile equilibrio che le aveva promesso di costruire. A Londra sarebbe riuscito a custodire gelosamente quei ricordi di adolescente innamorato, come si fa con una perla dentro la sua conchiglia. Di quei ricordi si sarebbe saziato ogni giorno per non morire di fame e sete di lei, tentando di rimuovere la lacerazione interiore dettata dalla rottura della loro relazione. New York, al contrario, gli avrebbe ricordato ogni giorno quei momenti sulle scale, il calore della sua schiena contro il suo petto, il suo candido collo fra le labbra, il profumo dei suoi capelli, la loro voce rotta dal pianto, la fine di un sogno. Non avrebbe mai potuto dimenticare quei brevi istanti di felicità per averla finalmente fra le sue braccia, e di dolore per il fatto di doversene così traumaticamente privare. Non aveva più sentito da allora il calore che lo aveva inebriato quanto l’aveva agganciata per la vita, così sottile da poterla racchiudere solo con un braccio. Quel ventre piatto, dove avrebbe voluto rifugiarsi per il resto dei suoi giorni come il focolare della casa che non aveva mai avuto, lui lo sentiva ancora sotto le sue belle dita lunghe e affusolate, mani nervose che avrebbero voluto imprigionarla per il resto della sua vita.
No, non ce l’avrebbe fatta a mantenere la promessa rimanendo negli Stati Uniti, doveva andarsene, forse oltreoceano sarebbe stato meno doloroso pensare a lei.
Aveva dovuto rimandare la partenza di diversi anni, appunto. Era comunque tornato alla compagnia Stradtford e si era immerso completamente nel teatro. Almeno questo non era stato difficile, recitare per lui era la cosa più naturale del mondo. Se Candy aveva sublimato il dolore nel lavoro di infermiera, lui aveva fatto altrettanto con il teatro. Il connubio fra il raro talento e l’innata sensibilità, allenata da una sofferenza sorella del dolore che lo accompagnava giorno e notte, lo trasformarono in un attore poliedrico, capace di saltellare dal melodramma alla commedia con una facilità che scatenò l’invidia dei colleghi e l’ammirazione dei drammaturghi sulla piazza, sia commediografi che tragediografi.

La sua vita ora era solo il teatro e per il teatro, e, nonostante avesse preso il suo impegno con Susanna, a lei dedicava pochissimo del suo tempo, solo qualche ora quando la compassione prevaleva sull’indifferenza. Di lei quasi si dimenticava che esistesse, nonostante si fosse rimproverato in più di un’occasione di essere troppo poco presente. Alle volte trascorrevano diversi giorni prima che si facesse vivo, completamente assorbito dallo studio di qualche nuovo ruolo. Poi si ricordava, e ne aveva pena. E allora la andava a trovare. Parlavano dei successi di lui, di questa o quella intervista, di questo o quel giornalista, poche ora che a lui sembravano interminabili giorni, fino a che la sua indole taciturna prendeva il sopravvento, e neppure riusciva più a rispondere, nemmeno a monosillabi. Allora lei lo congedava fingendo stanchezza, per non subire l’umiliazione di vederlo portarsi alla bocca una mano per coprire uno sbadiglio. Qualche volta la accompagnava ai ricevimenti mondani che tanto lei amava e che lui altrettanto detestava e la scena si ripeteva. Terence che sbadigliava in qualche angolo della sala, che a malapena rispondeva infastidito alle domande dei suoi impertinenti ammiratori con il solito bicchiere di whisky in mano, Susanna che lo scrutava da lontano con il cuore in gola, in preda alla gelosia e allo sconforto di vederlo così scostante e lontano da tutti, soprattutto da lei.
Eppure ce l’aveva messa tutta per mantenere la promessa fatta a Candy. Era diventato il suo obiettivo primario essere degno della donna che amava. In modo forse poco convenzionale per una coppia, lui stava al fianco di Susanna. Aveva comprato quella casa in Centra Park dove erano andati a vivere insieme appena sposati, le aveva dato il suo nome, l’aveva accudita in tutte le sue necessità ma le loro strade non si erano mai incontrate. Avevano viaggiato parallele come i binari di un treno, ma non si erano mai incrociate, intrecciate, aggrovigliate, unite per dar vita a qualcosa di indissolubile ed eterno, come il sentimento che si portava dentro per Candy e che, nonostante tutti i suoi sforzi per conquistare un’apparente serenità, avrebbe condizionato le sue azioni per sempre.

Un leggero tocco sulla porta lo destò dalla lettura assorta, ma lui non rispose. Detestava essere disturbato quando si rinchiudeva nel suo studio.
-Posso entrare Terence? - domandò la vocina di Susanna dietro la porta. Terence si levò di bocca il sigaro per scuotere un po’ di cenere sul posacenere, lo sguardo più cupo del mare in burrasca.
-Che c’è Susanna? - il tono di lui aspro. Ma poi si pentì subito dell’avversione che provava solo a sentire il tono di voce di lei e aggiunse - entra dai, non c’è bisogno di chiedere sempre il permesso.
-Scusa, è che non volevo disturbarti, pensavo che stessi studiando, non sei sceso a fare colazione. - rispose lei, appoggiata sullo stipite della porta con le stampelle fra le mani. L’immagine di quella fragile fanciulla avrebbe fatto tenerezza a chiunque, ma a lui quasi non faceva più effetto. Alla iniziale compassione era subentrato lentamente un senso di fastidio con il quale non riusciva più a combattere, nonostante tutti i suoi sforzi.
-Ti ho detto tante volte che non devi preoccuparti per me, Susanna, farò colazione quando ne avrò voglia. E non guardarmi con quell’espressione negli occhi, per favore. Sto bene e starò meglio quando mi avrai lasciato solo! Era troppo tardi. Ancora una volta l’aveva umiliata. Ma come faceva lei a sopportarlo! Lui si detestava quando non riusciva a reprime la repulsione che provava da un po’ di tempo per lei. Come faceva a non mandarlo al diavolo!
La ragazza abbassò il capo, gli occhi un lago bagnato di lacrime e fece per girarsi lentamente per uscire, ma la voce di Terence la richiamò.
-Scusami Susanna, non volevo essere scortese, è che…sai che quando sto qui non voglio essere disturbato. Sei venuta a dirmi qualcosa di particolare? Nel frattempo si era alzato dalla poltrona e le era andato incontro con falcate decise.

Susanna lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Per lei era sempre la prima volta quando incontrava i suoi occhi. E ogni volta si stupiva davanti a tanta bellezza, come la prima volta che lo aveva visto bussare alla porta della compagnia Stradtford. A 22 anni Terence aveva raggiunto il culmine non solo della fama e del benessere, ma anche della prestanza fisica. I capelli erano meno lunghi rispetto a quando era adolescente, ma arrivavano comunque a coprirgli il collo e la fronte, con quelle ciocche scompigliate che lui spesso si portava indietro con un gesto nervoso. Di un bel castano scuro, lucidi come seta, erano l’emblema della sua ribellione alle convenzioni, che voleva gli uomini dell’alta società con il capello impomatato e tirato all’indietro in modo che la fronte fosse sempre libera. Gli occhi grandi, dal taglio felino, con ciglia folte e nere, di un blu zaffiro grezzo, incastonati in un’arcata sopraccigliare folta, il naso diritto, la mascella scolpita, la bocca sensuale, e quelle fossette sulle guance (b), pronte a fare capolino tutte le volte che articolava parola o sorrideva, Terence era un vero capolavoro della natura. Ad accompagnare un viso che pareva disegnato, il suo fisico non era da meno. Alto, spalle larghe e forti, torace fermo, braccia muscolose e ben proporzionate, fianchi stretti e gambe lunghe, Terence era diventato un uomo che avrebbe fatto impazzire anche le pietre. Ma lui non sembrava rendersene conto, con quell’aria impertinente, annoiata e malinconica insieme, con quello sguardo a volte sprezzante, a volte spavaldo, a volte triste, a volte freddo e cinico, con cui prendeva le distanze dal suo prossimo. Uno sguardo dal magnetismo penetrante, capace di calamitare su di sé l’attenzione di tutto il genere femminile, indipendentemente dall’età.
Anche Susanna era bella, di una bellezza eterea, con quei capelli lunghissimi e biondi, gli occhi celesti e la pelle di porcellana, ma lui la guardò come se fosse un moscerino, con aria interrogativa.
-No, è che, oggi…io…volevo farti gli auguri. Lei trovò il coraggio di guardarlo diritto negli occhi, nella speranza questa volta di vedere una reazione positiva. - Voglio dire, poiché la guerra è finita da poco, oggi potrebbe essere l’occasione giusta per festeggiare anche il tuo…
-Susanna- la interruppe lui visibilmente contrariato - da quanto tempo siamo sposati io e te? Lei abbassò la testa e non rispose - dovresti sapere a memoria che detesto i compleanni, gli onomastici, i cerimoniali e tutte le feste comandate. Mi sbaglio o ne avevamo già parlato? Continuò lui con un tono ancora più esasperato.
Lei chiuse gli occhi. Si sentiva morire quando lui non riusciva a nascondere il suo disappunto. Quegli occhi profondi la mettevano in soggezione, soprattutto quando esprimevano in modo così palese tutto il suo disprezzo.

L’aveva sposata, alla fine aveva adempiuto alla sua promessa. Candy poteva essere orgogliosa di lui. Una cerimonia breve, frettolosa ed incolore davanti al sindaco di New York, aveva suggellato su un pezzo di carta il suo impegno a prendersi cura di Susanna. Lei avrebbe voluto una cerimonia più sfarzosa, in una chiesa adornata di fiori bianchi come il suo vestito, un ricevimento degno della classe sociale a cui lui per nascita apparteneva. Ma Terence si era opposto con tutte le sue forze. Quel momento, prima si fosse consumato e meglio sarebbe stato per lui. Fingere faceva parte del suo lavoro, ma quando si trattava dei propri sentimenti non era tanto bravo. Fingere la felicità poi, per lui era del tutto inattuabile, tanto più che la felicità lui l’aveva solo appena assaggiata qualche anno prima alla St. Paul School, ma non divorata avidamente come avrebbe voluto. Così, quella mattina di marzo del 1917, Susanna era diventata la sig.ra Granchester, destinata a diventare duchessa quando Terence avrebbe ereditato, nonostante il rifiuto manifestato più volte al padre nei loro contatti epistolari, il titolo che spettava ai primogeniti.

Questo era il massimo che, dalla promessa fatta, lui poteva estorcere a se stesso. Perché più passava il tempo, dalla volta che si erano scambiati quel giuramento sulle scale a New York, e più lui si rendeva conto che quella era stata solo una frase di circostanza. Come si poteva parlare di felicità accanto ad una donna per la quale non riusciva a provare altro che indifferenza mista a fastidio? Il solo pensiero di condividere il letto con lei gli dava il voltastomaco. E non certo per il suo handicap fisico. Terence non era il tipo che badava alle apparenze. Ma in lui, negli anni, si era fatta strada l’idea che forse c’era qualcosa di stonato in tutta quella vicenda. Susanna gli aveva salvato la vita, questo era vero, ma Candy l’aveva salvata a Susanna. Susanna non avrebbe voluto essere salvata per vivere una vita lontana da lui, e lui ugualmente non avrebbe voluto essere salvato da Susanna per poi vivere una vita di condanna all’infelicità eterna. E il cerchio era chiuso.

Più volte, appena sposati, lei, fattasi più coraggiosa, aveva tentato di insinuarsi nel suo letto, dopo aver subito con finta rassegnazione la decisione di lui di dormire in camere separate. Era un’acqua cheta Susanna. Completamente nuda, era scivolata fra le lenzuola, si era accucciata contro il suo petto mentre lui dormiva e aveva iniziato ad accarezzarlo, fino a che lui non si era svegliato di soprassalto. Accendendo la luce del candelabro, lui l’aveva guardata come se lei fosse un marziano, si era alzato dal letto e infilandosi la vestaglia, l’aveva coperta con una telo per riportarla nella sua stanza. Nel tragitto tra le due camere, lei tra le sue braccia aveva tentato di baciarlo con trasporto, prendendogli il viso tra lei mani, ma aveva incontrato solo due labbra serrate e due occhi freddi come il ghiaccio. Una volta depositata sul suo letto, lui non aveva detto nulla. L’aveva solo guardata come se fosse trasparente augurandole la buonanotte. Quante volte Susanna, ferita e umiliata dal suo rifiuto, lo aveva accusato di scarsa virilità! Lui, tutte le volte la guardava con uno sguardo misto di commiserazione, disprezzo, disgusto per poi scoppiarle a ridere in faccia in una fragorosa risata che la devastava ancora di più e pentirsi più tardi di averla umiliata, sentendosi ancora una volta un perdente.

Le scenate di gelosia si erano ripetute poi, con una certa frequenza, soprattutto quando lui rientrava a casa a notte inoltrata, dopo aver trascorso la serata alla Buca degli Artisti. A volte sobrio, a volte un po’ meno, ma sempre perfettamente lucido, dopo aver giurato a se stesso che non avrebbe mai più calpestato la propria dignità come in passato, ora che conosceva molto bene il limite oltre il quale non doveva spingersi e sapeva tenere a bada il demone sopito in un angolo del suo subconscio. Susanna, invece, avrebbe voluto che lui quel limite lo superasse abbondantemente, per poi approfittare della sua scarsa lucidità facendo ricorso alle sue doti di maliarda. Rimaneva perennemente delusa, ogni qualvolta lo inseguiva fino alla sua camera, assillandolo con mille domande sulle sue presunte amanti, fra pianti isterici e patetici rimproveri sui doveri coniugali di lui.

Dopo un susseguirsi di porte in faccia, alla fine Susanna si era arresa all’evidenza. Non solo lui non l’avrebbe mai amata, ma più il tempo passava e più era evidente che gli risultava sempre più difficile tollerare anche la sua presenza fisica. In realtà, qualcosa era cambiato in lui da quando era ritornato da lei, dopo mesi di lontananza. Come se avesse preso coscienza di qualcosa che lo logorava lentamente. Se immediatamente dopo l’incidente Susanna aveva scorto in lui qualche atteggiamento di premura, dettato dal senso di colpa che lo attanagliava, ora nei suoi occhi poteva leggere chiaramente solo rifiuto e intolleranza.

Lei inizialmente non avrebbe mai creduto di fallire nell’intento di conquistarlo, né avrebbe mai pensato che la sua vita si sarebbe trasformata nell’inferno che era diventata. Tuttavia, anche se lui non la voleva nel suo letto, lei rimaneva pur sempre sua moglie e sarebbe arrivata a tollerare perfino che lui la tradisse ogni notte, pur di averlo al suo fianco. Purché lui non fosse di Candy.
Così, pian piano, aveva imparato a stargli alla larga, assecondandolo, evitando di fare tutto ciò che lo urtasse, alle volte scomparendo dalla sua vista quando quello sguardo zaffiro era più cupo del solito, accontentandosi solo di poter spendere nelle occasioni mondane il nome dei Grandchester e di comparire, di conseguenza, nelle copertine dei rotocalchi al suo fianco.

-Si, hai ragione, ti chiedo scusa - disse lei, sollevando lo sguardo per guardarlo - Ne avevamo già parlato. Tolgo il disturbo - e così dicendo, con movimenti lenti e leggermente impediti, si voltò per uscire.
-Susanna, ho bisogno di parlarti, ma non adesso, ci vediamo questa sera. Ora ho alcune incombenze da sbrigare. Non aspettarmi per pranzo - le disse lui mentre lei usciva dandogli già le spalle.
-Va bene - gli rispose Susanna senza voltarsi, improvvisamente allarmata all’idea che lui le volesse parlare. Che cosa aveva da dirle? Erano mesi che quasi non parlavano.

La guerra era finita e l’Europa era allo sfascio completo. Per l’Inghilterra, come per altri paesi industrializzati, il periodo successivo alla grande guerra aveva segnato un’epoca caratterizzata dal declino economico, in cui il paese aveva perso progressivamente il proprio vantaggio competitivo e l’apporto dell'industria pesante andava via via diminuendo. Anche Londra aveva subito le devastazioni inflitte dalla guerra e il morale non era proprio alle stelle. Di sicuro, ogni europeo avrebbe voluto attraversare l’oceano alla ricerca di fortuna e prosperità in un paese che sicuramente, dopo la guerra, aveva molto più da offrire. Sarebbe stato da pazzi voler affrontare il viaggio inverso per esporsi alle incognite di un paese che a fatica tentava di riprendersi dal trauma bellico. Ma era proprio quello che Terence intendeva fare. L’idea di trasferirsi a Londra non lo aveva mai abbandonato in tutti quegli anni, anzi era diventata un imperativo. Il desiderio di partire si era fatto sempre più prepotente man mano che il tempo passava e il dubbio di avere preso quella decisione in balia delle emozioni scatenate da eventi indipendenti dalla loro volontà si era insinuato nella sua mente come un tarlo.
L’acquisita maturità gli aveva prospettato quelle infauste circostanze di quattro anni prima sotto una luce differente. La convivenza forzata con Susanna lo aveva costretto a riesaminare con più lucidità gli eventi passati. Era sempre più convinto che Candy, salvando la vita a Susanna avesse saldato il debito di lui. E allora era lui che doveva considerarsi debitore di Candy, non solo perché lei era comparsa nella sua buia vita illuminandola con i suoi sorrisi, ma anche perché, ubbidendo all’innato istinto di immolarsi per gli altri e rinunciando al proprio uomo, Candy aveva donato a Susanna la vita due volte, come persona e come donna. Candy era in credito con tutti e due. Perché non ci aveva pensato prima? Erano due ragazzini allora, troppo sprovveduti di fronte alla crudeltà della vita per poter ponderare con serenità le conseguenze delle loro azioni. Si era sentito perso allora, in balia di un senso del dovere che, data la giovane età e il travaglio interiore che lo torturava, lo aveva schiacciato completamente. Il susseguirsi concitato degli avvenimenti gli aveva impedito di mettere insieme i tasselli del rompicapo e ora era troppo tardi. Troppo tardi, perché lui aveva finito per sposare Susanna, ma soprattutto troppo tardi per piombare di nuovo nella vita di tuttelentiggini e sconvolgerla un’altra volta dopo la riacquistata serenità. Era passato troppo tempo. Terence aveva letto la lettera che Candy aveva spedito a Susanna. Vigliaccamente, Susanna aveva fatto in modo che lui la trovasse sullo scrittoio della corrispondenza, una sera in cui era andato a trovarla. Susanna aveva provato un sadico piacere nel vedere i lineamenti del bel viso di Terence contorcersi dal dolore mentre con labbra tremanti leggeva sotto voce le parole di Candy. Se in quel momento l’avessero pugnalato avrebbe provato meno dolore. La certezza che lei lo avesse dimenticato gli era piombata addosso come un macigno, schiacciandolo inesorabilmente.
E se mai lui avesse voluto tornare alla carica con Candy, lei lo avrebbe ancora voluto nella sua vita?Avrebbe voluto nella sua vita un uomo divorziato? Che diritto aveva lui di irrompere nella sua vita prepotentemente, così come anni addietro ne era uscito? Non l’avrebbe gettata in pasto allo scandalo, lei che già aveva dovuto subire tante umiliazioni per il fatto di essere un’orfana? Terence le doveva tutto, l’amava troppo, l’amava ancora, dopo tanti anni, il fuoco non si era spento. Ma non poteva più tornare indietro.
Varcare l’oceano era l’unica alternativa che gli era rimasta. Andare il più lontano possibile. Accettare l’offerta che gli aveva fatto il Repertory Moviment Act (c), con sede a Londra, era l’occasione che stava aspettando. Da tempo sentiva un irrefrenabile bisogno di cambiamento, recitare i classici non appagava più la sua anima inquieta e sempre bramosa di nuove sfide con cui confrontarsi, un desiderio di rinnovamento e di nuovi stimoli lo tormentava da quando il teatro era diventato la sua ragione di vita. La compagnia stabile di teatro di repertorio nazionale, in grado di offrire a rotazione un repertorio ricco di un'ampia varietà di spettacoli di alto livello, che promuovesse la nuova drammaturgia al pari di quella classica, il teatro inglese come quello straniero e le forme di teatro popolare così come quelle di intrattenimento meno praticate, rappresentava l’opportunità di crescita a cui lui aspirava.

Ora che la guerra era finita, non restava da fare altro che comunicarlo a Susanna. La compagnia Stradtford ne era già al corrente e nulla avrebbe potuto contro la sua ostinazione a voler partire. Susanna lo avrebbe accompagnato se avesse voluto. Altrimenti era disposto anche a partire da solo.

La giornata era trascorsa celermente. Un salto da Robert, uno alla biglietteria, uno alla Buca degli Artisti, e di nuovo a casa, a preparare le valigie.
Appena varcata la soglia, fu colpito dal silenzio e dal buio in cui era immersa la casa. Strano, perché Susanna aveva paura del buio e lasciava tutti i candelabri accesi durante la notte. Inoltre era solita ascoltare musica classica a tutto volume fino a tardi, quasi a voler colmare il vuoto di quella grande casa con le note dei melodrammi italiani.
Con uno strano presentimento nel cuore, avanzò di qualche passo nella penombra dell’anticamera del salone d’ingresso e accese uno dei candelabri affissi ad una delle pareti. Si tolse il soprabito nero, i guanti, la giacca dell’abito grigio scuro e li appoggiò un attimo su una delle poltrone, per poi andare ad accendere le altre luci. La lunga giornata passata a completare i preparativi della partenza lo aveva fiaccato e non vedeva l’ora di andare a letto.
Improvvisamente, tutte le luci si accesero insieme accecandolo e istintivamente lui si portò una mano a coprire gli occhi.
-Happy Birthday to you, happy birthday to you, happy birthday mister Terence, happy birthday to you! Un’esplosione di voci scoppiò chiassosamente nella sala e prima che lui potesse fare qualcosa per realizzare quanto stava accadendo, le braccia di Susanna gli cingevano il collo, mentre il corpo di lei gli si abbandonava contro, lasciando cadere a terra le stampelle.

Per una frazione di secondo lui pensò di essere nel bel mezzo di un incubo. Quando abbassò le mani, si trovò faccia a faccia con Susanna, la bocca di lei appena un centimetro distante dalla sua, in mezzo al salone circondati da una moltitudine di conoscenti e perfetti sconosciuti che li guardavano compiaciuti e battevano le mani.
-Che cosa è questa pagliacciata Susanna? - il tono della voce era basso, grave, un sussurro a denti stretti, lo sguardo gelido, impassibile, le sopraciglia arcuate in una espressione sprezzante. Con fermezza e cautela, la staccò da sé, raccolse le stampelle mentre la reggeva con un braccio e la rimetteva in piedi.
Un silenzio imbarazzate cadde nella sala, mentre decine e decine di occhi li fissavano con il fiato sospeso, in attesa di vedere la reazione dello sposo alla sorpresa della moglie.
-Buon compleanno amore mio. Anche se a te non importa festeggiarlo, importa a me e non voglio privarmi del piacere di trascorrere questa giornata che per me è speciale come merita, insieme ai nostri amici - rispose lei guardandolo negli occhi con aria di sfida. Non c’era traccia di tenerezza in quel momento negli occhi celesti di Susanna.
-Nostri amici ?! - chiese lui, con falsa aria interrogativa e un lampo di ironia negli occhi blu. Ma prima che lei potesse aggiungere qualcos’altro, proseguì con tono pacato, mentre guardava ognuno dei presenti diritto negli occhi - Signori, sono felice che la mia casa sia considerata da voi un luogo di incontro in cui imbastire i vostri frivoli passatempi. La mia consorte è maestra in questo genere di intrattenimenti e sono sicuro che non avrete niente in contrario se continuerete a trascorrere il resto della serata in mia assenza. Sono sicuro che non sentirete la mia mancanza, come io di sicuro non sentirò la vostra. Ora, vogliate scusarmi ma vado a ritirarmi nelle mie stanze, domani mi attende una giornata particolarmente impegnativa. Buonanotte Susanna - concluse, senza neppure guardarla in faccia, mentre faceva un lieve inchino ai presenti e si voltava per prendere le sue cose.
-Dove vai Terence? Dobbiamo parlare, io e te - disse Susanna con voce stridula rotta dal pianto, mentre afferrava con forza le stampelle e lo seguiva - Signori, vi prego, continuate pure, vi raggiungerò presto - disse ai presenti, voltandosi un attimo con aria mortificata.
Lui continuò a camminare con passo tranquillo e deciso, senza neppure voltarsi. Quando arrivò davanti alla porta delle sue stanze, lei lo aveva quasi raggiunto - Terence, ti supplico, perché fai così, aspetta, ti prego parliamo - ora la voce era supplichevole, ma a lui sembrava più lagnosa del solito.
- Hai ragione, è vero, dobbiamo parlare io e te, entra - le rispose sbrigativamente mentre apriva la porta. Un volta dentro, accese diversi candelabri e buttò distrattamente soprabito e giacca su una delle poltrone del salotto di fronte al camino. Mentre poi lui si serviva dell’whisky scozzese in uno dei bicchieri di cristallo poggiati sulla imponente madia di noce intarsiato, Susanna varcò la soglia della camera.
-Accomodati- le disse lui con tono neutro, facendole un cenno per sedersi, mentre rimaneva in piedi a guardarla, una mano in tasca e l’altra a reggere il bicchiere.
Lei rimase in piedi, lo sguardo ferito, un leggero tremore nelle braccia che sostenevano le stampelle e nella voce- Terence, siamo sposati da due anni, non possiamo andare avanti così, senza dialogo, senza calore, senza…
-Non è un problema mio Susanna - la interruppe subito lui, sempre con il suo snervante tono neutro - io posso andare avanti così per l’eternità.
-Terence, è un problema nostro invece, siamo marito e moglie, perché ti ostini a trattarmi come un’estranea? -scoppiò a piangere lei alla fine, accasciandosi su una delle poltrone e coprendosi il volto con le mani.

Lui rimase impassibile. Forse era giunto davvero il momento di parlare, di chiarire, una volta per tutte. Facendo uno sforzo, decise che era meglio sedersi, di fronte a lei. Dopotutto lei rimaneva comunque degna di un colloquio civile.
-Susanna, ascoltami bene - iniziò una volta seduto sulla poltrona di fronte, il busto portato in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia mentre entrambe le mani sostenevano il bicchiere.- Diversi anni fa io ho commesso un grave errore. Ma ci sono errori che si pagano per il resto della vita. Ti ho promesso che mi sarei preso cura di te e finora credo di averlo fatto. Hai un tetto sicuro, un conto in banca che, per tua fortuna, non si prosciugherà mai, nonostante i tuoi salassi, cure mediche da parte dei migliori specialisti sulla piazza, un nome rispettabile che puoi esibire come fai con i tuoi abiti firmati, insomma conduci un’esistenza da vera signora.
-Ma mi manchi tu Terence, ti rendi conto che non mi hai mai sfiorato con un dito. Ti faccio schifo perché … - piagnucolò lei, interrompendolo, e indicando le stampelle e il bacino con un gesto veloce della mano.
-Questo è un insulto alla mia intelligenza e alla tua dignità, ammesso che tu ne abbia ancora - rispose lui con una smorfia di insofferenza sul viso. - Non prendiamoci in giro Susanna, non sei una bambina a cui dover sempre addolcire la pillola. Ho promesso a me stesso che avrei fatto le cose per bene, questo si, ma a te non ho mai promesso amore eterno. Sapevi perfettamente quali fossero i miei sentimenti quattro anni fa e se hai nutrito la presunzione di cambiarli, allora non sono il solo ad aver commesso un errore. Non riuscirò mai a fare l’amore con chicchessia per obbligo morale e non sarà certo un contratto matrimoniale a riempirmi di desiderio per te! - concluse ora con tono alterato. La sua voce profonda echeggiava in tutta la stanza.
-Non è colpa tua Susanna - aggiunse poi con un tono meno duro - sono io che avrei dovuto rendermi conto dell’errore che stavo commettendo, ma, anche se non è una giustificazione, ero troppo giovane per accorgermi che fare le cose per bene non implica amare nel senso in cui io intendo l’amore. Ci sono cose che non cambiano, di fronte alle quali siamo impotenti, e anche se lo volessi, io non riuscirei proprio a provare per te niente più che…compassione - concluse. Avrebbe voluto dire disprezzo, ma gli sembrava di essere troppo crudele. In fondo Susanna era un’infelice, forse addirittura più infelice di lui.
-Non posso credere che tu stia ancora pensando a lei - disse Susanna in un sussurro. Non avevano mai più parlato di Candy in tutti quegli anni, anche se il fantasma dei ricordi vagava per quella casa come un’anima in pena.
Terence per un attimo sobbalzò e spalancò i suoi grandi occhi blu. Ma fu una frazione di secondo perché riacquistò immediatamente la sua solita compostezza. Dopo qualche secondo di silenzio proseguì - Lei non c’entra. Anche se non fosse mai esistita io non avrei mai potuto amare per debito di riconoscenza. L’amore non è una moneta di scambio che si può barattare con la gratitudine o il dovere. Se quattro anni fa ho pensato di poterti dare qualcosa di più della riconoscenza, ora sono certo di non doverti più nemmeno quella - concluse mentre si alzava dalla poltrona, incapace di fingere una comprensione verso Susanna che non provava più da molto. Forse aveva esagerato. Come al solito, lui non conosceva mezze misure e frenare gli impulsi per tutto quel tempo lo aveva esasperato. Le sarebbe stato sempre riconoscente in realtà, ma la linea di demarcazione tra la gratitudine e lo slancio d’amore era ora ben definita.
-Allora provi solo commiserazione per me? - aggiunse lei seguendolo con lo sguardo mentre lui si avvicinava alla grande finestra che si affacciava sul parco.
-Susanna, non ti amo e non ti ho mai amato, né ti ho mai desiderato, anche prima dell’incidente e questo tu lo sapevi. Così come sapevi di Candy. Non sarai mai la mia donna, la mia amante, e mi costringi ora a sbattertelo brutalmente in faccia, nonostante io sia sicuro che tu questo l’abbia già capito da molto tempo - rispose lui, mentre guardava fuori dalla finestra portandosi il bicchiere alla bocca e mandando giù tutto il contenuto in un unico sorso.
-Vuoi il divorzio vero? domandò ancora lei, con il viso rosso fuoco, gli occhi questa volta che lanciavano fuoco e fiamme, il tono di voce astioso - sappi che non te lo concederò mai! - concluse mentre con un colpo di reni si sollevava dalla poltrona, facendo leva sulle stampelle.
-Non avevo alcun dubbio - rispose lui scandendo le parole e voltandosi lentamente a guardarla, gli occhi una fessura, la pupilla sottile, come quella di un gatto pronto a graffiare per difendersi.
-Sappi anche che ti inseguirò in capo al mondo, sono tua moglie e lo sarò per sempre- gli urlò contro lei, sempre più alterata, umiliata da quel rifiuto che oramai le era ben chiaro senza più alcuna ombra di dubbio.
-Perfetto -sibilò lui tra i denti con voce tagliente - allora inizia a preparare le valigie perché domani si parte per Londra.
-Che cosa? Londra? Ma, è devastata dalla guerra, che ci andiamo a fare a Londra proprio ora?. E poi, pare che ci sia difficoltà a reperire anche i beni di prima necessità, figuriamoci il resto! A volte scarseggia anche l’acqua e poi, anche i nobili della città hanno difficoltà a condurre la vita di sempre e …
-Susanna piantala!- la interruppe Terence, questa volta spazientito, dirigendosi verso la madia per poggiare il bicchiere vuoto e avvicinandosi a lei con fare minaccioso - non sei obbligata a seguirmi se non lo vuoi. Puoi continuare a fare la signora- …esitò… -Granchester anche qui a New York, stai tranquilla.
-Per poi consentirti di spassartela in mia assenza con quelle donnine che frequentano gli squallidi ritrovi degli artisti nullafacenti...
-Ti ricordo che anche tu eri un’artista e che ne hai voluto sposare uno nullafacente cara, anche se per tua fortuna non puoi definirlo nullatenente. Comunque, fai quello che vuoi Susanna, la nave parte domattina alle otto. E adesso, avrei molto sonno e poco tempo per prepararmi - concluse, ora con tono stanco, ma sempre con quello sguardo carico di disprezzo.
Lei non rispose. Girò sulle stampelle e diresse verso la porta. Ma prima di uscire, si voltò appena e aggiunse con tono falsamente calmo - forse non è una cattiva idea prendere le distanze dalla tua ossessione. L’aria di Londra ti farà bene.

Quella notte Terence non chiuse occhio. Sdraiato sopra la trapunta del suo letto matrimoniale, con la giacca del pigiama aperta a lasciare scoperto un torace perfetto, le braccia dietro la nuca e lo sguardo perso sul soffitto, ripassava mentalmente gli episodi più significativi della sua vita. E tutti avevano Candy per protagonista. Dal quel primo giorno sul Mauritania all’ultimo a New York, arrivando alla conclusione che non l’avrebbe mai dimenticata. Quattro anni è un tempo lunghissimo. Tanto più passato accanto a Susanna. Anni che tuttavia non avevano sbiadito i momenti intensissimi trascorsi insieme a Candy. Momenti che sembravano appartenere al giorno prima. Il suono della sua voce era sempre nitido, il modo in cui lei lo chiamava, le volte in cui si arrabbiava quando lui la chiamava tuttelentiggini e quelle in cui lei si era presa cura di lui quando si era rifugiato nella sua stanza alla St Paul School. Sorrise e socchiuse gli occhi. Sempre uguale era lo sconvolgimento emotivo che il solo pensiero di lei gli procurava. Uno scombussolamento di anima e corpo. Un pugno alla bocca dello stomaco, come una mano che gli strappava le budella. Anche a distanza di tanti anni. Non avrebbe potuto dimenticarla, neanche se lo avesse voluto. Lei avrebbe occupato sempre un posto speciale nel suo cuore. Era il potere dell’amore per lei quello che lo aveva aiutato a risollevarsi, a tirare fuori il meglio di sé, a diventare il brillante attore e insieme l’uomo determinato che era diventato. I sentimenti negativi che gli avevano serrato l’anima quando si era dovuto separare da lei erano spariti completamente. L’amore per lei, eterno, immortale era prevalso alla fine sul senso di colpa. Ma non sul rammarico di non poter più tornare indietro.

continua

(a)tratto dall’articolo di Paolo Dedotto, pubblicato in www.cronologia.leonardo.it)
(b)le fossette le ho prese in prestito da Alys, non ho resistito…
(c) Repertory Movement è un movimento teatrale inglese emerso nei primi del Novecento in reazione al teatro commerciale, all'egemonia londinese e alla priorità del profitto sulla sperimentazione.

:rose rosa:




Perdonami Tenente Greason :unsure: image ;)

Capitolo 3, invariato


Il Mauritania ancorato al molo 5 del porto di New York aveva già lanciato la sirena dell’ultimo richiamo ai passeggeri ritardatari. In mezzo alla nebbia che avvolgeva la città, la macchina di Albert sgommava a tutta birra, nel tentativo disperato di arrivare in tempo, prima che la nave levasse le ancore. Al suo fianco Candy lo incitava a correre di più, mentre Flanny, seduta nel sedile posteriore, si teneva saldamente agganciando con le mani il tessuto del sedile, per non essere sballottata come un pacco postale.

Non vedeva l’ora di arrivare al porto Flanny, per sottrarsi a quello sguardo azzurro cielo che per tutto il viaggio l’aveva fissata dallo specchietto retrovisore. Non le era mai capitato di sentirsi così vulnerabile come in quel lungo viaggio da New York a Chicago, né mai un uomo l’aveva guardata così, o forse semplicemente lei non ci aveva mai fatto caso. Cosa aveva il sig. William da guardarla? Perché continuava a fissarla con quel sorriso negli occhi così dolce? Anzi, come osava metterla a disagio in quel modo? Flanny non aveva aperto bocca per tutto il viaggio mentre Candy parlava a rotta di collo e Albert le rispondeva divertito.
Candy e Albert. Si erano abbracciati a lungo prima di caricare le valigie in macchina e passare a prelevare Flanny. Lei si era accucciata nel petto di quel gigante dai capelli biondi e gli occhi dolci, forte e possente, che per lei sarebbe stato sempre un porto sicuro.

-Sapevo che prima o poi saresti cresciuta, ma non pensavo che lo avresti fatto così in fretta - le aveva detto lui, mentre le scompigliava i capelli raccolti in una coda di cavallo, ma già arruffati nonostante tutti i suoi sforzi di tenerli in ordine. - Ho sempre saputo anche che prima o poi avresti seguito la tua strada Candy, e la tua strada è lontana da casa Andrew, per tua fortuna - aggiunse lui dandole un buffetto sul naso.
-Perché dici questo Albert, la mia fortuna sei stata tu, e io ti vorrò sempre bene, tu sarai sempre la mia famiglia e molto presto ci rivedremo - le disse lei con le lacrime che iniziavano a inumidirle gli occhi verdi, guardandolo dal basso verso l’alto - Vero che ci rivedremo? - chiese lei, incerta di fronte al silenzio dell’uomo.
-Ma certo Candy. Prima o poi ci rivedremo, io ci sarò sempre per te - le rispose lui diventando improvvisamente più serio e abbracciandola di nuovo, questa volta ancora più forte, quasi soffocandola fra le sue braccia.
-Anche io ci sarò sempre per te Albert, non lo dimenticare mai - bofonchiò lei affondata tra le sue braccia, consapevole tuttavia che sarebbe passato molto tempo prima di rivederlo. Se lo avrebbe rivisto.
-Ti sto lasciando partire perché la guerra è finita, altrimenti non ti saresti mossa da Chicago - le disse lui, puntandole un dito indice sulla fronte.
-Sarei partita lo stesso, se lo avessi voluto, lo sai. Nessuno ha il potere di trattenermi - rispose lei subito pronta a scherzare, mettendosi le mani ai fianchi.
-Lo so testona - le rispose lui - non ti ferma nemmeno un carro armato. Andiamo ora se no faremo tardi.

Erano passati a prendere Flanny e avevano raggiunto la stazione. Albert le aveva accompagnate in treno fino a New York. Qui avevano passato la giornata presso la residenza degli Andrew in città. Albert ne aveva approfittato per sbrigare alcune faccende di lavoro e Flanny e Candy avevano trascorso le ultime ore per i negozi ad acquistare le ultime cose indispensabili per il viaggio.
Una volta presa la decisione di partire, Candy non era più tornata sui pensieri tristi che l’avevano assalita quando Flanny le aveva proposto di partire. Presa la decisione, era inutile tornare sopra i se e i ma. Non l’aveva fatto mai neppure in passato, neppure quando l’aveva lasciato andare. Aveva sempre considerato una perdita di tempo fare dietrologia, bisognava guardare avanti.

Avevano cenato tutti e tre insieme la sera prima di partire. Albert era strano quella sera. Sembrava assorto, alle volte distratto mentre Candy non faceva altro che parlare. Anche Flanny era strana. Non era strano il fatto che quasi non avesse proferito parola, visto che non era mai stata una chiacchierona, quanto il fatto che non avesse praticamente toccato cibo, lasciando quasi tutto nel piatto, lei che detestava gli sprechi e si indignava davanti agli schizzinosi.
Candy percepiva una strana corrente. Tutte le volte che sollevava il viso dal piatto per rivolgersi ad Albert, lo sorprendeva a fissare Flanny, che, al contrario, teneva gli occhi fissi sul piatto come se volesse tuffarcisi dentro.
Candy non era più una bambina oramai, ma nonostante non avesse alcuna esperienza di questioni di cuore, non le ci volle molto per capire che lo sguardo di Albert celava un interesse che andava al di là della semplice ammirazione.

-Albert mi ascolti? - gli chiese Candy all’ennesimo tentativo di attirare la sua attenzione.
-Mmm..si, dimmi Candy - le rispose lui, questa volta vagamente imbarazzato, mentre si voltava a guardare Candy, come se fosse stato colto in fallo. Candy gli sorrise.
-Stavo dicendo che quando saremo a Londra dovremo fare in modo di scriverci tutti i giorni, per sentirci meno lontani e appena ci saremo sistemate ti farò sapere e tu verrai a trovarci, non è così Flanny? - disse Candy con il suo solito entusiasmo.
-Eh…si…ma certo Candy. Il signor William sarà sempre il benvenuto nella casa in cui vivremo-rispose Flanny prendendo coraggio e sollevando lo sguardo per guardare prima Candy e poi Albert, ma proprio mentre si voltava verso quest’ultimo cercando di apparire più indifferente possibile i loro occhi si incontrarono di nuovo.
-Albert. Flanny, io mi chiamo Albert, dimentica per un attimo il signor William- le disse Albert con un sorriso aperto. Quegli occhi azzurro cielo intensi e colmi di interesse.
-Va bene, signor… Albert - disse Flanny, insolitamente intimidita, ipnotizzata dallo sguardo di Albert.

Ma che diavolo stava succedendo? pensava Candy guardandoli entrambi sempre più divertita. A pensarci bene, non si era mai chiesta se Albert nella sua vita avesse mai riservato un posto speciale ad un’altra donna che non fosse lei. Lui non le aveva mai parlato della sua vita privata. Era mai possibile che Albert avesse avuto una fidanzata da qualche parte? Era verosimile che non si fosse mai innamorato? Che cosa pensava Albert dell’amore? A dire il vero, ora che ci pensava, di Albert Candy sapeva davvero poco. Lei lo aveva sempre visto come il suo protettore, la stella cometa che aveva sempre guidato il suo cammino nei momenti di difficoltà. Non aveva mai pensato al fatto che fosse un uomo, che prima o poi si sarebbe innamorato, sposato e messo su famiglia, ma di fatto lui era proprio quello, un uomo.
E Flanny, anche di lei in fondo non sapeva un granché. Le aveva mai parlato del suo cuore? Certo, Candy sapeva quanto bastava per instaurare con lei un rapporto che andava al di là della mera professionalità. Senz’altro poteva considerarla una vera amica, ma, le aveva mai parlato di qualcuno che avesse un posto speciale nella sua vita? Ad ogni modo non era da Flanny affrontare un tal genere di argomenti. Gli uomini non facevano parte del suo universo se non erano distesi su un lettino pronti per essere sezionati.
-Scusatemi, vado a prendere il dolce - disse Candy con un sorriso malizioso sulle labbra, mentre si alzava dal tavolo. Flanny la guardò con espressione supplichevole scuotendo lievemente il capo, in segno di diniego, come se non volesse che Candy la lasciasse sola. Albert continuava ad osservarla.

Rimasti soli, Flanny chinò di nuovo il capo non sapendo cosa dire. Perché si sentiva così a disagio, lei che sapeva tenere in pugno qualunque situazione, che non abbassava mai lo sguardo con nessuno, che sapeva far rigare diritto tutti i medici dell’ospedale in cui lavorava.
-Sei emozionata di partire Flanny? chiese Albert con il suo solito tono tranquillo, distendendo le gambe sotto il tavolo.
-Io si, no, cioè sono un po’ in tensione per il viaggio, perché… soffro il mal di mare, ma la nuova avventura non mi spaventa -– rispose lei prendendo coraggio e guardandolo negli occhi.
-Oh, non ne dubito Flanny, tu sei una donna tutta d’un pezzo. Non sarà certo la traversata a piegarti - aggiunse Albert con un sorriso lievemente ironico, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale della sedia.
-Mi prende in giro signor William? domandò Flanny sulla difensiva.
-Albert, Flanny. Mi chiamo…Albert - le disse scandendo le consonanti e le vocali. “È una donna interessante”, pensava lui, mentre, portandosi alla bocca un bicchiere d’acqua, continuava ad osservarla insistentemente. Candy le aveva parlato tanto di lei e del loro controverso rapporto, quanto meno all’inizio, e lui se l’era immaginata sempre come un cerbero pronto a mordere. Tuttavia, dopo averla conosciuta la prima volta in ospedale, quando ancora navigava nell’oblio, aveva subito intuito che sotto l’iceberg si celasse una donna di temperamento. Quel suo modo di gestire le situazioni delicate, quelle che si presentavano quando arrivava un’urgenza in corsia, la sua determinazione nel dare le disposizioni del caso, il suo tono deciso mentre impartiva le indicazioni, tutto era così terribilmente affascinante in lei. Eppure ora le sembrava così timida e fragile, quasi imbarazzata a dire la verità. Quel contrasto fra le due Flanny lo intrigava maledettamente. Lo incuriosiva quella donna che non faceva niente per apparire diversa da ciò che era, che non ricorreva a moine o pose studiate per attirare la sua attenzione, lui che era abituato a schivare gli assalti delle giovani in età da marito che la sua importante famiglia lo costringeva a volte ad incontrare, noiosissime figlie dell’alta società di Chicago in cui lui non trovava niente di interessante.

Flanny abbassò nuovamente lo sguardo. Cosa erano quelle farfalle che svolazzavano nello stomaco, accidenti! Era la prima volta che non riusciva a rispondere a tono ad un uomo, soprattutto quando era così impertinente. Eppure erano gli uomini ad abbassare lo sguardo di fronte alla sua determinazione, guadagnandosi tutto il suo disprezzo. Ma lui non era impertinente, era dolcissimo, con quello sguardo trasparente come l’acqua. E aveva anche un bel sorriso, e una bella bocca e una bella voce, accidenti a lui! Ma lui era il signor William, uno degli uomini più potenti degli Stati uniti, appartenente ad una delle famiglie più blasonate del momento. Chi era William Albert Andrew, cosa ci faceva lì, a perder tempo con una semplice e proletaria infermiera, tra l’altro neppure particolarmente bella, in procinto di partire per l’Europa? Non avevano niente in comune loro due!. Dio mio, perché stava pensando a loro due?

In quel momento, Candy tornò con una torta di pan di spagna e panna e una bottiglia di liquore dolce tra le mani. Il sorrisetto compiaciuto non era scomparso dal suo volto, mentre si accingeva a tagliare la torta.
-Albert, coraggio stappa questa bella bottiglia, per favore - gli disse Candy, guardandolo divertita. Albert le rispose con un sorriso appena accennato, afferrò la bottiglia, la stappò con cura, ne versò il contenuto in tre calici, con movimenti misurati e precisi, mentre Flanny seguiva con gli occhi quelle grandi mani come ipnotizzata, sotto lo sguardo sempre più divertito di Candy.
-Alla vostra ragazze - esclamò Albert sollevando il suo calice in aria e facendolo tintinnare prima con quello di Candy e poi con quello di Flanny. Lo sguardo un lago azzurro in cui si tuffarono gli occhi di Flanny.
-Alla nostra, vorrai dire Albert - rispose Candy, sentendosi lievemente a disagio in mezzo a quel muto dialogo fra i due suoi amici.
Quel brindisi suggellò l’amicizia fra tre anime profonde. Ognuna augurava all’altra il meglio dalla vita, nella consapevolezza che il loro legame non avrebbe subito scossoni. Nessuno di loro immaginava in quel momento che le loro vite si sarebbero incrociate oltreoceano.

Al molo 5, gli ultimi ritardatari, si affrettavano a raggiungere la scaletta che li avrebbe portati all’interno del transatlantico. Candy e Flanny correvano avanti, mentre Albert le seguiva, trasportando quelle due pesanti valige come se fossero piume.
Arrivati davanti all’ingresso della scaletta, Albert consegnò le valige all’addetto al ritiro e si voltò a salutare le due donne. Candy lo guardò, lo sguardo velato di lacrime e si precipitò fra le sue braccia, appoggiando la guancia sul suo petto. Albert la strinse a sé e chiuse gli occhi. La bambina della Casa di Pony era diventata una donna e lui doveva accettarlo. Non poteva trattenerla, ma neppure avrebbe voluto farlo. Ammirava il suo coraggio, lei rifletteva il desiderio di lui, mai sopito, di essere se stesso, di rompere gli indugi e trovare il coraggio di sfidare tutto e tutti per le proprie idee. Candy aveva ripagato abbondantemente quella che tutti definivano una buona azione. Quell’orfanella dagli occhi di cerbiatto gli aveva regalato anni di autentica genuinità. E soprattutto, con il suo esempio, gli aveva contagiato la giusta dose di coraggio per dare una svolta alla sua vita.
Nel frattempo, Flanny era rimasta in disparte, impaziente di salire sulla scaletta. Ancora con gli occhi bassi, che proprio non riusciva a sollevare davanti ad Albert, aspettava in silenzio che Candy si liberasse dall’abbraccio. All’ennesimo richiamo della sirena, quest’ultima si divincolò e senza dire una parola, accarezzò la guancia di Albert che le sorrise, per poi iniziare a camminare verso la scaletta.
-A presto - disse solamente. Albert non rispose, ma sempre con il suo bel sorriso stampato sul volto le fece l’occhietto, quasi a voler stemperare la solennità del momento, poi, lentamente, fattosi più serio, si voltò verso Flanny, allungò una mano per prendere la sua, ma Flanny, a testa china, facendo un frettoloso inchino riuscire solo a dire - Addio signor William - . Girò sui tacchi e con passo frettoloso salì i gradini della scaletta a tutta velocità.
Albert rimase con il braccio sospeso per aria e la bocca aperta. Sorrise lievemente, l’espressione intensa. Seguì con lo sguardo le ragazze che sparivano dentro la porticina di acciaio del Mauritania, che si chiuse dietro di loro immediatamente dopo il loro ingresso - Arrivederci Flanny - mormorò, in un sussurro.

Una volta in cabina, Flanny si spogliò velocemente e, senza dire una parola, si infilò nella cuccetta e si coprì fino alla testa. Candy, sempre più stupita di fronte al comportamento indecifrabile dell’infermiera di ferro che tutti temevano decise, tuttavia, di non fare domande e di rispettare il cattivo umore dell’amica.
Seduta sopra la sua cuccetta, rimase a pensare per qualche istante. La nave era uscita lentamente dal molo e si accingeva a prendere il largo. Dall’oblò della cabina poteva vedere la statua della libertà che pian piano diventava sempre più piccola e il suo cuore ebbe un tonfò. Le vennero in mente i ricordi della prima volta che aveva affrontato il mare, prepotenti, laceranti, intensi, come se appartenessero al giorno prima. Improvvisamente, mossa da un impulso irrefrenabile, si alzò, prese lo scialle di lana, si assicurò che Flanny dormisse e, con cautela, in punta di piedi, uscì dalla cabina. Una volta fuori, si avviò direttamente sul ponte della nave. Era deserto. Ripercorse mentalmente e fisicamente il lungo corridoio sotto la tettoia e si fermò lì, proprio dove lo aveva scorto per la prima volta. Rimase impietrita a guardare la balaustra in cui lui si era affacciato allora. L’odore dell’aria salmastra si mescolava al profumo della pelle di lui che le era rimasto impresso nella mente e che non era riuscita a cancellare. Quante volte aveva tenuto premuto quel fazzoletto sul naso, aspirando con ingordigia il profumo di Terence! Le sembrava di sentirlo ancora e si malediceva per aver perso l’unica cosa che conservava di lui.
Sorrise al pensiero di quando l’aveva scambiato per Antony. Come aveva fatto, non potevano essere più diversi, fisicamente e caratterialmente. Antony era stato il suo primo amore, ma lei era ancora una bambina, che ne sapeva allora dell’amore, quello vero, quello che fa fremere, palpitare, ardere di un fuoco inesauribile. Il sentimento per Antony era stato indubbiamente forte, ma unicamente intriso di tenerezza e di dolcezza. Antony era stato senz’altro un ragazzo eccezionale ma non le aveva fatto provare il desiderio irrefrenabile di fondersi con lui, quel desiderio che aveva provato per Terence quasi immediatamente. Per Antony non aveva provato l’impulso di toccare e accarezzare, di baciare e annusare, sensazioni di cui, in un primo momento si era anche vergognata, non riuscendo a dare loro un nome ed un perché. Eppure, già quella prima volta che lo aveva visto sul Mauritania, si era sentita sottosopra. Quel bellissimo ragazzo, dallo sguardo velato di lacrime, dall’espressione tormentata e sfrontata insieme, mentre la prendeva in giro e si rivolgeva a lei con risate sferzanti, le aveva posseduto subito l’anima, l’aveva turbata profondamente, benché lei non ne avesse avuto subito consapevolezza. Per questo aveva chiesto a George di poter rimanere qualche minuto ancora sul ponte, nella speranza di richiamare all’ordine un cuore che aveva preso a fare le capriole.
Si avvicinò alla balaustra e vi si appoggiò, quasi a volersi sovrapporre all’immagine di lui che guardava il mare sette anni prima. Come se, ferma in quella posizione, potesse catturarla e trattenerla solo per sé. Era diretta a Londra e lì avrebbe fatto di tutto per non incontrarlo. Solo l’idea di vederli insieme le chiudeva lo stomaco in una morsa. Avrebbe dovuto fare attenzione, ma in fondo, era sufficiente adottare qualche accorgimento.

Su quella stessa balaustra, un anno prima, il blu del mare aperto si era riflesso in un paio di occhi profondi. La brezza marina aveva scompigliato le ciocche castane e la lunga sciarpa che gli avvolgeva il collo. Terence aveva osservato i piccoli pesci che saltellavano fuori dall’acqua nel tentativo di afferrare le briciole che qualche bambino lanciava. Si era tolto di tasca il fazzoletto che lei aveva perso a teatro a Chicago e se lo aveva portato al naso. Era curioso come, nonostante quel fazzoletto gli fosse appartenuto per molto tempo e fosse ritornato fra le sue mani dopo una breve interruzione, portasse ora l’odore della pelle di lei. Avrebbe voluto mangiarlo, se avesse potuto. Senz’altro era la sua immaginazione ad acutizzargli i sensi. Così come era curioso che a distanza di tanti anni pensare a lei gli accendesse tutti i sensi. O forse era il luogo del loro primo incontro a risvegliargli tutta la passione repressa che lei gli aveva scatenato fin dalla prima volta in cui le aveva messo gli occhi addosso. Quel ponte sul Mauritania era carico di una strana energia, il rumore dei flutti che si infrangevano contro lo scafo, la brezza carica di microscopiche goccioline d’acqua salata che lui inspirava avidamente, il garrito dei gabbiani che si allontanavano verso la terra ferma lo fecero rabbrividire. Si era innamorato di lei proprio lì, quella notte di sei anni prima, senza neppure accorgersene. Lei l’aveva guardato con quei grandi occhi verdi e lui si era sentito improvvisamente a casa. Davanti ad un caminetto acceso. Aveva provato subito qualcosa di diverso per quella ragazza con tante lentiggini. Le loro anime si erano riconosciute ancora prima di voltarsi a guardarla. Una passione violenta e accecante, accompagnata dal desiderio immediato di accorciare subito le distanze tra loro. Una voglia pazza di baciarla e di farci l’amore, di spogliarla e di assaporare ogni centimetro della sua pelle. Una fulminate attrazione fisica prima, un sentimento più profondo poi, man mano che lei era riuscita a farsi strada nel suo cuore conquistandone la fiducia. Una sensazione di appartenenza a lei che gli aveva fatto scoprire per la prima volta che cosa significasse realmente amare. E non aveva più smesso di pensare a lei da allora, neppure ora che aveva frapposto il mare a separarli per sempre.

Continua
 
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klimt_1974
view post Posted on 31/5/2010, 17:32     +1   -1




Dany non puoi immaginare la gioia che ho provato quando ho riconosciuto la tua ff. Cara amica sei riuscita ancora una volta ad emozionarmi. Le aggiunte che hai inserito e la parte iniziale hanno impreziosito ulteriormente un lavoro già ben fatto. Sono sicura che riuscirai a portarla a termine, quindi non ti scoraggiare! Scommetto che è stata Alys a darti l'ispirazione e la voglia di portare avanti il tuo racconto. ;) :P
Aspetto con ansia il proseguimento! :tella: :tella:
 
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nannetta70
view post Posted on 31/5/2010, 18:20     +1   -1




Grazie Klimt :wub:, la mia fonte di ispirazione è il Forum e i suoi affezionati Forumelli :lol:.

Stasera ho un po' di tempo per me e ne approfitto :D

Capitolo 4, pressoché invariato

Il Mauritania aveva appena attraccato al molo del porto di Southampton. Le prime luci dell’alba non riuscivano a filtrare attraverso la fitta nebbia che avvolgeva l’atmosfera. Ad attenderle davanti alla scaletta di uscita dei passeggeri sostava un’auto grigia con finestrini scuri. Candy e Flanny aspettarono che la maggior parte dei passeggeri defluisse verso il basso per scendere e raggiungere la vettura. Faceva freddo ed erano spossate dalla lunga traversata. Inoltre, l’incognita della nuova vita che stavano per affrontare le aveva tenute in apprensione, benché nessuna di loro avesse trovato il coraggio di parlarne all’altra nel timore di turbare l’entusiasmo iniziale.
In silenzio scesero la scaletta e si avvicinarono alla vettura. Proprio in quel momento, l’autista in marsina scese dal suo posto per prendere loro di mano le valige, che sistemò nel retro portabagagli, dopo averle fatte accomodare nel sedile posteriore.
Lentamente lasciarono la città e si diressero verso la capitale.
-Dove siamo dirette? -chiese Flanny, con un tono vagamente imperioso. Tutta l’attraversata l’aveva innervosita. Il pensiero di quegli occhi azzurri non l’aveva abbandonata un attimo, ma aveva fatto di tutto per non cadere nella tentazione di parlarne a Candy. Già una volta le aveva aperto il suo cuore denudando le sue debolezze, nella occasione in cui, prima di partire per la Francia, le aveva parlato della sua disgraziata famiglia. Ma quella confessione l’aveva resa vulnerabile e indifesa, e lei non poteva permettersi di soffrire un’altra volta.
-Alla vostra residenza in Bloomsbury signorine - rispose l’uomo con un spiccato accento inglese.
-Bloomsbury? - chiese Candy allarmata - ma è il quartiere degli artisti e dei letterati.- Che ci facciamo a Bloomsbury? - proseguì incerta, con uno strano presentimento nel cuore. Rimase per un attimo sconcertata. Aveva sperato di alloggiare in un quartiere popolare, Notting Hill, ad esempio, dove si sarebbe senz’altro sentita più a proprio agio.
-Ciò che lei dice è corretto signorina, ma Bloomsbury è anche il quartiere in cui ha sede il London Homeophatic Hospital e Mister Hope desidera che la vostra residenza sia più vicina possibile al vostro luogo di lavoro - rispose l’autista con tono piatto.
-Capisco - aggiunse Flanny, guardando fuori dal finestrino. Candy rimase in silenzio. La strana sensazione che aveva sentito appena toccato il suolo britannico si era trasformata in turbamento quando sentì nominare il quartiere dove sarebbero andate a vivere. “Sarà l’impatto con la novità” pensò mentre, assorta, guardava fuori dal finestrino nella parte opposta a quella di Flanny.

Benjamin Hope aveva programmato tutto per il loro arrivo. In contatto epistolare con Miss Marry Jane, era curioso di conoscere quel duetto di cui tanto aveva sentito parlare. Le credenziali di quelle due giovani donne lo avevano subito conquistato e si era dato da fare affinché fossero accolte nel migliore dei modi. Aveva disposto che soggiornassero in uno dei palazzi più antichi e prestigiosi di Bloomsbury, a pochi isolati dall’ospedale, in modo tale che non dovessero fare troppa strada quando si sarebbero dovute trattenere fino a tardi a lavorare. Perché ci sarebbe stato molto da lavorare. L’epidemia di spagnola stava flagellando l’intera Europa e la medicina allopatica non sortiva alcun effetto. Bisognava trovare al più presto una soluzione alternativa.
Ben Hope, era il direttore amministrativo del London Homeophatic Hospital. Trentacinquenne in carriera, non si era mai sposato per scelta. Pur essendo un uomo affascinante, la sua vita era scandita unicamente dai ritmi frenetici dettati dai suoi impegni professionali che ultimamente lo assorbivano completamente. Da quando era stato insignito di un incarico tanto prestigioso, non aveva avuto una pausa di tregua, nell’intento di lanciare quello, che diversi decenni più tardi, sarebbe diventato l’ospedale per eccellenza della famiglia reale.
Di media statura, capelli castani cortissimi e curatissimi, occhi intelligenti e baffetti all’ultima moda, Ben Hope era un uomo che univa il forte senso dell’umorismo, tipicamente britannico, ad un pragmatismo fuori dal comune. Ambizioso e calcolatore, aveva tentato la scalata fin da giovanissimo e si era conquistato la fiducia della casa reale, riuscendo a coinvolgere nel suo altrettanto ambizioso progetto il Duca di Lancaster.
Così, grazie a lui, l’Homeopatic Hospital aveva catturato l’attenzione dell’elite londinese e soprattutto il patrocinio della classe nobiliare e potente del paese, che aveva investito ingenti somme di danaro nel suo avvio.
Tuttavia, nei rari momenti di libertà dagli impegni professionali, amava circondarsi di belle donne, con una particolare predilezione per quelle sposate che non si ponessero troppi scrupoli e che stramazzassero davanti ai suoi modi raffinati.

Un’alba pallida cedette il posto ad un’aurora uggiosa. Candy continuava a guardare fuori dal finestrino assorta nei suoi pensieri. Faticava a scacciare dalla mente i ricordi legati al suo arrivo a Londra sei anni prima, quando era stata accolta da Archie e Stear. Stear. Ancora non riusciva a credere che non ci fosse più. Il suo più caro amico le mancava da morire. Non riusciva a perdonarsi di non aver capito, quel giorno alla stazione, che quello fosse un addio. Conservava gelosamente il carillon rotto, quasi come se fosse un amuleto, nonostante fosse stato foriero di cattivi presagi.

Com’era bella Londra. I viali alberati, lungo i quali si avvicendavano edifici in stile georgiano, vittoriano ed edoardiano, le fecero venire in mente quella domenica trascorsa insieme al papà di Annie. Ogni angolo, suono, colore le ricordava la sua precedente esperienza londinese e i ricordi, dolorosi e languidi allo stesso tempo, legati a lui. No, era passato tanto tempo, non poteva permettersi di farsi soggiogare dal turbamento che provava tutte le volte che pensava a quel periodo della sua vita. Doveva gestire e avere la meglio su un passato che le sembrava invece sempre troppo recente, un’onda anomala che finiva sempre per investire impetuosamente il suo presente. Doveva arginare quel fiume in piena di emozioni.
Flanny, dal canto suo non proferì parola per tutto il viaggio. Rimase con il viso incollato al finestrino, lo sguardo perso a contemplare il cielo. Candy non osò interrompere quel silenzio, anche perché si sentiva improvvisamente di cattivo umore come la sua amica. Ma no che non era il caso di pentirsi della decisione presa. Londra era una grande città, si ripeteva di continuo, avrebbero avuto talmente tanto da fare che non ci sarebbe stato il tempo né per pensare, né tantomeno per recriminare.
L’auto si fermò davanti ad un edificio in stile vittoriano. Candy e Flanny scesero dalla macchina e si guardarono intorno. Si trovavano in linea d’aria a poche centinaia di metri da Queen Square, proprio dove aveva sede l’Homeopatic Hospital.
L’autista trasportò le loro valige all’interno del giardino adiacente al grande portone d’ingresso e scomparve. Proprio in quel momento il portone si aprì per lasciar passare la figura austera di una donna di mezza età che le fece accomodare all’interno. Una volta dentro, le due ragazze rimasero per un attimo disorientate. Si guardarono attorno, gli occhi a scrutare ogni piccolo particolare di quell’ampio ambiente dalla tappezzeria luminosa e dal pungente odore di legno di acero e attesero che fossero date indicazioni sulle loro stanze.

A qualche isolato di distanza, una ragazza dagli occhi celesti attendeva impaziente nella sua lussuosa residenza il rientro a casa del marito. Terence era sparito dal giorno prima e non aveva dato alcuna notizia di sé. Questa volta non aveva lasciato detto neppure a che ora sarebbe rientrato. Susanna era in piedi, davanti alla finestra che si affacciava sul British Museum, con lo sguardo spento e le evidenti occhiaie livide dopo una notte insonne passata ad aspettarlo. In quel momento lo odiava per tutto il male che le stava facendo e odiava se stessa per non riuscire a staccarsi da lui. Da quando erano arrivati a Londra, un anno prima, i momenti trascorsi insieme si erano diradati ancora di più. La speranza che lui potesse liberarsi da quella che lei pensava essere una malsana ossessione morì miseramente di fronte all’atteggiamento sempre più freddo e scostante del giovane, che ora, a malapena le rivolgeva la parola. A Londra non c’era la Buca degli Artisti ad allontanarlo da lei, ma c’era il Theatre Group, un assemblea sociale informale di artisti e letterati che amava riunirsi nelle case di questo o quel membro e che Terence aveva iniziato a frequentare assiduamente da quando si era buttato a capo fitto a lavorare con il Moviment Act.

L’ingresso di Terence nella nuova compagnia era stato senza traumi. Il regista Frederic Shuman, noto drammaturgo la cui fama aveva varcato i confini nazionali, non aveva dovuto faticare troppo per convincere la giovane stella a calcare le scene londinesi, data la propensione di quest’ultimo a voler voltare le pagine della sua carriera artistica.
Certo, inizialmente, tutti i membri della compagnia erano rimasti interdetti di fronte al temperamento volubile del nuovo arrivato. I repentini cambiamenti di umore destabilizzavano anche i più tolleranti e pazienti. Perfezionista incallito, Terence amava ripetere le scene fino allo sfinimento. Alle volte era capace di provare anche per quindici ore di seguito senza sosta, fino a quando non fosse riuscito ad ottenere i risultati voluti. Severo con se stesso e con i suoi partners, non amava concedere indulgenze a nessuno. Fondamentalmente poco incline allo scherzo, era inaspettatamente capace di sorprendere i suoi compagni con qualche battuta sagace. La sua sottile ironia, riflesso di un’intelligenza fuori dal comune, lasciava spesso senza parole gli astanti, che, per quanto divertiti, rimanevano incapaci di ribattere con altrettanta ironica intelligenza. La mancanza di interlocutori degni della sua raffinata dialettica finiva sempre per annoiarlo; nemico della banalità, nei momenti di pausa preferiva così rinchiudersi nel suo camerino a leggere o studiare. I suoi modi diretti di certo non gli conquistarono la simpatia del genere umano che gli ruotava intorno. Amante della sincerità ad ogni costo, rifiutava a priori la diplomazia con chiunque, soprattutto quando si trattava di avere a che fare con la critica giornalistica d’assalto, che prendeva di mira la sua vita privata. Ma incurante delle maldicenze, spesso si limitava a fare spallucce, quando le affermazioni tendenziose dei suoi interlocutori rasentavano la scempiaggine, non ritenendo neppure degne di risposte sensate le insinuazioni dettate da invidia e gelosia, sentimenti che non facevano parte del suo pur difficile temperamento.

La mancanza di lealtà di alcuni suoi colleghi invece lo faceva uscire completamente fuori dai gangheri. Più di una volta Fred aveva dovuto sedare qualche diatriba verbale dettata dalle insinuazioni circa l’influenza sulla sua brillante carriera dei suoi legami di sangue con Eleonor Baker. Terence non sopportava che i suoi sacrifici per costruirsi da solo quel bagaglio professionale, tanto prezioso per lui, fosse svilito da affermazioni così meschine. Più di una volta aveva rischiato la denuncia per aver insultato qualche imprudente che si era arrischiato a commentare i suoi natali e la loro presunta influenza sul carisma che lui esercitava sul prossimo. Ma poco a poco, tutti avevano imparato a rispettare il suo brutto carattere. I più tiepidi per timore dei suoi scatti d’ira, i più temerari per autentica ammirazione.
Un uomo di carattere, lo definiva invece Fred, di cui Terence si era conquistato subito la stima. Così distante dal prototipo dell’attore capriccioso e malato di protagonismo, che a tutti i costi doveva calcare i ruoli da prima donna, Terence non faceva problemi quando si trattava di impersonare ruoli da coprotagonista, finendo sempre, suo malgrado, per mettere in ombra con il suo talento chi aveva l’audacia di voler competere con lui a tutti i costi.

Il suo innato fascino, circondato dall’alone di mistero indotto dalla sua proverbiale riservatezza, portava le donne a fantasticare su di lui. Dalle partners della compagnia alle signore dell’alta società che frequentavano il teatro, oltre al salotto buono della città, tutte finivano per rimanere impigliate nel suo sguardo magnetico e nei suoi modi raffinati. Più di una volta, aveva dovuto scappare dalla porticina sul retro del teatro, con parrucca e barba finta per evitare gli assalti delle più disinibite con fede al dito. Ma non era un tombeur de femme Terence G. Grandchester. L’arte della seduzione non l’aveva imparata sui banchi della scuola di vita, semplicemente era connaturata al suo codice genetico di uomo a tutto tondo, accentuata da una inconsapevolezza delle sue doti che lo rendeva dannatamente eccitante agli occhi del gentil sesso.
La sua ritrosia a concedersi non era dettata, tuttavia, dal suo status civile. Terence non sentiva alcun legame affettivo nei confronti di Susanna che non fosse mero rispetto dettato dalle condizioni fisiche di lei, né tantomeno era animato da una fervida affezione nei confronti della moglie. Di fatto, le rare volte in cui qualche grazioso faccino aveva attirato la sua curiosità, era rimasto immediatamente deluso dal confronto che inevitabilmente si insinuava nella sua mente. No, non aveva la bellezza di Candy, né la sua simpatia, non la stessa grinta, neppure un barlume della sua dolcezza, né un briciolo del suo coraggio, nemmeno un’oncia della sua intelligenza. Una struggente nostalgia si impossessava allora di cuore, mente, anima, impedendogli di approfondire quella che rimaneva una superficiale conoscenza.

Per scacciare il senso di colpa che allora lo sopraffaceva, si rifugiava sulla seconda collina di Pony. Lì, sotto le fronde dell’albero che aveva fatto da testimone al nascere del loro amore, riassaporava l’armonia che lei gli aveva svelato. Una dolcissima quiete si appropriava di ogni cellula del suo corpo e di ogni anfratto della sua anima e ritrovava la pace. Allora si arrampicava sull’albero, arrivando fin dove la loro mascotte aveva eletto la sua tana e, come allora, suonava l’armonica. Le note di Annie Lauri lo placavano, infondendogli serenità. Da qualche parte della terra lei c’era, viveva, e questa consapevolezza sarebbe stato per lui un monito a non lasciarsi andare agli istinti.

Spinto dall’irresistibile desiderio di ripercorrere le tappe della sua nostalgica adolescenza londinese, spesso si rifugiava fra le macerie della St. Paul Scool a cercare ispirazione per l’interpretazione dei drammi di cui era protagonista. L’opera di ristrutturazione dopo i bombardamenti era appena iniziata e quello che appariva ai suoi occhi era solo lo scheletro degli antichi splendori. Le residenze dei ragazzi e delle ragazze erano però ancora quasi intatte, così come l’abside della chiesa. Li ripercorreva lentamente, una, due, anche tre volte, camminando adagio schivando i calcinacci, con le mani affondate nelle tasche, cercando di mettere a fuoco, senza peraltro troppo sforzo, i ricordi legati alla presenza di lei. Terence amava crogiolarsi nei flasback che si accavallavano nella sua mente. Alle volte si illudeva che il tempo si fosse fermato a sei anni prima e si chiedeva che cosa sarebbe successo se quella notte in cui lui era comparso dolorante e malconcio dopo la rissa, si fosse trattenuto da lei, infilato dentro il suo letto che sapeva di rose, ad aspettare il suo rientro. O cosa sarebbe successo se quella alle scuderie non fosse stata una trappola ordita da Iriza e nessuno li avesse interrotti. Provava tenerezza verso quel ragazzino che si era trattenuto più di una volta dall’esternare la sua intraprendenza, preoccupato di intimidire la ragazzina inesperta e ingenua, spaventata di fronte alle proprie inspiegabili emozioni. Avrebbe voluto guidarla alla scoperta dei piaceri che inevitabilmente sarebbero scaturiti dal sentimento che già da allora li aveva prepotentemente uniti. Se fosse stato per lui avrebbe dato libero sfogo al desiderio di starle incollato ventiquattrore su ventiquattro, ma aveva capito che lei aveva bisogno di tempo per realizzare il turbamento che l’aveva sopraffatta e ordinare i sentimenti. Godeva del ricordo della cavalcata che avevano fatto insieme quella volta in cui lei aveva pianto per Antony. Era riuscito a strapparglielo dal petto, così come si era ripromesso da quando lei lo aveva nominato per la prima volta. Il calore di quel corpo contro il suo era ancora vivo. Nelle sue fantasie più sfrenate se l’era immaginata completamente nuda che si aggrappava al suo petto ansimante, mentre il vento giocava con i loro capelli e lui lanciava il cavallo a tutta velocità. Non osava immaginare, invece, che donna Candy fosse diventata. Chi le avesse insegnato i piaceri dell’alcova, chi avesse avuto il privilegio di prenderla per mano e prepararla ad assaporare i misteri della sensualità fra due amanti. Allora la rabbia gli annebbiava la mente, le tenaglie della gelosia lo mettevano all’angolo e per quanto razionalmente si rendesse conto che la sua possessività fosse del tutto immotivata, non riusciva a placare il desiderio di strangolare chi avesse avuto la fortuna di condividere con lei quella miscela di amore, passione e carnalità che lui avrebbe voluto condividere solo con lei.

Per placare l’insoddisfazione interiore che affiancava i suoi giorni, aveva preso a frequentare il Theatre Group, all’interno del quale riusciva almeno a saziare la sua fame di cultura. Attori, letterati, pittori, scrittori, si davano appuntamento quasi giornaliero in Bloomsbury, principalmente a casa di Claudine Duval, scrittrice francese tra le più famose degli inizi del secolo XX. Non particolarmente bella ma dotata di grande charme, Claudine era anche attrice di music-hall, autrice e critica teatrale. Donna libera, anticonformista ed emancipata, amava scandalizzare la morale corrente con i suoi comportamenti considerati spregiudicatamente sensuali dai costumati dell’alta società londinese. Intorno a lei si raccoglieva il bon ton cittadino, ma ad ascoltare la sua vellutata voce accorrevano da tutta Europa non solo letterati e artisti ma anche la decadente nobiltà europea, rammolliti aristocratici e rampanti uomini d’affari, che lei amava ammaliare con la sua risata squillante e il suo sguardo languido.

Terence aveva attirato subito l’attenzione di Claudine. Quel giovane attore, dalla bellezza asfissiante, dal magnetismo penetrante e dallo sguardo seducente stuzzicava la sua insaziabile vanità femminile, tanto più che lui pareva non degnarla neppure di uno sguardo. Seduto in un angolo del salotto, incurante degli sguardi femminili che lo trapassavano come lance, Terence si limitava ad ascoltare i versi che Claudine e altri letterati recitavano per scaldare l’atmosfera. Anche lei era caduta vittima della sua prontezza di spirito e della sua brillante intelligenza, nonostante avesse diversi anni più di lui.
-Mio caro amico Grandchester, mi piacerebbe conoscere la tua opinione in merito alla decisione del giovane Werther di porre fine alla sua tormentata esistenza dinanzi ad un amore non corrisposto a causa di sfortunate circostanze - aveva domandato Claudine, una sera in cui era in corso una riunione sul tema del romanticismo e dei suoi classici. La domanda non poteva essere tendenziosa, dal momento che nessuno a Londra era a conoscenza dell’accidentato passato sentimentale di Terence, tranne Susanna. Tuttavia, il ragazzo percepì in quella domanda una sfumatura vagamente inquisitoria, che lo mise in allarme. Accettò la provocazione. Rimase perfettamente impassibile per alcuni secondi prima di rispondere, aspirando una boccata del suo cigarillo, gli occhi fissi negli occhi grigi della donna.
- Il giovane Werther è colto e raffinato, ma dimostra ben presto le due caratteristiche che gli impediranno di inserirsi veramente nella società: una profonda insofferenza verso le convenzioni sociali che condizionano l'individuo e la capacità di farsi totalmente rapire dai sentimenti. Werther è un’anima pura, che non per niente riesce a trovarsi a suo agio con i bambini. Non cerca una vita tranquilla, ma una felicità totale che solo l'amore può dargli: questo aspetto lo rende estremamente fragile, essendo in definitiva legato alle decisioni di qualcun altro a cui ha affidato la sua intera vita. Werther è capace di amare e lo fa donando ogni attenzione e pensiero a Lotte, che non può ricambiare - rispose Terence, con la sua voce calda e profonda, continuando a fissare la donna negli occhi con aria di sfida, dopo aver espirato una boccata di fumo.
-Quindi, mio caro amico, se ho ben capito il suicidio per te è l’unico rimedio plausibile per un’anima tanto profonda? -Insistette la donna, avvicinandosi al ragazzo e posandogli una delle sue mani vellutate sulle spalle.
Lui seguì quel movimento con gli occhi, lentamente si girò a fissare la mano che si poggiava sulla sua spalla, e, irrigidendosi lievemente, tornò a fissare la donna con un lampo di stizza negli occhi blu.
-Il fatto che Werther non cerchi a tutti i costi di attirare Lotte a sé può essere interpretato come estremo gesto d'amore: sa che Lotte ha bisogno di tranquillità e di certezze, lui non vuole essere un impedimento alla sua realizzazione. Werther non ha un ego smisurato, non si ritiene un animo superiore inadatto a questo mondo, ma riconosce la propria sconfitta, la propria nullità davanti ad un sentimento totalizzante, come quello che prova per la donna amata -rispose acidamente.
-Parli a difesa di Terence o di Werther mio caro? La tua interpretazione è molto interessante, ma sembra che le tue parole nascano da un’esperienza realmente vissuta, come se tu avessi accarezzato l’idea di farla finita a causa di un amore impossibile da vivere - aggiunse Claudine, ritraendo la mano come se avesse sentito la scossa, vagamente incomoda sotto quello sguardo improvvisamente cupo come il mare in tempesta.
-La morte può essere considerata l’oppio di un’anima ardente, agognato sollievo dall’inestinguibile fuoco della passione quando non esiste altro rimedio a placare l’arsura - continuò Terence, gli occhi due scintille, una lieve smorfia di dolore ad increspare il suo sardonico sorriso.
-Non ti pare invece un atto di vigliaccheria il solo pensare di disprezzare il bene della vita per una donna che forse non merita il nostro sacrificio? - proseguì Claudine, certa di avere toccato il nervo scoperto dell’attore.
-C’è sacrificio e sacrificio. Esiste l’atto del vile di fronte alle proprie responsabilità, mascherato da sacrificio, che preferisce tirarsi fuori dalle sfide della vita per paura di non essere all’altezza del suo valore, e c’è l’atto di generosità di colui che compie un passo indietro per preservare quello che ritiene il vero bene dell’amata- rispose lui, premendo con forza il sigaro sul posacenere. Ormai, quel duello verbale aveva rapito tutti i presenti che in silenzio pendevano dalle labbra dei due contendenti.
- Io lo ritengo un atto di vigliaccheria in entrambi i casi. Tu, mio caro Terence, quale dei due atti hai preferito compiere?- lo provocò intenzionalmente lei, assaporando per un attimo la sensazione che quel bel viso contrito le trasmetteva.
-Dal momento che sono qui vivo e vegeto a parlare con te, tu che dici Claudine? - rispose lui, accavallando le gambe e incrociando le braccia, il viso leggermente inclinato a sinistra, un sopraciglio arcuato a sottolineare l’espressione insolente.
-Esistono cadaveri che camminano, mio giovane amico, corpi che si trascinano impeccabilmente sulle strade della vita, ingannando i più mentre recitano la parte dei vivi, ma all’interno il loro cuore è conservato in formalina, il loro sangue è rappreso e la loro anima è imprigionata nel traghetto di Caronte. Il suicidio dell’anima che si impone di smettere di vivere è più sottile di quello del corpo. Ed è appannaggio delle menti più eccelse. Ho troppo anni alle mie spalle perché un giovane appassionato come te possa ingannarmi - rispose lei, osando spostare una ciocca bruna dalla fronte del ragazzo con un gesto misto di tenerezza e audacia.
Terence non rispose. Rimase però interdetto di fronte all’acume della donna. Claudine era più intelligente di quanto lui potesse immaginare, e per la prima volta dopo tanto tempo si sorprese a provare ammirazione per una donna che non fosse Candy.

Erano passati diversi mesi da quell’incontro e le riunioni in casa di Claudine si erano fatte sempre più ricorrenti. Terence ricorreva spesso a lei quando si trattava di dover approfondire i tratti psicologici dei personaggi da interpretare. I suoi consigli erano diventati preziosi nel momento in cui doveva scegliere se accettare o meno una parte. Man mano che la confidenza aumentava, lui si sentiva sempre più a proprio agio a casa della scrittrice, unico luogo in cui riusciva a tratti a lenire il senso di disillusione nei confronti della vita che continuava a portarsi dentro. Quella donna dall’acuta intelligenza e dalla dialettica sfavillante riusciva a rilassarlo, qualche volta addirittura a farlo anche ridere di gusto, in ogni caso con lei di sicuro non si annoiava e questo era già tanto per la sua anima esigente.
Claudine, dal canto suo aveva finito per innamorarsene, nonostante la evidente differenza di età. Indubbiamente lei era ancora una bella donna. Di fatto annoverava tra i suoi innumerevoli amanti molti giovani in erba nel modo dello spettacolo, che finivano per cadere nella rete della sua insaziabile brama di cacciatrice. Il suo tono di voce melodioso si insinuava nelle orecchie delle sue prede, catturandone completamente i sensi. Essi finivano così per naufragare miseramente nel corpo di Claudine, ancora fresco ed eccitante, per rendersi conto troppo tardi che il suo era solo desiderio di esercitare e confermare ancora il suo eterno fascino.
Con Terence era diverso. Quel ragazzo dalla classe innata e dai modi raffinati l’aveva estasiata fin dal loro primo incontro. Aveva subito percepito in lui il tormento di una personalità complessa, la profondità di un’anima sublime. Così diverso dagli uomini che avevano sempre frequentato il suo letto. Così distante eppure così dannatamente sensuale con quel suo modo di fare tanto eccentrico, fuori dai cliché del tempo.
Non sarebbe stata una conquista facile, se lo era ripetuta più volte, ma avrebbe trovato il modo di attirare nella sua rete non solo il suo corpo ma anche quell’anima ribelle e romantica al tempo stesso. Così, aveva preso a corteggiarlo, girandogli attorno, approfittando della disponibilità di lui ad ascoltare i suoi consigli, stuzzicandone la curiosità con i suoi racconti e la sua decennale esperienza letteraria.
Non era mai riuscita, tuttavia, a piegarlo a confidenze sul suo passato, che lei intuiva doloroso, sul quale lui puntualmente glissava ogni qual volta Claudine si avvicinava troppo ai confini della sua privacy. Il suo viso diventava scuro, assumendo un cipiglio che le incuteva soggezione, i suoi occhi diventavano una fessura, le sopracciglia si corrugavano e una smorfia di sofferenza gli attraversava il volto. Su quella parte della sua vita Terence non riusciva a fingere e questo era evidente, ma per lei farlo parlare era diventata un’ossessione. Finché non avesse allontanato il fantasma che lo possedeva lei non avrebbe potuto giocare a carte scoperte.

Quella sera, prima dell’arrivo di Candy a Londra, Claudine e Terence erano seduti nella sala da tè in cui solitamente solevano riunirsi con gli altri consociati. Ma questa volta erano soli. Claudine lo aveva convocato per comunicargli il suo parere in merito al copione di un’opera che Frederic e Terence avevano scritto insieme.
Avevano discusso amabilmente sull’introspezione psicologica dei personaggi da interpretare. Terence quella sera era un fiume in piena, gli occhi che brillavano come non mai, le mani che gesticolavano, il suo viso intenso che sempre più spesso assumeva un’espressione rilassata , quelle fossette deliziose che facevano capolino ogni volta che sorrideva, i capelli lunghi e setosi in disordine.
Lei lo guardava incantata, compiacendosi di vedere Terence insolitamente eccitato e disteso, forse era l’occasione giusta per fare breccia nel suo cuore, tanto più che nessuno quella sera li avrebbe disturbati.
-Terence, mio caro, vedo che il ruolo di drammaturgo ti calza a pennello. Hai mai preso in considerazione la possibilità di dedicare qualche ora del tuo tempo a scrivere? - gli domandò lei in tono mellifluo, sedendosi sul bracciolo della poltrona in cui lui si era comodamente adagiato.
-A dire il vero no, è la prima volta che mi diletto in questo genere di imprese e l’ho fatto solo perché me lo ha chiesto Fred - rispose lui, senza voltarsi a guardarla, le gambe completamente distese e lo sguardo sognante rivolto al soffitto.
-Dovresti invece. Scrivere ti carica di una strana energia, non riesci neppure a trattenere l’entusiasmo, sei molto più bello quando ti lasci andare - proseguì lei, tentando di provocare una reazione, mentre lui continuava a guardare assorto il lampadario di cristallo appeso al soffitto - Dovresti fare tutto ciò che tira fuori dal tuo animo il meglio di te stesso Terence, non rinchiuderti in una corazza quando potresti far sognare chiunque.
- Che cosa intendi dire Claudine - domandò lui, questa volta voltandosi a guardarla improvvisamente più serio.
-Che sono felice di vederti reagire ad un passato che ti tortura ogni giorno. Sono felice di sentire che ci sia ancora qualcosa nella vita che sappia farti risorgere dalle ceneri in cui ti sei seppellito e questo mi fa sperare che tu un giorno possa provare lo stesso entusiasmo per una donna.
Terence rimase a fissarla in silenzio. Capì al volo dove volesse arrivare Claudine e si sentì improvvisamente confuso. Con lei, in effetti riusciva a parlare senza provare quel senso di irritazione che solitamente sentiva verso il genere umano, consorte compresa. Non aveva mai preso in considerazione l’idea di aprire il suo cuore a nessuno, neppure a lei che sembrava comprendere tanto bene il suo stato d’animo. Rivangare il passato avrebbe significato per lui lacerare ferite mai rimarginate, rendere acuto un dolore che anche lui, come Candy, aveva cronicizzato per tentare di conviverci accanto. In fondo era geloso dei suoi ricordi, che non aveva mai voluto spartire con nessuno. Almeno su quelli voleva avere l’esclusiva. Condividerli con qualcuno che non fosse Candy significava profanarli, inquinarne la memoria.
-Si, forse un giorno deciderò di dedicarmi alla drammaturgia a tempo pieno, ma ancora non è il momento. - rispose lui tentando volutamente di divagare su un argomento per lui troppo pesante.
-Ah, pensavo mi dicessi che un giorno ci sarebbe stato posto per una donna nel tuo cuore - insistette lei, decisa a non perdere quella occasione, ora che lui aveva abboccato.
-Dimentichi che sono un uomo sposato Claudine, c’è già una donna nella mia vita- rispose lui con una risata sardonica, accendendosi un sigaro.
-Nella tua vita, certo, non nel tuo cuore Terence. Di chi è il tuo cuore, forse appartiene al tuo passato? aggiunse lei portandosi ancora più vicino a lui, fino a che i loro volti quasi si sfiorarono.
-Il mio cuore non è più in mio possesso Claudine. Hai ragione, vivo una vita senza palpiti, trascino i miei passi nel buio della solitudine dell’anima, ma ci ho fatto l’abitudine. E va bene così. Non posso avere la pretesa di saper apprezzare la mediocrità dopo aver conosciuto l’eccellenza.
-Ti riferisci ad una donna, allora? - Lo incalzò lei, ora la sua bocca ad un centimetro da quella di Terence.
- Cosa vuoi da me Claudine? Gli occhi blu di Terence quasi neri, gli occhi grigi di Claudine che tradivano tutto il suo desiderio - Non ho nulla da offrirti, neppure se lo volessi, donna. Puoi avere solo un corpo esanime tra le tue lenzuola, ammesso che io accetti di svenderlo e benché l’acquirente sia una donna che stimo - aggiunse lui in un sussurro, la bocca sensuale piegata in un ghigno sprezzante.

Lei non disse nulla. Posò delicatamente le sue labbra su quelle di Terence che rimase immobile. Poi iniziò a lasciare piccoli baci, sfiorandogli appena le labbra con le sue, delicatamente. Ancora fattasi più audace, dischiuse le labbra e imprigionò quelle di Terence in piccoli, voluttuosi e umidi morsi. Giocò così con lui per alcuni secondi, gli occhi socchiusi. Terence chiuse gli occhi. Un profumo di rose si sovrappose ad un profumo di violette. Le labbra a cuore morbide, carnose e ben disegnate. Riccioli biondi che gli solleticavano le tempie. La pelle del viso cosparsa di efelidi liscia e vellutata. Sollevò una mano per accarezzare con il palmo la guancia. Lentamente. “Terence, amore mio”, la voce di Candy che lo chiama, dolcemente. Colto di sorpresa da un sogno, si limitò in un primo momento a subire le avances di Claudine e poi a rispondere a quel bacio che sapeva di piacere ancestrale. Quel tocco così delicato e al contempo denso di erotismo aveva risvegliato il sopito istinto primordiale di predatore che albergava in lui. Nel sentire il cedimento del ragazzo sotto la sua avida bocca, Claudine, accecata dal desiderio prepotente di sopraffarlo, tentò di spogliarlo freneticamente. Ma tutto durò meno di quanto lei avrebbe voluto. Come accecato da un lampo e prima di perdere completamente il controllo di sé Terence aprì gli occhi e, maldestramente, ancora ansimante, la allontanò da sé, guardando quel caschetto nero e gli occhi grigi come se si fosse appena risvegliato da un lungo sonno.
-Non posso darti niente più di questo Claudine- le disse confuso, ancora con il respiro corto. Passato il tornado dell’impeto mascolino, la consapevolezza di aver fatto qualcosa di sbagliato lo aggredì prepotentemente. Chiuse gli occhi di nuovo e l’immagine dei due occhi verdi più belli che lui avesse mai visto che gli sorridevano lo investì con violenza, una chioma di riccioli biondi scompigliata dal vento, udì una risata argentina ancora troppo familiare, le piccole mani bianche che si aggrappavano al suo petto mentre cavalcavano, e si sentì perduto.
-Non devi giustificarti. Per il momento saprò accontentarmi. Il gioco vale la candela Terence - gli rispose lei, scoppiando in una fragorosa risata tentando di dissimulare la delusione - Resta ancora qui, non andare - aggiunse poi in tono quasi supplichevole, mentre lui si alzava dal divano come se quella stoffa scottasse.

Era sconvolto Terence. Travolto da una sensazione indecifrabile, rimase per qualche minuto incapace di gestire quella situazione che improvvisamente era diventata imbarazzante. E non certo per falsa pudicizia. Si alzò in piedi, si infilò il soprabito in tutta fretta e, senza aggiungere altro, uscì. Era l’alba e fuori gli uccellini iniziavano a cinguettare.
Si avviò lungo il viale alberato che costeggiava il palazzo in cui risiedeva Claudine, con le mani in tasca e il passo felpato. Doveva schiarirsi la mente dopo quanto successo e prima di rientrare a casa. Era turbato e allo stesso tempo addolorato. Quel contatto frettoloso gli era piaciuto e aveva scatenato in lui una tensione spasmodica di possedere e al contempo di essere posseduto. E Claudine non gli era indifferente sebbene non avesse mai pensato a lei come ad una ipotetica amante. Ma Claudine non era Candy ed era l’immagine di Candy ad averlo eccitato. Quell’incontro di pelle con un’altra donna lo aveva riportato ancora una volta a Candy e sentì di aver violato la sacralità del suo sentimento per lei. Dannazione, era passati così tanti anni, tutto era irrimediabilmente perduto, non l’avrebbe più rivista eppure si sentiva come se l’avesse tradita.
La parte più istintiva di lui gli suggeriva di non privarsi del piacere di soddisfare i suoi naturali impulsi nell’alcova di Claudine, dopotutto non aveva fatto voto di castità, sebbene in più di un’occasione si fosse imposto di reprimere i suoi istinti, e non sentiva di dovere a Susanna una fedeltà che non aveva fondamenta solide come possono essere solo quelle intessute di amore viscerale e fervente devozione. E forse neppure gli sarebbe importato esporla allo scandalo di un tradimento. Si era stancato di doverla sempre preservare dagli scossoni della vita. Aveva ripagato abbondantemente il suo debito di riconoscenza. Sentiva di non doverle nulla più di quanto già le aveva dato in cambio, la sua libertà. Per lei non era molto, mentre per lui era tutto. E allora perché si sentiva così a disagio? Che cosa lo aveva trattenuto dal continuare quel gioco erotico? Perché sentiva di non poter andare avanti con Claudine, come se qualcosa dentro di sé mordesse il freno?
Sentiva l’aria pesante, un’oppressione al petto che improvvisamente gli levò il respiro, un sensazione di sozzura che lo stava soffocando. Accelerò il passo e rientrò a casa.
Ad aspettarlo trovò una furibonda Susanna, che trascinandosi sulle sue stampelle lo seguì fino all’anticamera del bagno in cui lui si era diretto appena entrato.
-Non puoi trattarmi così Terence, dove sei stato, avresti almeno potuto avvisarmi. Con chi sei stato Terence, Terence! - lo acchiappò per il braccio mentre lui si toglieva il soprabito.
-Susanna calmati, ti prego - si divincolò lui, cercando di non perdere l’equilibrio, stranamente tranquillo -Hai ragione, avrei dovuto avvisarti che avrei trascorso tutta la giornata e la nottata fuori, prima alla Royal Academy of Dramatic Art e poi da Claudine Duvall. Scusami - le disse alla fine dopo una pausa guardandola negli occhi. Era curioso, non provava alcun senso di colpa nei confronti di Susanna, e allo stesso tempo non sentiva di doverle alcuna spiegazione. Era così distante da lei. Forse un vero estraneo sarebbe riuscito a provare un po’ di pena, mentre lui, che le aveva dato il suo nome, proprio non riusciva a sentire altro che fastidio. Anche in quel momento, in cui, razionalmente, si rendeva conto di essere totalmente in difetto.
-Lo sapevo, l’avevo capito sai? Credi che non abbia sentito quel dolciastro profumo di violette che hai addosso, Terence. Pensi che sia così stupida da non aver capito che sei stato a letto con lei - gli urlò contro Susanna, livida in volto, la voce rotta dal pianto.
-Susanna, per favore. Risparmiami le spiegazioni e risparmia a te stessa l’umiliazione di sentirti dire cose che non avresti mai voluto sentire. Stai tranquilla, nulla è compromesso, continuerai ad essere la signora Grandchester, tanto questo è ciò che realmente ti importa! - gli rispose lui duramente, voltandosi e dirigendosi verso il bagno. Aveva una premura insopportabile di immergersi nella vasca.
-Hai promesso fedeltà, non lo ricordi più? le urlò dietro lei, ora senza fiato, l’ansia crescente che le bloccava il respiro.
-Ah, ti sbagli mia cara, ho promesso che mi sarei preso cura di te. Stop. Non mi sembra che tu viva come una mendicante. Comunque, sono stanco Susanna, lasciami andare, ti prego. Rimandiamo a più tardi le recriminazioni e i piagnistei - le rispose con tono stanco, prima di chiudersi la porta alla spalle.

Immerso nella vasca debordante di schiuma, Terence ripensava a quanto accaduto. Gli occhi chiusi, in mezzo ai vapori che l’acqua bollente esalava, si lasciava trasportare da quella sensazione di torpore come un foglia al vento. Era combattuto, in conflitto con se stesso, interiormente travagliato, massacrato, incapace di perdonarsi per quell’istinto di pura carnalità che aveva preso il soppravvento su di lui. L’immagine di Candy si sovrapponeva a quella di Claudine, era come se lei, dall’America li avesse spiati, scoperti e lui non riusciva a darsi pace. Aveva ceduto, per un attimo, la sua mente gli aveva giocato lo scherzo peggiore, materializzandogli Candy più viva e presente che mai. Con lei si che avrebbe voluto giustificarsi, darle spiegazioni, supplicare il suo perdono, se solo avesse potuto. L’idea che lei potesse provare anche solo piacere fra le braccia di un altro lo fece rabbrividire. E se lei avesse fatto altrettanto? Si sentiva morire solo al pensiero di Candy nuda e condiscendente sotto un corpo che non era il suo. Dannazione stava impazzendo. Prese a sfregarsi con vigore una spugna intrisa di sapone su tutta la pelle del corpo, lungo le gambe, le braccia, il petto, con una forza che lasciò arrossate le parti strofinate. Aveva urgenza di togliersi di dosso quel disgustoso puzzo di violette che si era incollato alle sue narici. Gli sembrava di sentirlo ovunque nell’aria. - Perdonami amore mio - ripeteva ossessivamente, in preda alla delirante frenesia di spazzare via dal suo corpo ogni traccia del recente incontro - Ovunque tu sia, perdonami.
 
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nannetta70
view post Posted on 31/5/2010, 18:53     +1   +1   -1




Il Tenente Greason mi odierà :D

Capitolo 5

Una volta nella sua stanza, Candy disfece le valige e poi si distese sul letto, in attesa che Flanny la chiamasse perché si recassero subito all’Homeopatic Hospital. L’insediamento sarebbe dovuto avvenire proprio in giornata e lei si sentiva agitata. Attribuì quella sensazione all’apprensione dettata dall’incognita che stava per affrontare. Anche se, in fondo al suo cuore, sentiva sempre quello strano presentimento che l’aveva assalita appena la nave aveva attraccato. Scacciò dalla mente il pensiero di Terence e Susanna. Forse era la paura di incontrarli che la confondeva. Ma perché avrebbe dovuto incontrarli? Terence era un personaggio pubblico ed era sufficiente evitare luoghi, circostante e situazioni a rischio. Nascondersi sarebbe stato facile per lei, tanto più che non amava i passatempi mondani. Si sarebbe silenziosamente confusa tra quel milione di abitanti, passando inosservata, mimetizzandosi tra la folla dei cittadini londinesi. Si, mimetizzarsi era la parola giusta, lei, che non aveva mai amato stare in vetrina.

L’incontro con Mister Hope fu piuttosto bizzarro. Mentre varcavano l’ampio cancello che delimitava il parco interno dell’ospedale, il trotto dei cavalli di una carrozza attirò la loro attenzione. Voltandosi all’unisono videro scendere un uomo distinto, sapientemente vestito e curato, che con un gesto frettoloso pagò il cocchiere e si diresse verso l’entrata.
-Signore, ci scusi - disse Candy avvicinandosi timidamente - è questo l’Homeopatic Hospital?
Lui si girò, con sguardo altezzoso le squadrò da capo a piedi e rispose acidamente - Che volete ragazzine, andate via. Non è posto per voi questo, siamo già al completo con il personale di pulizie. Provate all’ University College.
Candy e Flanny prima si guardarono reciprocamente interdette, poi scoppiarono a ridere - Va bene signore - disse Flanny - grazie dell’informazione.
-Effettivamente non siamo proprio un esempio di eleganza Flanny - aggiunse Candy, abbassando il capo e analizzando il suo dimesso abbigliamento .
-Non starai mica diventando vanitosa Candy White. Non avrai nemmeno il tempo di guardarti allo specchio d’ora in avanti - le rispose Flanny con il suo solito tono grave.
All’interno, le accolse un fortissimo odore di antisettico che solleticò le loro narici. Tutto era in perfetto ordine, le pareti di un bianco abbagliante, le infermiere dalla divisa immacolata che silenziosamente giravano per i corridoi, una quiete che sapeva più di monastero che di ospedale, un’atmosfera che incuteva reverenza.
-Mister Hope vi aspetta nel suo studio, signorine - disse loro un’infermiera che si era materializzata improvvisamente alle loro spalle, per poi sparire silenziosamente così come era arrivata.
Le due ragazze si alzarono contemporaneamente dal divano in cui erano sedute e si diressero verso la porta in legno massiccio che era stata loro indicata. Con il fiato in sospeso e il cuore al galoppo, varcarono la soglia dell’ampia stanza.
Il sole filtrava dalla finestra che occupava tutta la parete alle spalle della imponente scrivania, accecandole con i suoi bagliori. Seduto sulla sedia direzionale stava lo stesso uomo che pochi minuti prima le aveva aspramente redarguite.
-La dottoressa Candice White Andrew e la signorina Flanny Hamilton, signore - annunciò un’altra infermiera all’interno della stanza che con un frettoloso inchino le lasciò immediatamente sole.

L’uomo rimase per un attimo coperto dalle pagine del giornale in cui si era tuffato. Poi sollevò il capo e, con gli occhialini tondi ancora inforcati sul naso spalancò la bocca.
Davanti a lui si stagliavano in controluce le figure di due giovani donne che lo colpirono per la semplicità con cui erano agghindate. Benjamine Hope non era insensibile al fascino ricercato delle donne che era abituato a frequentare e lo sorprese il contrasto fra la raffinatezza delle due donne, soprattutto la bionda, e la mancanza di eleganza nell’abbigliamento.
-Accomodatevi vi prego - disse loro alzandosi di scatto dalla sedia in evidente imbarazzo - Io, non pensavo che voi…-iniziò, quasi balbettando.
-Non si sforzi di trovare alcuna giustificazione al suo comportamento di pochi minuti fa, Mister Hope, non siamo qua per esibirci in una sfilata di moda, ma per lavorare seriamente - lo interruppe Flanny, con un cipiglio tutt’altro che amichevole. L’uomo scoppiò in una fragorosa risata. Quelle giovani fanciulle avevano carattere da vendere, proprio come si aspettava.

L’insediamento si svolse, tutto sommato all’insegna della reciproca cordialità. Hope le guidò in visita per tutto l’ospedale, spiegandolo loro quale sarebbe stato il ruolo che avrebbero ricoperto e le difficoltà che avrebbero incontrato. Candy lo ascoltava in silenzio mentre Flanny, di tanto in tanto, gli rivolgeva qualche domanda tecnica sulle metodologie seguite dal personale in servizio.

I mesi successivi trascorsero celermente. Il lavoro le assorbì completamente, lasciando loro solo il tempo di dormire qualche ora e nutrirsi tra un impegno e l’altro. A Candy era stato affidato un progetto relativo alle cure omeopatiche relative a pazienti che avessero sviluppato patologie legate alle denutrizione, mentre Flanny fu impiegata negli interventi di emergenza legati alla ricostruzione dei tessuti ustionati dai recenti eventi bellici.
Appena era riuscita a trovare un po’ di tempo, aveva scritto ad Albert, per rassicurarlo circa il loro insediamento e la nuova residenza. Lo aveva trovato insolitamente pensieroso, l’ultima volta che si era salutati e la cosa non l’aveva tranquillizzata per niente.

Mio caro Albert
ho appena varcato i confini di questa nuova vita e già mi manchi. Mi mancano i tuoi consigli, la tua saggezza, la tua pazienza, il tuo conforto, le tue forti spalle su cui poggiarmi, le tue grandi mani che mi sollevano e mi fanno volteggiare per aria. Ma devo farcela anche da sola, a qualunque costo. In fondo non è la prima volta che mi trovo ad affrontare un cambiamento, ho sempre superato le avversità che la vita mi ha donato e sarà così anche questa volta. Londra è una città meravigliosa, proprio come nei miei ricordi, non mi pento della scelta che ho fatto. Tuttavia devo confessarti che rispetto all’ultima volta, la sento ostile, come se stesse per prepararmi un tiro mancino, come se mi stesse aspettando al varco, è una sensazione che mi pone in continuo stato d’allerta.
Il lavoro, al contrario, è bellissimo, ed è ciò che ho sempre voluto fare. Non è un azzardo sostenere che la vita ha ripagato abbondantemente i miei sacrifici. È stata generosa nel dare mentre al contempo toglieva e ha riequilibrato la bilancia.
Albert, la mia speranza ora è che questa mia decisione non ci separi per sempre. Non so se morirò a Londra, se mai tornerò in America, ma spero con tutto il cuore di poterti rivedere. Intuisco che non sei veramente felice, mio caro Albert, i tuoi occhi sinceri non hanno bisogno del sostegno delle parole. Mi spiace non essere a Chicago ad ascoltarti e rincuorarti, ma sappi che potrai scrivermi quando e quanto vorrai, io ti risponderò sempre, anche se so che non è la stessa cosa. La nostra casa è grande e accogliente, inutile dirti che sarai sempre il benvenuto.

Ti abbraccio fraternamente, mio caro e sincero amico. Il mio affetto ti accompagni sempre.

Tua Candy


Albert non tardò a farsi vivo. Una sera, senza neppure realizzare lo scorrere del tempo che inesorabilmente scandiva la loro permanenza a Londra, si ritrovarono a passeggiare lungo il viale che, passando per Tavistock Square, le portava a casa. Una volta entrate, la governante consegnò loro la corrispondenza.
Tra quella destinata a Candy, vi erano alcune buste con sopra impresso il sigillo degli Andrew. Erano due, ma una come destinatario recava il nome di Flanny.
-Flanny, questa è per te - le disse Candy con un lieve sorriso sulle labbra.
-Come?- rispose la ragazza sollevando il capo e interrompendo l’esame della propria corrispondenza - Per me? Di chi è? - aggiunse con aria interrogativa e diffidente allungando la mano per prendere la busta.
-Non saprei, Flanny. Non ti resta che aprirla per scoprirlo- le rispose Candy dirigendosi verso la sua stanza - Ci vediamo più tardi per la cena? chiese poi, scrutando la reazione dell’amica che rivoltava la busta per capire chi fosse il suo mittente.
Flanny non rispose. La voce le si mozzò in gola quando lesse il nome di William Albert Andrew. Alzò gli occhi per guardare Candy, ma questa era già sparita, inghiottita dal buio del corridoio che la portava alla sua stanza.
Flanny rimase per un attimo impalata, con la busta nella mano che iniziava a tremare, il cuore in subbuglio e una vampata di calore che cominciava ad avvolgerla. Si diresse verso la sua stanza, accese il lume sul comodino e si sedette sul letto. Con mani tremanti, strappò la busta in un moto di nervosismo che non riuscì a dominare e iniziò a leggere:

Cara Flanny,
quando aprirai la busta che contiene questa lettera, immediatamente inizierai a chiederti perché il signor William Albert Andrew abbia avuto l’ardire di scriverti, mi sembra quasi di vedere la tua espressione contrariata.
Non preoccuparti, soddisferò presto la tua curiosità. Semplicemente perché mi fa piacere scriverti Flanny, è un modo per sentirmi più vicino a te e a Candy. Mettere nero su bianco i miei stati d’animo mi aiuta a sentirvi meno lontane. Pensi forse che non dovrei sentire anche la nostalgia di te Flanny? Perché mai non dovrei sentirla, ti chiederei io se fossi a Londra con voi. A volta bastano pochi minuti, addirittura secondi, per comprendere la persona che si ha di fronte, soprattutto quando, inaspettatamente, ci fa stare tanto bene. Ho subito capito che dietro il tuo autocontrollo si nasconde una donna di tempra, capace allo stesso tempo di sentimento. Io non oso chiedere di più della tua amicizia, Flanny, la possibilità di conoscerti e di dialogare con te, anche solo per iscritto, se lo vorrai. Ti sarei veramente grato se tu volessi rispondere alle mie lettere. Perdona la mia sfrontatezza nel chiederti tanto.
Abbi cura di te stessa, la tua salute mi sta a cuore quanto quella di Candy.

Sii felice.

Amichevolmente

Albert


Mio Dio, pensava Flanny, cosa avrà voluto dire con queste parole? Perché vuole la mia amicizia? Cosa c’entra lui con me? E io con lui?
-Perché mi prendi in giro Albert Andrew, vuoi divertirti con me per caso? Cosa pensi di ottenere in questo modo? Sei circondato da donne bellissime, ricche e sofisticate, perché vuoi perdere il tuo tempo con me? Non ti permetterò di umiliarmi!
Flanny parlava da sola, seduta sul suo letto. Scosse la testa da parte a parte, stringendo gli occhi e tentando di scacciare dalla mente l’ultimo ricordo che aveva dell’uomo, al molo di New York, che le sorrideva amabilmente, con quello sguardo trasparente come l’acqua - No no, non mi piaci Albert Andrew, non mi piacerai mai, non voglio la tua amicizia, sta lontano da me! - urlò a voce alta con foga, riducendo in mille pezzi la lettera.
Nell’altra stanza Candy leggeva voracemente la lettera di Alber, gli occhi che scorrevano velocissimi lungo le righe:

Mia cara Candy,

sono passati diversi mesi dall’ultima volta che ci siamo salutati e anche tu mi manchi. Questa casa risulta vuota senza di te. Quando hai deciso di tornare a vivere con noi lasciando il tuo appartamento a Chicago, mi sono illuso che sarebbe stato per sempre. E invece la tua indole indomita ti ha portato nuovamente lontana da noi. Non fraintendere, non voglio angosciarti. Sono così felice che tu abbia trovato la tua strada che saprei accettare qualunque tua decisione, pur di vederti serena.
Non sei serena Candy, non è così? Il lavoro ti appaga come speravi, ma non puoi ingannarmi, nemmeno con l’inchiostro. Scusa, sono caduto di nuovo in tentazione, lungi da me riportarti indietro nel tempo, quel che è stato è stato.
Desidero ringraziarti mia cara Candy. Da quando sei partita, il distacco da te mi ha portato a riflettere sul senso della mia vita e a prendere la decisione che tanto mi attanagliava la mente. Per ora è prematuro parlartene. Sappi comunque, che non è escluso che io possa raggiungerti a Londra per un breve periodo. Ho alcune faccende da sistemare in Europa, ti prego tuttavia di non parlarne a Flanny.
Abbi cura di te, ma so che saprai badare a te stessa egregiamente.

Ti abbraccio con affetto

Tuo Albert.


Una volta finito di scrivere, Albert si era appoggiato alla spalliera della sedia, dopo essersi versato un bicchiere di scotch. Aveva deciso. Non poteva continuare a violentare la sua natura di uomo libero. Lontano anni luce dallo stereotipo dell’uomo sofisticato, Albert provava una disperata nostalgia delle savane in cui aveva vissuto anni addietro. Il mal d’Africa non lo aveva mai abbandonato del tutto, si era semplicemente e silenziosamente mimetizzato in un angolo del suo subconscio. William aveva dovuto prendere il sopravvento su Albert per il bene della famiglia, ma il senso del dovere gli stava costando la salute. Da quando ufficialmente era a capo degli Andrew il suo senso di frustrazione era aumentato. Ogni atto compiuto nell’interesse, prevalentemente economico, della famiglia, iniziava a dargli la nausea, ogni incontro di lavoro diventava un pesante fardello, ogni impegno da assolvere una zavorra. Pensare di dover passare il resto dei suoi giorni tra carte, cerimoniali, etichette e protocolli lo annientava. Pensare poi di prendere moglie tra le sciape giovani della borghesia cittadina lo annichiliva. Si sentiva un topo in trappola, doveva trovare una soluzione. Gli era venuta in mente Candy, una donna dal temperamento forte che, pur di realizzare i propri sogni, non aveva esitato ad andare controcorrente, attirandosi le critiche dei falsi perbenisti.
Aveva molto da imparare da lei. Non era la prima volta che se ne infischiava dei pettegolezzi. Non avrebbe mai dimenticato che, mettendo a repentaglio la sua reputazione, lo aveva accolto in casa sua quando lui aveva perso la memoria.
E poi c’era Flanny , ultimamente non faceva che pensare a lei. Senza volerlo, si era ritrovato più volte a fantasticare su come sarebbe stato prenderle la mano e portarsela alle labbra, conversare con lei, ridere e scherzare. Più di una volta l’aveva osservata in ospedale, quando vi si era recato a notte inoltrata le volte in cui Candy aveva dovuto fare il turno di notte. Non gradiva che la sua pupilla tornasse a casa da sola a quell’ora e così, con quella scusa, si offriva di dare un passaggio anche a Flanny. L’abitudine gli era diventata improvvisamente piacevole, fino a che nella sua mente si era acceso un campanello d’allarme, costituito dalla cocente delusione provata nei casi in cui lei era già rientrata a casa.
Era convinto che Flanny fosse capace di donare molto più di quanto in realtà lei stessa accettasse di concedere al prossimo. La sua mente aveva galoppato più di una volta, immaginando di prenderla fra le braccia, toglierle gli occhiali e baciarla con passione, scioglierle i capelli, prenderla in braccio e adagiarla su uno di quei pagliericci in cui soleva dormire in Africa. Sapeva anche che, se mai fosse riuscito a conquistarla, si sarebbe attirato addosso tutti i fulmini e le saette di zia Elroy e del resto della famiglia, tranne di Candy, di questo era sicuro ed era più che sufficiente per lui.
In passato aveva avuto l’opportunità di approfondire qualche conoscenza femminile, ma la frequentazione non era andata mai al di là del mero rapporto fisico, né mai lui aveva sentito l’esigenza di costruire il proprio futuro con una donna, o di avere una famiglia propria. Eppure, da un po’ di tempo gli capitava di sentirsi incompleto, come un senso di inadeguatezza che lo faceva sentire spaccato a metà. Mancava qualcosa a completarlo e la sensazione di inappagamento che ultimamente l’aveva investito non era dettata solo dall’insoddisfazione professionale. Doveva agire, immediatamente. Non avrebbe più permesso che le circostanze scandissero il trascorrere della sua esistenza.

Candy e Flanny, immerse nella penombra del soggiorno cenavano in silenzio. La tensione era palpabile. Flanny deglutiva nervosamente la zuppa di verdure che le era stata servita e velocemente vuotò il piatto. Candy la osservava incuriosita. Intuiva quale fosse la causa di tanta inquietudine ma non osava fare domande. Sperava che fosse l’amica a parlare.
-Perché mi guardi Candy? - le domandò improvvisamente irritata, senza sollevare gli occhi dal piatto.
-Io? - le rispose Candy rimanendo con il cucchiaio sospeso per aria.
-Non vedo nessun altro nel soggiorno - le rispose seccamente Flanny.
-Cosa ti turba Flanny ?- si decise a domandare Candy. Tanto sapeva che non avrebbe resistito oltre, non sarebbe riuscita ad andare a letto senza aver sondato il terreno.
Flanny si passò il tovagliolo sulla bocca e poi lo poggiò stizzita sul tavolo. Prima di risponderle la guardò imbronciata - Non capisco dove voglia arrivare il tuo tutore - le disse trattenendo la calma.
-Se ti riferisci ad Albert, non è più il mio tutore Flanny, ma è come se fosse un fratello, anzi più di un fratello, se possibile - le rispose Candy con una calma snervante - Comunque, potresti essere più chiara?
-Non far finta di non capire Candy. Coma osa il signor William avere l’audacia di scrivermi una lettera, chiedendomi un’amicizia che tra noi non potrà mai esistere? Chi crede di essere, pensa che forse cadrò ai suoi piedi solo perché è abituato ad avere tutte le donne al seguito? - esplose Flanny tutto d’un fiato, diventando paonazza.
-Flanny calmati - la redarguì Candy - se ha chiesto la tua amicizia non mi sembra che abbia commesso un reato, non credi? Mi stupisci Flanny, una donna emancipata come te non dovrebbe vederci niente di male nell’intessere una sincera amicizia con un uomo- la prese vagamente in giro Candy.
-Lui non è un uomo qualunque Candy, lo sai bene. Lui è William Andrew, uno degli uomini più potenti degli Stati Uniti. Non capisco perché voglia perdere il suo preziosissimo tempo con un’infermiera. Forse vuole ridicolizzarmi? - continuò Flanny aspramente
-Non ti permetto di parlare così di Albert - le rispose Candy ora più seria - Lui è una persona speciale, dall’umanità esemplare, non farebbe mai del male a nessuno e meno che mai ad una mia amica. Non capisco perché ti scaldi tanto, dopo tutto ha chiesto la tua amicizia, mica la tua mano - continuò Candy, questa volta spazientita - Dimmi una cosa Flanny, non avrai per caso paura? -proseguì in tono inquisitorio.
-Cosa ti salta in mente Candy! Paura di cosa, scusa? Ti rendi di conto di quello che dici? Io non ho paura di nessuno! - sbottò furibonda alzandosi di scatto dalla sedia.- Forse dimentichi dove sono stata negli ultimi anni e come è trascorsa la mia vita, suturando ferite, amputando braccia e seppellendo cadaveri negli ospedali da campo francesi. Forse dimentichi che ho rischiato la vita infinite volte per salvare quella degli altri. Forse dimentichi che ho la pelle marchiata da decine di cicatrici e le mani indurite dai calli. Questo lo sa il tuo caro amico William? Sa che non curo le unghie, non acconcio i capelli e il mio guardaroba non conta più di qualche capo d’abbigliamento tutt’altro che elegante?
-Ora sei tu che non sai ciò che dici. Siediti Flanny, non fare la bambina, stiamo parlando, coraggio! insistette Candy mentre indicava all’amica la sedia - Non vorrai che litighiamo per Albert?Avanti, siediti! continuò Candy - Di solito sono io l’impulsiva fra le due, che succede? - continuò con il suo usuale tono dolce, consapevole dell’effetto calmante che la sua voce melodica aveva sulle persone irritate. Flanny rimase con i pugni stretti, controvoglia si sedette lentamente.
-Flanny, io non so cosa Albert abbia scritto in quella lettera e neppure lo voglio sapere, credimi, ma voglio dirti una cosa. Prima del signor William lui è Albert, con la sua dolcezza, generosità e altruismo. È la persona più buona che io abbia mai incontrato nella mia vita e dovresti sapere che non è snob, se è questo quello a cui stai pensando - Flanny spalancò gli occhi, colta in flagrante - altrimenti non si sarebbe preso cura di me che sono una povera orfana. Non mi avrebbe accudita come se fossi una figlia, esponendosi anche alle critiche della sua supponente ed esibizionista famiglia. Solo questo Flanny - tacque per un attimo, scrutando la reazione dell’amica - Ehi Flanny - proseguì ancora più dolcemente - non ti sarai per caso innamorata di lui?
-Taci Candy - l’aggredì Flanny alzandosi nuovamente dalla sedia - essere amiche non ti dà il diritto di dire tutto quello che ti pare! Come osi solo pensare…-le parole le morirono in bocca, lanciò il tovagliolo che teneva fra le mani sulla tavola e corse via verso la sua stanza.
-Anche tu hai un cuore Flanny, anche se ti ostini inutilmente a celarlo- pensò Candy, sorridendo compiaciuta. Finalmente l’iceberg iniziava a sciogliersi.

Continua


:rose rosa:




Ora è proprio il caso che mi fermi :lol:

Capitolo 6

-William che cosa ti è saltato in mente! Sei impazzito per caso? Non starai parlando sul serio! - la voce della zia Elroy tuonava nella sala da tè di palazzo Andrew a Chicago. Albert, accomodato sull’ampio divano in velluto rosso, l’espressione serena e palesemente divertita, attendeva che la zia calmasse i suoi eccessi d’ira.
-Non puoi abbandonare la famiglia, io sono troppo vecchia, non ce la farei senza di te. Lo sapevo, ho sempre saputo che quell’orfana avrebbe avuto su di te un’influenza negativa. Da quando è entrata nella nostra famiglia le disgrazie si sprecano - aggiunse duramente - William ti prego, ritorna sulle tue decisioni, ti prometto che tacerò per il resto dei miei giorni, mi ritirerò in buon ordine, non ti importunerò più con il desiderio di avere dei pronipoti - continuò poi, abbassando i toni e assumendo una cadenza petulante.
Albert, la guardò, in silenzio. Aveva chiaro in mente tutto ciò che le avrebbe detto qualche istante dopo, ma tacque ancora per qualche secondo. In fondo quella sterile donna era pur sempre la sorella di suo padre e non riusciva a non provare per lei comprensione. Era anziana, sola, priva di affetti sinceri che tuttavia la sua arida indole non avrebbe neppure saputo apprezzare. “Ognuno raccoglie ciò che semina” pensava Albert, mentre osservava la donna, cercando le parole giuste per non ferirla troppo, sebbene in cuor suo riconoscesse che lei non meritava tante sincere attenzioni da parte sua.
-Mi ascolti attentamente zia - iniziò Albert con tono calmo, passeggiando avanti ed indietro per la sala - io non ho intenzione di abbandonare la famiglia, che continuerò a seguire, anche se da lontano. George, con l’aiuto di Archie, continuerà ad occuparsi degli affari degli Andrew. Non comparirò ufficialmente, ma continuerò a dare tutte le disposizioni che riguardino l’amministrazione straordinaria del capitale di famiglia. Ho già organizzato tutto e lei non ha niente di cui preoccuparsi. Non sono un irresponsabile che disconosce il ruolo che per tradizione gli spetta, seppure nessuno abbia avuto la sensibilità di chiedermi cosa ne pensavo io prima di assumerlo, ma è giunto il momento di pensare anche a me stesso, alla mia serenità, alla mia felicità, al mio futuro. Mi dispiace invece che lei non riesca a voler almeno un poco di bene all’unica persona autentica della nostra famiglia. Candy farà sempre parte della famiglia Andrew, riceverà la sua dote se dovesse decidere di sposarsi e la sua parte di eredità quando sarà il momento. Credo sia arrivato il momento di smetterla di offenderla perché offendendo lei, offende soprattutto me, zia - concluse Albert con la consueta pacatezza, tirando un sospiro di sollievo per essere riuscito a vuotare il sacco senza alterarsi.
-Dove andrai, se è lecito chiederlo? domandò Emily, abbassando lo sguardo con un sospiro si rassegnazione
-A tempo debito la informerò di tutto, ora non è il momento- le rispose Albert, alzandosi dal divano e dirigendosi verso la porta.
-William, un momento ancora - lo chiamò la zia in tono imperioso - mi devi quanto meno sincerità. Ti sei invaghito di quell’orfana? - gli chiese sollevando gli occhi verso di lui, con alterigia. Albert, la guardò per un istante interdetto e poi scoppiò a ridere, mostrando la sua perfetta arcata dentaria.
-Zia, lei mi conferma che non ha mai capito niente, né di me, né di Candy - le rispose, continuando a ridere.
-E allora se non è Candy, chi è? lo interruppe la zia con il solito accento arrogante, accompagnando la domanda con un gesto della mano. Albert smise di ridere e si fece improvvisamente serio.
-Non ha importanza chi sia, zia. Posso solo dirle che è la donna migliore del mondo e non è indispensabile che lei mi conceda il suo benestare. Buonanotte zia Elroy - le disse uscendo dalla stanza.

All’improvviso si sentiva euforico, leggero come una piuma. Aveva vuotato il sacco senza traumi, la zia non aveva neppure finto un malore, era andata meglio di quanto si aspettasse e lui era riuscito con delicatezza ad insinuarle il tarlo che forse il suo cuore iniziava finalmente a battere. Sorrise al pensiero dello scandalo che avrebbe scatenato se avesse messo in piazza i suoi sentimenti. Dopo tanto tempo, finalmente tornava a vivere, si sentiva un ragazzino alla prima cotta, eccitato all’idea di imbarcarsi in un tunnel di cui non vedeva l’uscita ma che lo attraeva irresistibilmente. Non gli importava di rischiare né il buon nome della famiglia, né la reputazione, né la delusione di un eventuale rifiuto. Il suo cuore gli diceva che non poteva non osare. Anche se avesse avuto poche chance con lei, le avrebbe utilizzate tutte. Da quand’è che non corteggiava una donna? Forse non l’aveva mai fatto. In effetti non ne aveva mai avuto bisogno. Ma in passato neppure si era mai posto il problema, semplicemente perché non ne aveva mai sentito l’esigenza.

Sorrise al pensiero di Candy. Chissà cosa avrebbe detto nel vederlo così. Oh, sapeva cosa avrebbe detto, anzi cosa avrebbe fatto. Gli sarebbe saltata al collo, agganciandogli i fianchi con le sue gambe, lo avrebbe ricoperto di baci sulle guance, lo avrebbe abbracciato con forza e si sarebbe congratulata con lui. E lo avrebbe incoraggiato. Quella santa donna lo avrebbe sempre compreso.
La sera prima aveva sistemato le cose prima con George e poi con Archie. Si erano abbracciati fraternamente, felici di rivedersi dopo tanto tempo. Archie ed Annie si erano stabiliti a Lakewood appena sposati e da allora gli incontri a Chicago si erano diradati, soprattutto dopo la nascita del piccolo Stear. Archie aveva sempre dato il suo contributo alla gestione del patrimonio di famiglia ma, di fronte alla proposta di Albert, inizialmente rimase sconcertato.
-Sei sicuro zio William di quello che dici? Non è troppo azzardato abbandonare tutto così? Non fraintendermi, rispetterò qualunque decisione tu voglia prendere e avrai tutto il mio sostegno, ma partire tanto lontano, forse per sempre…
-Archie, non ho mai detto che avrei abbandonato la famiglia. Non ne ho l’intenzione. Semplicemente la veglierò da lontano. E non è detto che non ritorni. Posso chiederti un favore personale? chiese poi interrompendo il filo del discorso.
-Ma certo zio William tutto quello che vuoi - assentì Archie ben disposto come sempre
-Potresti smetterla di chiamarmi zio William, mi fai sentire vecchio! gli disse in tono serioso, tradito dall’ espressione divertita degli occhi.
-Si, va bene …zio William! gli rispose Archie sorpreso. Scoppiarono a ridere all’unisono, sinceramente rilassati, nonostante la palese esitazione di Archie ad accettare il suo nuovo ruolo.
-Albert, c’entra Candy in tutto questo? osò domandargli Archie, mentre sorseggiavano il loro brandy preferito
-Perché tutti pensate che io non sappia decidere della mia vita autonomamente? Dovrei offendermi forse? gli rispose provocatoriamente Albert.
-No no zio Will…Albert, non è questo. Solo, ho pensato che tra la sua e la tua decisione ci fosse, non so, una relazione - rispose Archie, non sapendo come spiegarsi.
-L’unica relazione esistente è data dal fatto che io e Candy siamo due gocce d’acqua. Se avessimo avuto gli stessi genitori non ci saremmo somigliati così tanto. Semplicemente lei mi ha preceduto. Ad ogni modo ciò che ci accomuna è il desiderio di libertà. Lei ha scelto Londra come luogo in cui esercitarlo…
-E tu Albert? - lo anticipò il nipote, desideroso di comprendere.
-Non vivrò a Londra Archie - rispose Albert pacatamente. Rimase in silenzio a scrutare il liquido ambrato che fece roteare all’interno del bicchiere. Poi si portò lentamente il bicchiere alle labbra, poggiandole appena sui bordi per assaporare adagio il sapore forte del liquido.
-Non dirmi che...-iniziò Archie, lo stupore che si disegnava sui suoi lineamenti delicati.
-Si - lo interruppe questa volta Albert - Kenya. A pochi chilometri da Mombasa c’è un villaggio in cui un gruppo di missionari lavora giorno e notte per la costruzione di una scuola e di un piccolo ospedale. Ho lasciato il mio cuore in quel posto e voglio riappropriarmene. Ho deciso di investire una parte dei capitali di famiglia, quelli che mi spettano personalmente di diritto per dare il mio contributo. Quella gente ha bisogno del mio aiuto, è l’unico modo che ho per ricompensarli degli anni felici che mi hanno gratuitamente regalato - Albert tacque. Una leggera commozione al ricordo di quei sorrisi sdentati gli impedì di proseguire.
L’Africa gli era entrata nel sangue. Il tam tam dei tamburi in lontananza. I falò notturni. La caccia all’antilope. Quella gente così generosa, disinteressata e sincera lo aveva conquistato. In mezzo a loro aveva trovato la sua dimensione. Lontano dagli agi di casa Andrew si sentiva magnificamente. Poteva dormire sotto un tetto di stelle e gli pareva di stare in una reggia. Non gli pesava la mancanza di acqua corrente. Ammirava quelle donne che con umiltà e dignità, con in braccio i loro cuccioli, si mettevano silenziosamente in fila all’unica fonte disponibile in attesa del loro turno per fare rifornimento d’acqua. Sempre sorridenti. Sotto il sole cocente che spaccava la terra. Sotto i radi nubifragi. Durante la carestia. Grate alla vita per averle generate.
Archie rimase in silenzio. Incapace di proferire parola, attese che Albert riprendesse il discorso.
-Ti chiedo solo di affiancare George nella direzione degli affari di famiglia e di dare uno sguardo alla zia Elroy, non ha una buona cera ultimamente - proseguì Albert pensieroso.
-Sei preoccupato per lei? - domandò Archie
-Si. È molto anziana oramai e anche se ha commesso molti errori nella sua vita è una donna sola - gli rispose Albert assorto.
-Forse è sola perché ha commesso molto errori. Sta semplicemente raccogliendo ciò che ha seminato nel corso della sua fatua vita - affermò Archie lievemente intristito.
-Già - sospirò Albert - mi dispiace molto per lei, ma ora voglio davvero pensare alla mia vita Archie. E nemmeno zia Elroy potrà impedirmelo - concluse con decisione. Sapeva che non sarebbe stato facile voltare pagina così drasticamente. Lo attendeva l’ignoto fuori dal massiccio portone di casa Andrew.

Immersa fra ampolle, alambicchi e distillatori, Candy trascorreva le sue giornate all’Homeopatic Hospital in totale raccoglimento. Il suo era un lavoro che affiancava alla ricerca la sperimentazione in corsia. La teoria trovava il suo fertile terreno nella pratica e la impegnava quotidianamente. La responsabilità di condurre un intero reparto non le consentiva di divagare su nient’altro che non fosse la cura dei pazienti ricoverati. Grata all’occupazione che non le dava tregua, riusciva in questo modo a scacciare dalla mente il rovello di due fari blu profondi come gli abissi. Qualche volta si era ritrovata a fantasticare su come sarebbe stato incontrarlo di nuovo, se l’avrebbe mai riconosciuto, se fosse cambiato in tutti quegli anni, ma poi scacciava violentemente il pensiero dalla mente, augurandosi dal più profondo del cuore di non avere quella che lei considerava la sventura di incontrarlo.

Negli ultimi mesi era stata molto accorta. Certo, non era facile dissimulare il turbamento quando le capitava d’imbattersi in un manifesto che pubblicizzava un’opera teatrale di cui lui era protagonista. Per fortuna il ritratto di lui era sempre stilizzato, ma bastava leggere il suo nome per mandarla letteralmente in pezzi. Allora correva, a perdifiato, lungo i marciapiedi di Londra, come un’ossessa in preda al suo delirio, fino a che non voltava l’angolo e si appoggiava affannosamente alla parete di qualche palazzo. Poi riprendeva a camminare, lentamente, modulando la respirazione per calmare i battiti impazziti del cuore.
Aveva deciso tuttavia di allenare il suo autocontrollo. Era riuscita gli anni prima, quando il rischio di incontrarlo era più minaccioso. Ce l’avrebbe fatta anche ora. Ma era sempre estenuante. Questa volta non sapeva come l’avrebbe spuntata, la sua proverbiale impulsività le avrebbe messo i bastoni fra le ruote ma la cocciutaggine che le faceva da contralto avrebbe stabilizzato la bilancia. In fondo, evitare il rischio di incontrarlo non era stato difficile fino ad allora. Era talmente poco il tempo che aveva a disposizione per se stessa che le giornate duravano quanto un battito di ciglia.
L’unica volta che aveva preso in considerazione la possibilità di uscire dal guscio era stato in occasione dell’invito di mister Hope alla prima della Tosca, che si sarebbe tenuta al Theatre Royal. Mister Hope aveva invitato anche Flanny, la quale inaspettatamente si era rivelata favorevole all’uscita. Candy l’aveva guardata sbigottita, sorpresa davanti all’entusiasmo manifestato dall’amica, solitamente poco incline ai passatempi mondani.
-Su Candy, un diversivo ci farà bene - le aveva detto a bassa voce, mentre Hope usciva dalla sala delle medicazioni
-Non ti riconosco più Flanny - le rispose Candy stancamente.

In realtà non riconosceva più se stessa. Le era sempre piaciuto andare a teatro, incontrare nuove persone. Assaporare Londra a 22 anni non era come perlustrarla quando ne aveva 14. Allora avrebbe dato chissà cosa per uscire tutte le volte che ne aveva il desiderio, sgattaiolare fuori dal collegio e percorrere le strade di Londra in gran segreto. Adesso, al contrario, l’idea non l’allettava per niente, anzi la intimidiva. Londra le pareva fosca alle volte, come se da un momento all’altro potesse ingoiarla nell’antro dei suoi misteri. Si sentiva al sicuro solo in ospedale e dentro la sua stanza in Bloosboury. Anche il tragitto che la portava al lavoro le pareva pieno di insidie.
-Candy, non stiamo parlando di un’opera teatrale in cui lui - fece una pausa - è il protagonista, perché è a questo che stai pensando vero? - l’apostrofò con il suo solito tono grave. - È un’opera lirica, un melodramma italiano. Ti prometto che passerai una buona serata e non accadrà nulla di spiacevole - prosegui Flanny nel tono più convincente che le era possibile assumere. Non era mai stata brava a rincuorare nessuno, il suo tono di voce finiva sempre per essere poco rassicurante.
Candy non aveva risposto, ma si era riservata di pensarci su prima di prendere una decisione. Non era solo la paura di incontrare Terence che la tratteneva. Era anche l’atteggiamento di Hope che ultimamente la lasciava sconcertata. Da un po’ di tempo infatti, l’uomo aveva preso a girarle attorno. Con scuse legate ai suoi impegni professionali, la coinvolgeva in riunioni che, al contrario, poco avevano a che fare con la professione. Sostanzialmente Candy era rimasta la ingenua ragazza di sempre. Tuttavia, il suo intuito aveva recepito a livello inconscio che le attenzioni dell’uomo non erano del tutto disinteressate.

Dal canto suo Ben Hope, si era ritrovato a pensare sempre più spesso a quell’americana tutta dolcezza e pepe. Gli erano sempre piaciuti i sapori agrodolci.
Inizialmente era rimasto quasi indifferente di fronte alla essenzialità di quella giovane donna, sebbene non gli fossero sfuggite le proporzioni delle sue forme ben delineate. Poi, pian piano, quel modo di fare così diretto e al tempo stesso tanto soave aveva solleticato la sua curiosità. Dietro il camice bianco che la proteggeva dagli sguardi maschili aveva iniziato ad intravvedere una donna appetibile, prima di tutto sessualmente, a dire la verità. Hope era un vecchio lupo famelico che non si era mai lasciato sfuggire una preda, soprattutto quando questa appariva ignara del pericolo incombente. Non gli ci volle molto per capire di avere di fronte a sé un pezzo raro, una vergine, da strapazzare a piacimento nell’alcova della sua casa. Di solito prediligeva le consumate signore dell’alta società londinese. Quanto lo divertiva conversare amabilmente con gli uomini di cui aveva appena violato il talamo nuziale!
Ma una vergine non gli era mai capitata a tiro. Non aveva mai sperimentato il piacere di insegnare ad una principiante i piaceri carnali dell’alcova, trasformare un’anima incontaminata in una meretrice. Solo l’idea lo incendiava come un tizzone.
Si era reso conto ben presto che non sarebbe stato facile attirarla nella sua tela. A dispetto del suo carattere estroverso, stranamente Candy non riusciva ad essere rilassata quando si trovava sola con Hope. Quegli occhi marroni dal cipiglio arguto la spaventavano, lasciandola incomoda ogni volta che lui faceva di tutto perché rimanessero da soli. Ben Hope, d’altra parte non era un rozzo uomo di strada. Non avrebbe costretto nessuna con la forza ad assecondare i suoi appetiti. Il suo maggior divertimento consisteva proprio nel persuadere le sue amanti che la cosa migliore del mondo fosse sottomettersi alle sue libidinose pulsioni. Aveva a disposizione tanto di quel tempo, con Candy sempre a portata di mano in ospedale, che non c’era motivo di mettersi fretta.

Quella mattina di tre mesi prima, in cui Candy e Flanny aveva preso servizio in ospedale, lui si era asciugato in fretta, scrutando il riflesso che lo specchio gli rimandava del suo corpo statuario. La pelle liscia, il torace glabro ben delineato, una leggera peluria sulle gambe statuarie, i capelli ancora bagnati incollati al viso.
Si sentiva sporco Terence. Quel bagno bollente non aveva ripulito il senso di lordura che provava guardandosi allo specchio. Si sentiva schiantato. Era mai possibile che ogni suo gesto portasse sempre all’autodistruzione? Che tutto quello che faceva finisse sempre per partorire dolore? Rifiutato dalla madre, aveva trovato requie nell’amore incondizionato verso un’altra donna. Un amore che non si sarebbe mai potuto sostituire a quello materno ma che lo aveva riscattato dalla sensazione di nullità che lo aveva sempre accompagnato fin dall’infanzia. L’unica donna che lo aveva riconciliato con l’universo femminile lui l’aveva dovuta lasciare andare. Aveva promesso di rendere felice Susanna e invece era riuscito solo a trasformare le loro vite in un inferno. Con le sue decisioni e i suoi comportamenti aveva ferito tre persone, Candy, Susanna e se stesso. Consapevole di non riuscire a sopportare il pensiero di Candy gaudente fra le braccia di un altro, non era riuscito a dominare i propri impulsi. Irrazionalmente pretendendo da lei un’assurda fedeltà, carnale e spirituale, era stato il primo a tradire e a rinnegare quel filo sottilissimo che l’avrebbe sempre legato a lei. Lui arrivava sempre troppo tardi. A piangere sul latte versato oramai era diventato un maestro. Il rimpianto era diventato il suo più fido alleato. Avrebbe preso a pugni quella faccia da schiaffi che lo specchio gli rimandava, se avesse potuto.
Con questo stato d’animo iniziò a vestirsi, con calma flemmatica si fece la barba. Non ne aveva alcuna voglia, ma radersi di solito gli trasfondeva un senso di distensione. Non quella mattina.

Pensò a Susanna. Forse era stato troppo crudele con lei. L’indifferenza non giustificava l’offesa che le aveva arrecato. Per quanto tutti quegli anni passati al suo fianco avessero fiaccato la sua pazienza, lui non avrebbe mai voluto farle del male deliberatamente. Indeciso se raccontarle o meno l’accaduto, rifletteva sull’inevitabilità di quanto successo. Rapportato a Susanna, quanto accaduto aveva il sapore dell’ineluttabilità. Si chiese se avesse mai creduto sinceramente di poter costruire con Susanna un rapporto stabile e duraturo, vista la fragilità delle fondamenta su cui si reggeva la loro relazione. Davvero aveva pensato di riuscire ad esserle fedele, condannandosi alla morte della carne, oltre che dell’anima? Forse neppure se Candy non fosse esistita avrebbe potuto nutrire verso Susanna un’inclinazione diversa dalla semplice amicizia. Refrattario all’imposizione di qualunque regola, qualsiasi costrizione finiva sempre per far scalpitare la sua anima indipendente. Il senso del dovere era connaturato al suo congenito senso della responsabilità ma faceva a cazzotti con l’indomita inclinazione ad essere se stesso ad ogni costo, nel bene e nel male. E con Susanna lui era ben lungi dall’esserlo.

Ma Candy era viva, più che mai. E rapportato a lei il discorso si faceva più complicato. E più doloroso. Pensare a lei gli provocò un tuffo al cuore. E un senso di languore allo stomaco. La mano gli tremò, le dita si lasciarono scappare il manico della lama che, in un guizzo scintillante, gli lacerò il mento. Uno zampillo si sangue schizzò sullo specchio. Prese un asciugamano e tentò di tamponare come poteva il mento. Ma poi smise di fare pressione. Lasciò che il sangue rifluisse in superficie. Lo lasciò scorrere lungo il mento, il collo, il torace. Si toccò con i polpastrelli e rimase ad ammirarne il colore. Rubino. Come il suo cuore dilaniato. Ora più di prima. Non riusciva a non colpevolizzarsi sebbene negli ultimi anni fosse riuscito a riconciliarsi con tutti. Si era riappropriato della sua grande dignità per amore di Candy. Si era sforzato in tutti i modi di mantenere la promessa che le aveva fatto a New York. Per amore suo aveva allenato la sua indole impulsiva e limato i suoi difetti. Era riuscito a costruirsi un’esistenza dignitosa, dall’apparente tranquillità. Aveva lasciato prevalere l’amore filiale nei rapporti con la madre, con il padre un rapporto civile, fondato su un rispetto autoimposto al solo al pensiero di guadagnarsi in tal modo l’ammirazione della donna che gli aveva trafitto il cuore nel parlargli del suo dolore di orfana. Anche con Susanna, tutto sommato. Una volta preso coscienza che non l’avrebbe mai amata aveva governato i suoi sentimenti in modo tale che l’indifferenza prevalesse sul rifiuto fisico che lei gli procurava.
Ma non era mai riuscito a riconciliarsi totalmente con se stesso. La lotta fra l’amore e il senso del dovere in tutti quegli anni lo aveva spossato. E seppure era riuscito a costruirsi una corazza che trasudava sfrontatezza e arroganza, all’interno dell’involucro la sua anima candida continuava ad essere oggetto dell’inflessibile scontro fra il bene e il male, il giusto e l’errato, la luce e il buio. Il pensiero di Candy lo destabilizzava, lo denudava, lo faceva sentire piccolo e indifeso, pargolo desideroso di latte materno da succhiare ingordamente. E ora, dopo quanto accaduto, sebbene razionalmente fosse consapevole del fatto che non si sarebbero mai più rivisti, si sentiva indegno anche del suo ricordo, dei suoi sorrisi, del loro immacolato amore, dei fremiti che li avevano uniti. Forse era un bene proprio il fatto che non si sarebbero più rivisti, non avrebbe più potuto guardarla negli occhi se l’avesse incontrata. Non avrebbe saputo simulare la vergogna che avrebbe provato. E anche se era certo che lei lo avesse dimenticato, era sicuro che Candy non avrebbe mai approvato il suo comportamento, schierandosi apertamente dalla parte di Susanna. Non avrebbe potuto sopportare il suo sguardo contrariato su di lui, la disillusione dipinta nel volto. Quello che lo aveva tenuto vivo era il ricordo dei suoi sorrisi tutti per lui, dell’ammirazione tutta per lui, della comprensione tutta per lui, dell’entusiasmo di quando inizialmente si erano rivisti a New York tutto per lui. Non poteva sopportare l’idea che il sostentamento del suo inesauribile amore gli venisse meno, che l’unica persona che gli aveva dato fiducia fosse delusa da lui.

L’aria continuava a mancargli. Così decise di raggiungere l’unico posto in cui riusciva a placare l’angoscia. Finì di vestirsi e senza neppure fare colazione, si diresse verso la St. Paul School. Sfrecciando per le strade di Londra con il suo ultimo acquisto, raggiunse in poco tempo l’edificio decadente.
Si avviò direttamente verso la seconda collina di Pony, fiducioso che le fronde di quell’albero complice del loro amore lo avrebbe confortato come sempre. Aveva voglia di parlargli, chiedergli consiglio, sentire il sospiro del suo fogliame, come quando era dovuto partire improvvisamente per l’America, lasciandola a Londra dopo lo scandalo ordito da Iriza.
Toccò la corteccia con le mani, vi poggiò la fronte, in attesa di sentire il soffio refrigerante dei rami su di lui. Nulla.
Allora si sdraiò sull’erba, sotto il fogliame, incrociò le braccia dietro la nuca e rimase in silenzio. “Parlami, ti prego, dimmi quello che devo fare”. Nulla. Si girò su un fianco, poi sull’altro, poi si sollevò, tirò fuori dalla tasca l’armonica e iniziò a suonare. Le note di Annie Laurie ancora una volta gli parlarono d’amore. Ma il cuore era al galoppo. Un cavallo imbizzarrito nel petto. Smise di suonare e si sdraiò nuovamente. Iniziò a respirare profondamente, inspirare ed espirare, ossigenare l’anima, controllare i battiti. Il sole primaverile iniziò ad intenerirsi e ad accarezzargli il ciuffo ribelle che gli cadeva sugli occhi, poi tutto il viso, poi tutto il corpo, una morbida coperta di soave tepore.

“Vieni qui, amore mio, vieni da me”. Candy lo chiama, la voce ovattata, distesa sul divano rivestito di vermiglia seta, completamente nuda, i seni turgidi e pieni, i fianchi ben torniti, il pube ricoperto di una bionda peluria. Non se l’era mai immaginata così audace. Dove aveva imparato l’arte della seduzione? Tra lo stupore e la sorpresa, la visione di lei che maliziosamente lo attira, lo fa letteralmente ammattire. Lui, ammaliato ed eccitato, si avvicina sempre di più. Fino a che non si distende al suo fianco. Le sue piccole mani, inaspettatamente esperte, che esplorano tutto il suo corpo, facendolo impazzire di desiderio. La bocca di lei, tenera e ardente allo stesso tempo, sul suo petto, sull’addome, sui fianchi. In preda al delirio di possederla, lui la stringe forte a sé, la bacia con trasporto, la sua lingua calda e morbida che, con movimenti lenti si insinua nella bocca di lei, esplorandola adagio. Le dita di Candy intrecciate fra i suoi lunghi capelli, sul collo, ad afferrargli le larghe spalle. Lui che percorre con mani tremanti la linea dei seni, accarezzando con delicatezza i capezzoli, sorridendo nel sentirli inturgidire sotto i suoi polpastrelli, fino a che, nel sentirla pronta per l’amplesso, si fa strada tra il suo interno cosce. La guarda negli occhi prima di prenderla, con lo sguardo appassionato di chi ha perso la testa per amore.

Claudine gli sorride. I suoi occhi grigi trepidanti di desiderio lo invitano ad avanzare. Lo afferra per le spalle, gli circonda il bacino con le gambe e lo stringe a sé, premendogli i glutei. Il volto di Terence si trasfigura dall’orrore. Vorrebbe liberarsi da quelle catene, ma gli mancano le forze. Fa leva sulle braccia muscolose per sollevarsi ma lei lo imprigiona con le gambe. “Non ti lascerò mai”, la voce di Claudine ha il sapore della minaccia. E il viso di lei sempre più vicino, più vicino.
“Candy”! si svegliò di soprassalto madido di sudore, gli occhi sbarrati, colmi di terrore, i capelli scompigliati, un tremore per tutto il corpo, il respiro corto. Si portò una mano al petto, ma il cuore era risalito in gola. Si guardò intorno e con un sospiro di sollievo realizzò di essere stato vittima del peggiore dei suoi incubi. Ma le mani sapevano di profumo di rose. Quei seni lui li aveva toccati, accarezzati, li aveva sentiti sotto il suo petto.
“Sto diventando pazzo”, si disse, sollevandosi con un solo movimento, bianco come un lenzuolo, “mio Dio come posso porre fine a questo mio eterno tormento. L’inferno è vuoto...tutti i diavoli stanno qui (a) sospirò battendosi una mano al petto e levando gli occhi al cielo mentre poi, a testa china, si avviava verso l’auto.

(a)da La Tempesta di William Shakespeare
 
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Tinette
view post Posted on 31/5/2010, 20:29     +1   -1




Non ci posso credere Nannetta, hai postato la tua meravigliosa fanfic!
Che gioia! Sono contenta che l'ispirazione ti sia tornata e abbia deciso di continuare questa storia così ammaliante. :bravo:
Bellissima l'ultima parte inedita, così come la cornice che hai immaginato (il racconta della nonnina alla pronipote).
Sei una narratrice sopraffina e una maestra di stile: elegante e molto vario, mai banale. Leggerti è sempre un piacere, sia nelle tue traduzioni da Alys che nelle tue creazioni originali. :wub:
Grazie per questa piacevolissima sorpresa, cara amica. :tella:
PS: se posso permettermi di dire la mia, io al posto tuo non cambierei il titolo "Il tormento e l'estasi" perché, per come si sta evolvendo la storia, è un titolo più che pertinente...è azzeccatissimo! Ma se non ti convince, sei tu l'autrice...se deciderai di cambiarlo me ne farò una ragione! :P
 
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view post Posted on 31/5/2010, 21:22     +1   -1
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Grazie nannetta, ho appena letto i capitoli per me inediti.......è sempre un piacere leggere la tua prosa :lol:

Sto morendo dalla curiosità di sapere quando e come due fari blu si incontreranno con due fari verdi....... :wub:
 
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Pupavoice
view post Posted on 31/5/2010, 21:28     +1   -1




Bravissima Dany image quanto è bella questa storia?
fantastico il nuovo inizio ^_^ ;)

Grazie per averci riempito di capitoli :lol: per un attimo stasera mi sono detta "non ce la farò" anzi, confesso che quando ho riconosciuto alcuni pezzi ho fatto che proseguire spedita per poi soffermarmi sull'inedito ;)

insomma ho rispolverato perchè ahimè la mia memoria fa scherzetti e può confondersi ^_^

c'è tanto tormento in questo racconto e brevi scorci di estasi: ma questi ultimi sono talmente potenti che varrà la pena soffrire un pò perchè sapremo apprezzare meglio il dono finale :wub:

 
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Perlad'argento
view post Posted on 2/6/2010, 14:52     +1   -1




ho letto tutto di un fiato che meraviglia questa storia così agrodolce ma piena di possibilità
 
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nannetta70
view post Posted on 2/6/2010, 17:39     +1   -1




Grazie Perladargento, il tuo nick è dolcissimo come Te. Se ti va puoi presentarti nell'apposita sezione Benvenuti, la Famiglia di Candy voluta dal Capitano Esthertr sarà felicissima di accoglierti a braccia aperte. :wub:
 
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view post Posted on 2/6/2010, 18:01     +1   -1
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mi stai facendo morire....quand'è che susanna se ne va al diavolo?
 
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nannetta70
view post Posted on 2/6/2010, 18:10     +1   -1




Ciao Lag, esistono tanti posticini carini per la nostra Susy, l'inferno è troppo scontato :lol:

Comunque, ancora non lo so :gongolo:
 
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view post Posted on 2/6/2010, 20:38     +1   -1
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io invece ho una mia idea che presto esternerò...
 
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nannetta70
view post Posted on 2/6/2010, 21:02     +1   +1   -1




Oh ma è meraviglioso Lag, allora potrai scrivere una tua personale FF ;) ne saremo tutti felici :P
 
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231 replies since 31/5/2010, 14:58   19564 views
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