Vado avanti. Qualche ritocchino qua e là rispetto a quello originario, ma la sostanza è invariata.
Capitolo 2
New York, 28 gennaio 1919
Il 1918 era stato un anno menomabile per gli Stati Uniti. La fine della grande guerra mondiale, decretata l’11 novembre del 1918 con l’armistizio fra gli alleati e la Germania, aveva sancito l’ingresso degli Stati Uniti nell’economia mondiale quale maggiore potenza industriale. Grazie al calo produttivo in Europa, di lì a poco i commerci statunitensi avrebbero prosperato in tutti i mercati mondiali e le esportazioni di prodotti agricoli e industriali sarebbero aumentate notevolmente. Dal punto di vista sociale, la guerra aveva apportato numerosi mutamenti, che videro il decisivo contributo femminile alla vita del paese: dalla produzione industriale all’assistenza sanitaria, dall’insegnamento all’impiego nella pubblica amministrazione e nella guida di ditte agricole e artigianali.
Tutta l’Europa, al contrario, era uscita dalla grande guerra in condizioni di grande instabilità politica ed economica. Le gravi perdite di vite umane e di beni materiali avevano sconvolto non solo le potenze vinte ma anche quelle vincitrici. Anche l’Inghilterra si era trovata in una situazione di grande debolezza economica e pesantemente indebitata con gli Stati Uniti. Le difficoltà economiche erano accentuate dal fatto che le industrie erano state trasformate in impianti in grado di produrre solo materiale bellico. Questa situazione portò all’aumento delle tensioni sociali: scioperi ed agitazioni si verificarono non solo in Inghilterra ma in tutta Europa. Aumentarono i partiti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali che provocarono veri e propri tentativi di rivoluzione contro i governi. Soprattutto perché durante la guerra la grande borghesia aveva accumulato grandi ricchezze, a cui finirono per contrapporsi le grandi masse popolari deluse dalle mancate riforme disattese dalle forze politiche in cui la prima si era insinuata .
Tale devastati effetti irruppero nella scena mondiale nell’immediato dopo guerra, a cui si aggiunsero gli effetti delle malattie epidemiche, conseguenza delle privazioni alimentari ed igieniche, imposte dal conflitto tanto ai combattenti, quanto alla popolazione civile. Tra il 1918 e il 1920, infatti, si era diffusa anche oltre i confini europei l’epidemia di “spagnola” (a).
Mentre la grande guerra imperversava sul fronte Europeo, la popolazione americana, sebbene gli Stati Uniti fossero entrati in guerra nel 1917, aveva continuato la propria vita di sempre aliena al dramma vissuto oltreoceano. Alle devastazioni inflitte ai civili in Europa dai carri armati e dagli aeroplani e ai militari dagli scontri corpo a corpo lungo le trincee edificate al fronte occidentale, si era contrapposta negli States una finta spensieratezza, come se l’oceano avesse attutito l’eco del dolore riportato dalle cronache dei quotidiani.
Stravaccato sulla sua poltrona di cuoio preferita, le gambe distese sulla scrivania di legno di mogano invecchiato, un sottile sigaro tra le labbra, piccola indulgenza verso se stesso, che amava concedersi nei momenti di massima concentrazione da quando aveva smesso di fumare,Terence G. Grandchester, leggeva assorto le ultime notizie sulla fine della guerra riportate sul Times. Ogni americano aveva continuato a condurre la vita di sempre e Terence, come gli altri, la propria. La sua fama di brillante attore shakespeariano aveva raggiunto l’acme proprio in quegli anni di tribolazione mondiale e lo aveva oramai consacrato a divo di Broadway a tutti gli effetti. Proporzionalmente ai successi professionali, era cresciuto anche il suo conto in banca, benché il suo tenore di vita non fosse contrassegnato dagli agi che di fatto avrebbe potuto permettersi. Certo, la casa che aveva acquistato in Central Park e l’auto Chevrolet decappottabile nera con la quale soleva circolare per le strade di New York, non erano un lusso che la media borghesia avrebbe potuto concedersi. Tuttavia, conforme al suo animo schivo e nemico dell’ostentazione, Terence non aveva mai fatto sfoggio della sua posizione nell’alta società di allora. La quale invano faceva di tutto per contenderselo nelle occasioni mondane, tollerando le volte in cui lui, senza troppi convenevoli ma pur sempre con l’innata eleganza affinata anche dalla raggiunta maturità, declinava gli inviti, per finire le sue serate alla “Buca degli Artisti”, luogo d’incontro dei giovani bohemién di New York.
Era cresciuto Terence, gli ultimi anni trascorsi, forse, quelli più difficili anche della sua dolorosa infanzia. Un’adolescenza avara di spensieratezza aveva fatto da corollario ad un’infanzia decisamente caratterizzata dall’assenza di calore familiare. Un padre prima invadente, poi assente, una madre insicura e fragile avevano accelerato il processo di maturazione di un adolescente vissuto senza punti di riferimento stabili.
Ciò nonostante, l’indole geneticamente sana aveva avuto la meglio sul ragazzino destinato a perdersi, trasformandolo in un uomo che, alla soglia dei 22 anni, sapeva il fatto suo.
Indubbiamente non era stato facile uscire dal baratro in cui era caduto quando aveva rotto con lei. Di fatto, alle volte, non era neppure sicuro di esserne uscito completamente, ma senz’altro, era riuscito a dominare l’angoscia che lo aveva assalito per mesi e mesi, dopo aver preso coscienza di dover vivere una vita senza Candy. Il vuoto che aveva sentito quando si era dovuto allontanare da Londra, mitigato dalla speranza di rivederla ancora, diventato una voragine nel momento in cui le loro strade si erano divise per sempre, non era minimamente paragonabile a quello che aveva provato quando sua madre lo aveva cacciato. Semplicemente erano due cose del tutto differenti. Perché il cordone ombelicale con Eleonor era rimasto intatto, nonostante l’umiliazione subita quella notte a casa dell’attrice, come solo può essere il legame che lega un figlio alla propria madre, una sorta di richiamo del sangue, pronto ad avere la meglio su ogni sorta di risentimento e di orgoglio. Ma il legame con Candy era molto più stabile del legame che lo univa alla madre ma paradossalmente più burrascoso, un filo sottilissimo di inossidabile acciaio sbatacchiato dai marosi della vita, che tuttavia faceva vibrare le corde della sua anima, che gli accapponava la pelle e lo faceva sentire ancora più vulnerabile di quanto già non lo fosse. Eleonor lo aveva partorito nelle carni. Candy nell’amore. Un filo, nondimeno, minato da rimorso, rimpianto, senso di colpa, sentimenti tutti che avevano devastato la sua anima travagliata, portandolo più di una volta a risoluzioni malsane.
Dopo quella maledetta notte a New York, infatti,Terence aveva vagato senza meta per lunghi mesi, assalito dalla tentazione costante di farla finita, tentazione frenata solo dalla disperazione di sapere che lei, in una eventualità del genere, sarebbe morta di dolore. Perché si può morire di dolore, lui l’aveva sperato ogni dannatissimo e lunghissimo giorno passato a bere, e a bere e ancora a bere. L’alcol aveva annebbiato il sentimento sublime che lei aveva avuto il potere di scatenargli, ma non ne aveva avuto la meglio. Un diamante composto da mille abbaglianti sfaccettature, impregnate di tutti i colori dell’arcobaleno: attrazione, passione, affetto, stima, tenerezza, fiducia, dedizione, simpatia, complicità, ammirazione, una miscela esplosiva capace di farlo sentire in paradiso solo per il fatto di averla incontrata. Un sentimento che inizialmente neppure aveva riconosciuto, lui che di calore non ne aveva mai ricevuto, un sentimento a cui inizialmente neppure era riuscito a dare un nome, ma che con il tempo aveva trasformato il felino selvaggio che era in lui in un docile e mansueto agnellino quando si trattava di lei.
Quel sentimento che aveva dovuto cedere il posto al dovere e all’onore, oscurando le sfaccettature del diamante in un grigio opprimente, rendendo ancora più cupi i suoi giorni e gettandolo in uno sconforto senza via di ritorno. Da quando lei se ne era andata, aveva preso ad odiare tutto e tutti, riflesso di un cieco odio verso se stesso per il fatto di essersi trovato proprio lì, in quel momento, sul palcoscenico, durante le prove, sotto quel riflettore. Forse, se le avesse parlato subito di lei, se avesse avuto la forza di esternare quel fuoco che si portava dentro, anziché tenere sempre tutto per sé, forse Susanna non si sarebbe fatta tutte quelle illusioni su di lui, forse non avrebbe fantasticato come aveva fatto. Eppure lui non aveva fatto nulla per illuderla, anzi, l’aveva educatamente tenuta a distanza, ma forse parlarle sinceramente del sentimento che nutriva per Candy l’avrebbe alla fine stancata. E forse lei non lo avrebbe salvato da morte certa o, nella migliore delle ipotesi, da una vita lontano dal teatro. Ma avrebbe avuto Candy, e questo sarebbe bastato a riempire la sua vita. E con lei al suo fianco avrebbe potuto affrontare qualunque difficoltà e la sua vita sarebbe stata una tavolozza di colori, riflesso di quel diamante che si portava nel cuore, anche senza un braccio o senza una gamba o completamente mutilato. La morte poi, sarebbe stata comunque più gradevole della vita accanto a Susanna, accanto ad una donna che era stata capace di ispirargli prima indifferenza, poi compassione mista a riconoscenza e, infine, nonostante tutti i suoi sforzi per sottrarsi ad un sentimento tanto negativo, disprezzo. Non perché avesse sacrificato la sua vita per lui, gesto altruistico che la sua nobiltà d’animo non poteva ignorare e non apprezzare , ma per il fatto che lei avesse fatto leva sul suo senso di colpa, così privando di valore un gesto di generosità che si era rivelato tutt’altro che disinteressato, pretendendo in cambio un sentimento che lei non avrebbe mai potuto avere come se fosse un oggetto, calpestando la propria dignità in nome di un amore che non sarebbe mai stato corrisposto. Lui che dignità ne aveva da vendere, che odiava le persone prive di amor proprio e che invece aveva finito per odiare anche se stesso, che la dignità l’aveva affogata nell’alcol, accettando di venire calpestato come uno straccio dai balordi che frequentava nelle bettole e che finivano per riempirlo di botte quando lui era totalmente incapace di intendere e volere.
Poi l’incontro con Albert, che aveva odiato con tutto le sue forze mentre ascoltava le sue parole. Che ne sapeva lui dell’amore? Si era forse mai innamorato? Cosa ne poteva sapere della devastazione interiore che aveva fatto scempio del suo cuore? Aveva mai amato Candy come l’amava lui? Sapeva cosa si provava nel vedersi privare dell’unica ragione di vita? Conosceva il deserto che era diventato il suo cuore da quando lui l’aveva lasciata andare? L’aveva detestato come si detesta un benpensante alieno alla sofferenza, che suggerisce l’antidoto ad una malattia che non conosce.
Tuttavia, quella visione da lontano lo aveva scosso dal torpore. Lei, più bella di quanto lui avesse mai potuto immaginare, sembrava così tranquilla, così serena che, per un attimo, inizialmente, si sentì tradito. Si, lei l’aveva tradito, quel viso dal sorriso aperto senza l’ombra del rimpianto, era proprio di chi non sarebbe mai morto di dolore per un amore finito. Lei non aveva perso il rispetto di se stessa, aveva continuato la sua vita con la stessa tenacia, la stessa forza di volontà che lui aveva sempre ammirato in lei e che, per un istante, in quel momento, aveva invece detestato. Perché lei non si era consumata dal dolore come lui? Perché il suo viso era privo di occhiaie figlie di notti insonni, e le sue gote era sempre rosee e piene, mentre lui sembrava un fantasma? Ma poi, il sentimento così forte che ancora provava divorò ogni dubbio. Semplicemente, lei aveva mantenuto la promessa, come gli aveva detto Albert, aveva tentato di essere felice e forse era riuscita nel suo intento. Dopo tutto era stato lui a chiederglielo e a prometterle altrettanto. Era lui, allora, che l’aveva tradita, perché lui la sua promessa non era riuscito a mantenerla. Affrontare la vita con gioia lontano da lei non era così facile per il suo cuore spezzato, né sarebbe stato semplice fingere una serenità accanto ad una donna che al massimo poteva meritare la sua gratitudine. Ma glielo aveva promesso. Non poteva venir meno ad una promessa fatta alla sua Candy. Sarebbe tornato al teatro. Sarebbe tornato da Susanna.
E così, la vita gli si era incollata addosso, suo malgrado. E l’aveva costretto a dirle addio per sempre. Allora era convinto che fosse l’unica cosa giusta da fare. In realtà avrebbe voluto tornare a Londra, come aveva detto ad Albert, ma nel 1916 la guerra in Europa era in pieno svolgimento e non era prudente mettersi in viaggio proprio in quei giorni, meno che mai con un’invalida al seguito. Londra era sempre stata la patria del teatro shakespeariano, in cui si respirava il clima ideale per qualunque attore di teatro che avesse voluto crescere professionalmente. Ma Londra era molto di più per lui, che portava sangue britannico fra le vene. Quel sangue che in un certo periodo della sua vita avrebbe voluto cavarsi dalle vene, generato da un nome che non avrebbe più voluto portare. Ma Londra era anche il luogo in cui i suoi genitori si erano conosciuti e dove lui era stato concepito. Almeno di questo doveva essere loro grato. Perché non avrebbe mai voluto non nascere. Non dopo averla incontrata, aver ascoltato la sua voce, contemplato i suoi occhi, sfiorato i suoi capelli, condiviso con lei quell’indimenticabile stagione alla Sant Paul School. Non dopo aver conosciuto l’Amore grazie a lei.
A Londra lui conservava i ricordi più belli sua vita, quelli che avrebbero alleviato una esistenza di sopravvivenza affettiva. Ed era a Londra che voleva tornare, per porre più distanza fisica possibile tra loro, un mare di acqua, blu come i suoi occhi, a separarli per sempre, come se la determinazione di entrambi non bastasse a scongiurare il pericolo, sempre incombente sulla sua fragilità, di prendere il primo treno per Chicago e andare da lei, prenderla fra le braccia, baciarla fino allo sfinimento, fare l’amore con lei ovunque si trovassero ed in barba alle convenzioni, per poi pentirsi amaramente di averla disonorata. A Londra non avrebbe più saputo nulla di lei, soprattutto non avrebbe saputo che forse un giorno si sarebbe sposata e che avrebbe avuto dei figli da un uomo che non era lui. No, immaginarla consenziente tra le braccia di un altro lo avrebbe davvero fatto impazzire di dolore, avrebbe mandato in frantumi quel fragile equilibrio che le aveva promesso di costruire. A Londra sarebbe riuscito a custodire gelosamente quei ricordi di adolescente innamorato, come si fa con una perla dentro la sua conchiglia. Di quei ricordi si sarebbe saziato ogni giorno per non morire di fame e sete di lei, tentando di rimuovere la lacerazione interiore dettata dalla rottura della loro relazione. New York, al contrario, gli avrebbe ricordato ogni giorno quei momenti sulle scale, il calore della sua schiena contro il suo petto, il suo candido collo fra le labbra, il profumo dei suoi capelli, la loro voce rotta dal pianto, la fine di un sogno. Non avrebbe mai potuto dimenticare quei brevi istanti di felicità per averla finalmente fra le sue braccia, e di dolore per il fatto di doversene così traumaticamente privare. Non aveva più sentito da allora il calore che lo aveva inebriato quanto l’aveva agganciata per la vita, così sottile da poterla racchiudere solo con un braccio. Quel ventre piatto, dove avrebbe voluto rifugiarsi per il resto dei suoi giorni come il focolare della casa che non aveva mai avuto, lui lo sentiva ancora sotto le sue belle dita lunghe e affusolate, mani nervose che avrebbero voluto imprigionarla per il resto della sua vita.
No, non ce l’avrebbe fatta a mantenere la promessa rimanendo negli Stati Uniti, doveva andarsene, forse oltreoceano sarebbe stato meno doloroso pensare a lei.
Aveva dovuto rimandare la partenza di diversi anni, appunto. Era comunque tornato alla compagnia Stradtford e si era immerso completamente nel teatro. Almeno questo non era stato difficile, recitare per lui era la cosa più naturale del mondo. Se Candy aveva sublimato il dolore nel lavoro di infermiera, lui aveva fatto altrettanto con il teatro. Il connubio fra il raro talento e l’innata sensibilità, allenata da una sofferenza sorella del dolore che lo accompagnava giorno e notte, lo trasformarono in un attore poliedrico, capace di saltellare dal melodramma alla commedia con una facilità che scatenò l’invidia dei colleghi e l’ammirazione dei drammaturghi sulla piazza, sia commediografi che tragediografi.
La sua vita ora era solo il teatro e per il teatro, e, nonostante avesse preso il suo impegno con Susanna, a lei dedicava pochissimo del suo tempo, solo qualche ora quando la compassione prevaleva sull’indifferenza. Di lei quasi si dimenticava che esistesse, nonostante si fosse rimproverato in più di un’occasione di essere troppo poco presente. Alle volte trascorrevano diversi giorni prima che si facesse vivo, completamente assorbito dallo studio di qualche nuovo ruolo. Poi si ricordava, e ne aveva pena. E allora la andava a trovare. Parlavano dei successi di lui, di questa o quella intervista, di questo o quel giornalista, poche ora che a lui sembravano interminabili giorni, fino a che la sua indole taciturna prendeva il sopravvento, e neppure riusciva più a rispondere, nemmeno a monosillabi. Allora lei lo congedava fingendo stanchezza, per non subire l’umiliazione di vederlo portarsi alla bocca una mano per coprire uno sbadiglio. Qualche volta la accompagnava ai ricevimenti mondani che tanto lei amava e che lui altrettanto detestava e la scena si ripeteva. Terence che sbadigliava in qualche angolo della sala, che a malapena rispondeva infastidito alle domande dei suoi impertinenti ammiratori con il solito bicchiere di whisky in mano, Susanna che lo scrutava da lontano con il cuore in gola, in preda alla gelosia e allo sconforto di vederlo così scostante e lontano da tutti, soprattutto da lei.
Eppure ce l’aveva messa tutta per mantenere la promessa fatta a Candy. Era diventato il suo obiettivo primario essere degno della donna che amava. In modo forse poco convenzionale per una coppia, lui stava al fianco di Susanna. Aveva comprato quella casa in Centra Park dove erano andati a vivere insieme appena sposati, le aveva dato il suo nome, l’aveva accudita in tutte le sue necessità ma le loro strade non si erano mai incontrate. Avevano viaggiato parallele come i binari di un treno, ma non si erano mai incrociate, intrecciate, aggrovigliate, unite per dar vita a qualcosa di indissolubile ed eterno, come il sentimento che si portava dentro per Candy e che, nonostante tutti i suoi sforzi per conquistare un’apparente serenità, avrebbe condizionato le sue azioni per sempre.
Un leggero tocco sulla porta lo destò dalla lettura assorta, ma lui non rispose. Detestava essere disturbato quando si rinchiudeva nel suo studio.
-Posso entrare Terence? - domandò la vocina di Susanna dietro la porta. Terence si levò di bocca il sigaro per scuotere un po’ di cenere sul posacenere, lo sguardo più cupo del mare in burrasca.
-Che c’è Susanna? - il tono di lui aspro. Ma poi si pentì subito dell’avversione che provava solo a sentire il tono di voce di lei e aggiunse - entra dai, non c’è bisogno di chiedere sempre il permesso.
-Scusa, è che non volevo disturbarti, pensavo che stessi studiando, non sei sceso a fare colazione. - rispose lei, appoggiata sullo stipite della porta con le stampelle fra le mani. L’immagine di quella fragile fanciulla avrebbe fatto tenerezza a chiunque, ma a lui quasi non faceva più effetto. Alla iniziale compassione era subentrato lentamente un senso di fastidio con il quale non riusciva più a combattere, nonostante tutti i suoi sforzi.
-Ti ho detto tante volte che non devi preoccuparti per me, Susanna, farò colazione quando ne avrò voglia. E non guardarmi con quell’espressione negli occhi, per favore. Sto bene e starò meglio quando mi avrai lasciato solo! Era troppo tardi. Ancora una volta l’aveva umiliata. Ma come faceva lei a sopportarlo! Lui si detestava quando non riusciva a reprime la repulsione che provava da un po’ di tempo per lei. Come faceva a non mandarlo al diavolo!
La ragazza abbassò il capo, gli occhi un lago bagnato di lacrime e fece per girarsi lentamente per uscire, ma la voce di Terence la richiamò.
-Scusami Susanna, non volevo essere scortese, è che…sai che quando sto qui non voglio essere disturbato. Sei venuta a dirmi qualcosa di particolare? Nel frattempo si era alzato dalla poltrona e le era andato incontro con falcate decise.
Susanna lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Per lei era sempre la prima volta quando incontrava i suoi occhi. E ogni volta si stupiva davanti a tanta bellezza, come la prima volta che lo aveva visto bussare alla porta della compagnia Stradtford. A 22 anni Terence aveva raggiunto il culmine non solo della fama e del benessere, ma anche della prestanza fisica. I capelli erano meno lunghi rispetto a quando era adolescente, ma arrivavano comunque a coprirgli il collo e la fronte, con quelle ciocche scompigliate che lui spesso si portava indietro con un gesto nervoso. Di un bel castano scuro, lucidi come seta, erano l’emblema della sua ribellione alle convenzioni, che voleva gli uomini dell’alta società con il capello impomatato e tirato all’indietro in modo che la fronte fosse sempre libera. Gli occhi grandi, dal taglio felino, con ciglia folte e nere, di un blu zaffiro grezzo, incastonati in un’arcata sopraccigliare folta, il naso diritto, la mascella scolpita, la bocca sensuale, e quelle fossette sulle guance (b), pronte a fare capolino tutte le volte che articolava parola o sorrideva, Terence era un vero capolavoro della natura. Ad accompagnare un viso che pareva disegnato, il suo fisico non era da meno. Alto, spalle larghe e forti, torace fermo, braccia muscolose e ben proporzionate, fianchi stretti e gambe lunghe, Terence era diventato un uomo che avrebbe fatto impazzire anche le pietre. Ma lui non sembrava rendersene conto, con quell’aria impertinente, annoiata e malinconica insieme, con quello sguardo a volte sprezzante, a volte spavaldo, a volte triste, a volte freddo e cinico, con cui prendeva le distanze dal suo prossimo. Uno sguardo dal magnetismo penetrante, capace di calamitare su di sé l’attenzione di tutto il genere femminile, indipendentemente dall’età.
Anche Susanna era bella, di una bellezza eterea, con quei capelli lunghissimi e biondi, gli occhi celesti e la pelle di porcellana, ma lui la guardò come se fosse un moscerino, con aria interrogativa.
-No, è che, oggi…io…volevo farti gli auguri. Lei trovò il coraggio di guardarlo diritto negli occhi, nella speranza questa volta di vedere una reazione positiva. - Voglio dire, poiché la guerra è finita da poco, oggi potrebbe essere l’occasione giusta per festeggiare anche il tuo…
-Susanna- la interruppe lui visibilmente contrariato - da quanto tempo siamo sposati io e te? Lei abbassò la testa e non rispose - dovresti sapere a memoria che detesto i compleanni, gli onomastici, i cerimoniali e tutte le feste comandate. Mi sbaglio o ne avevamo già parlato? Continuò lui con un tono ancora più esasperato.
Lei chiuse gli occhi. Si sentiva morire quando lui non riusciva a nascondere il suo disappunto. Quegli occhi profondi la mettevano in soggezione, soprattutto quando esprimevano in modo così palese tutto il suo disprezzo.
L’aveva sposata, alla fine aveva adempiuto alla sua promessa. Candy poteva essere orgogliosa di lui. Una cerimonia breve, frettolosa ed incolore davanti al sindaco di New York, aveva suggellato su un pezzo di carta il suo impegno a prendersi cura di Susanna. Lei avrebbe voluto una cerimonia più sfarzosa, in una chiesa adornata di fiori bianchi come il suo vestito, un ricevimento degno della classe sociale a cui lui per nascita apparteneva. Ma Terence si era opposto con tutte le sue forze. Quel momento, prima si fosse consumato e meglio sarebbe stato per lui. Fingere faceva parte del suo lavoro, ma quando si trattava dei propri sentimenti non era tanto bravo. Fingere la felicità poi, per lui era del tutto inattuabile, tanto più che la felicità lui l’aveva solo appena assaggiata qualche anno prima alla St. Paul School, ma non divorata avidamente come avrebbe voluto. Così, quella mattina di marzo del 1917, Susanna era diventata la sig.ra Granchester, destinata a diventare duchessa quando Terence avrebbe ereditato, nonostante il rifiuto manifestato più volte al padre nei loro contatti epistolari, il titolo che spettava ai primogeniti.
Questo era il massimo che, dalla promessa fatta, lui poteva estorcere a se stesso. Perché più passava il tempo, dalla volta che si erano scambiati quel giuramento sulle scale a New York, e più lui si rendeva conto che quella era stata solo una frase di circostanza. Come si poteva parlare di felicità accanto ad una donna per la quale non riusciva a provare altro che indifferenza mista a fastidio? Il solo pensiero di condividere il letto con lei gli dava il voltastomaco. E non certo per il suo handicap fisico. Terence non era il tipo che badava alle apparenze. Ma in lui, negli anni, si era fatta strada l’idea che forse c’era qualcosa di stonato in tutta quella vicenda. Susanna gli aveva salvato la vita, questo era vero, ma Candy l’aveva salvata a Susanna. Susanna non avrebbe voluto essere salvata per vivere una vita lontana da lui, e lui ugualmente non avrebbe voluto essere salvato da Susanna per poi vivere una vita di condanna all’infelicità eterna. E il cerchio era chiuso.
Più volte, appena sposati, lei, fattasi più coraggiosa, aveva tentato di insinuarsi nel suo letto, dopo aver subito con finta rassegnazione la decisione di lui di dormire in camere separate. Era un’acqua cheta Susanna. Completamente nuda, era scivolata fra le lenzuola, si era accucciata contro il suo petto mentre lui dormiva e aveva iniziato ad accarezzarlo, fino a che lui non si era svegliato di soprassalto. Accendendo la luce del candelabro, lui l’aveva guardata come se lei fosse un marziano, si era alzato dal letto e infilandosi la vestaglia, l’aveva coperta con una telo per riportarla nella sua stanza. Nel tragitto tra le due camere, lei tra le sue braccia aveva tentato di baciarlo con trasporto, prendendogli il viso tra lei mani, ma aveva incontrato solo due labbra serrate e due occhi freddi come il ghiaccio. Una volta depositata sul suo letto, lui non aveva detto nulla. L’aveva solo guardata come se fosse trasparente augurandole la buonanotte. Quante volte Susanna, ferita e umiliata dal suo rifiuto, lo aveva accusato di scarsa virilità! Lui, tutte le volte la guardava con uno sguardo misto di commiserazione, disprezzo, disgusto per poi scoppiarle a ridere in faccia in una fragorosa risata che la devastava ancora di più e pentirsi più tardi di averla umiliata, sentendosi ancora una volta un perdente.
Le scenate di gelosia si erano ripetute poi, con una certa frequenza, soprattutto quando lui rientrava a casa a notte inoltrata, dopo aver trascorso la serata alla Buca degli Artisti. A volte sobrio, a volte un po’ meno, ma sempre perfettamente lucido, dopo aver giurato a se stesso che non avrebbe mai più calpestato la propria dignità come in passato, ora che conosceva molto bene il limite oltre il quale non doveva spingersi e sapeva tenere a bada il demone sopito in un angolo del suo subconscio. Susanna, invece, avrebbe voluto che lui quel limite lo superasse abbondantemente, per poi approfittare della sua scarsa lucidità facendo ricorso alle sue doti di maliarda. Rimaneva perennemente delusa, ogni qualvolta lo inseguiva fino alla sua camera, assillandolo con mille domande sulle sue presunte amanti, fra pianti isterici e patetici rimproveri sui doveri coniugali di lui.
Dopo un susseguirsi di porte in faccia, alla fine Susanna si era arresa all’evidenza. Non solo lui non l’avrebbe mai amata, ma più il tempo passava e più era evidente che gli risultava sempre più difficile tollerare anche la sua presenza fisica. In realtà, qualcosa era cambiato in lui da quando era ritornato da lei, dopo mesi di lontananza. Come se avesse preso coscienza di qualcosa che lo logorava lentamente. Se immediatamente dopo l’incidente Susanna aveva scorto in lui qualche atteggiamento di premura, dettato dal senso di colpa che lo attanagliava, ora nei suoi occhi poteva leggere chiaramente solo rifiuto e intolleranza.
Lei inizialmente non avrebbe mai creduto di fallire nell’intento di conquistarlo, né avrebbe mai pensato che la sua vita si sarebbe trasformata nell’inferno che era diventata. Tuttavia, anche se lui non la voleva nel suo letto, lei rimaneva pur sempre sua moglie e sarebbe arrivata a tollerare perfino che lui la tradisse ogni notte, pur di averlo al suo fianco. Purché lui non fosse di Candy.
Così, pian piano, aveva imparato a stargli alla larga, assecondandolo, evitando di fare tutto ciò che lo urtasse, alle volte scomparendo dalla sua vista quando quello sguardo zaffiro era più cupo del solito, accontentandosi solo di poter spendere nelle occasioni mondane il nome dei Grandchester e di comparire, di conseguenza, nelle copertine dei rotocalchi al suo fianco.
-Si, hai ragione, ti chiedo scusa - disse lei, sollevando lo sguardo per guardarlo - Ne avevamo già parlato. Tolgo il disturbo - e così dicendo, con movimenti lenti e leggermente impediti, si voltò per uscire.
-Susanna, ho bisogno di parlarti, ma non adesso, ci vediamo questa sera. Ora ho alcune incombenze da sbrigare. Non aspettarmi per pranzo - le disse lui mentre lei usciva dandogli già le spalle.
-Va bene - gli rispose Susanna senza voltarsi, improvvisamente allarmata all’idea che lui le volesse parlare. Che cosa aveva da dirle? Erano mesi che quasi non parlavano.
La guerra era finita e l’Europa era allo sfascio completo. Per l’Inghilterra, come per altri paesi industrializzati, il periodo successivo alla grande guerra aveva segnato un’epoca caratterizzata dal declino economico, in cui il paese aveva perso progressivamente il proprio vantaggio competitivo e l’apporto dell'industria pesante andava via via diminuendo. Anche Londra aveva subito le devastazioni inflitte dalla guerra e il morale non era proprio alle stelle. Di sicuro, ogni europeo avrebbe voluto attraversare l’oceano alla ricerca di fortuna e prosperità in un paese che sicuramente, dopo la guerra, aveva molto più da offrire. Sarebbe stato da pazzi voler affrontare il viaggio inverso per esporsi alle incognite di un paese che a fatica tentava di riprendersi dal trauma bellico. Ma era proprio quello che Terence intendeva fare. L’idea di trasferirsi a Londra non lo aveva mai abbandonato in tutti quegli anni, anzi era diventata un imperativo. Il desiderio di partire si era fatto sempre più prepotente man mano che il tempo passava e il dubbio di avere preso quella decisione in balia delle emozioni scatenate da eventi indipendenti dalla loro volontà si era insinuato nella sua mente come un tarlo.
L’acquisita maturità gli aveva prospettato quelle infauste circostanze di quattro anni prima sotto una luce differente. La convivenza forzata con Susanna lo aveva costretto a riesaminare con più lucidità gli eventi passati. Era sempre più convinto che Candy, salvando la vita a Susanna avesse saldato il debito di lui. E allora era lui che doveva considerarsi debitore di Candy, non solo perché lei era comparsa nella sua buia vita illuminandola con i suoi sorrisi, ma anche perché, ubbidendo all’innato istinto di immolarsi per gli altri e rinunciando al proprio uomo, Candy aveva donato a Susanna la vita due volte, come persona e come donna. Candy era in credito con tutti e due. Perché non ci aveva pensato prima? Erano due ragazzini allora, troppo sprovveduti di fronte alla crudeltà della vita per poter ponderare con serenità le conseguenze delle loro azioni. Si era sentito perso allora, in balia di un senso del dovere che, data la giovane età e il travaglio interiore che lo torturava, lo aveva schiacciato completamente. Il susseguirsi concitato degli avvenimenti gli aveva impedito di mettere insieme i tasselli del rompicapo e ora era troppo tardi. Troppo tardi, perché lui aveva finito per sposare Susanna, ma soprattutto troppo tardi per piombare di nuovo nella vita di tuttelentiggini e sconvolgerla un’altra volta dopo la riacquistata serenità. Era passato troppo tempo. Terence aveva letto la lettera che Candy aveva spedito a Susanna. Vigliaccamente, Susanna aveva fatto in modo che lui la trovasse sullo scrittoio della corrispondenza, una sera in cui era andato a trovarla. Susanna aveva provato un sadico piacere nel vedere i lineamenti del bel viso di Terence contorcersi dal dolore mentre con labbra tremanti leggeva sotto voce le parole di Candy. Se in quel momento l’avessero pugnalato avrebbe provato meno dolore. La certezza che lei lo avesse dimenticato gli era piombata addosso come un macigno, schiacciandolo inesorabilmente.
E se mai lui avesse voluto tornare alla carica con Candy, lei lo avrebbe ancora voluto nella sua vita?Avrebbe voluto nella sua vita un uomo divorziato? Che diritto aveva lui di irrompere nella sua vita prepotentemente, così come anni addietro ne era uscito? Non l’avrebbe gettata in pasto allo scandalo, lei che già aveva dovuto subire tante umiliazioni per il fatto di essere un’orfana? Terence le doveva tutto, l’amava troppo, l’amava ancora, dopo tanti anni, il fuoco non si era spento. Ma non poteva più tornare indietro.
Varcare l’oceano era l’unica alternativa che gli era rimasta. Andare il più lontano possibile. Accettare l’offerta che gli aveva fatto il Repertory Moviment Act (c), con sede a Londra, era l’occasione che stava aspettando. Da tempo sentiva un irrefrenabile bisogno di cambiamento, recitare i classici non appagava più la sua anima inquieta e sempre bramosa di nuove sfide con cui confrontarsi, un desiderio di rinnovamento e di nuovi stimoli lo tormentava da quando il teatro era diventato la sua ragione di vita. La compagnia stabile di teatro di repertorio nazionale, in grado di offrire a rotazione un repertorio ricco di un'ampia varietà di spettacoli di alto livello, che promuovesse la nuova drammaturgia al pari di quella classica, il teatro inglese come quello straniero e le forme di teatro popolare così come quelle di intrattenimento meno praticate, rappresentava l’opportunità di crescita a cui lui aspirava.
Ora che la guerra era finita, non restava da fare altro che comunicarlo a Susanna. La compagnia Stradtford ne era già al corrente e nulla avrebbe potuto contro la sua ostinazione a voler partire. Susanna lo avrebbe accompagnato se avesse voluto. Altrimenti era disposto anche a partire da solo.
La giornata era trascorsa celermente. Un salto da Robert, uno alla biglietteria, uno alla Buca degli Artisti, e di nuovo a casa, a preparare le valigie.
Appena varcata la soglia, fu colpito dal silenzio e dal buio in cui era immersa la casa. Strano, perché Susanna aveva paura del buio e lasciava tutti i candelabri accesi durante la notte. Inoltre era solita ascoltare musica classica a tutto volume fino a tardi, quasi a voler colmare il vuoto di quella grande casa con le note dei melodrammi italiani.
Con uno strano presentimento nel cuore, avanzò di qualche passo nella penombra dell’anticamera del salone d’ingresso e accese uno dei candelabri affissi ad una delle pareti. Si tolse il soprabito nero, i guanti, la giacca dell’abito grigio scuro e li appoggiò un attimo su una delle poltrone, per poi andare ad accendere le altre luci. La lunga giornata passata a completare i preparativi della partenza lo aveva fiaccato e non vedeva l’ora di andare a letto.
Improvvisamente, tutte le luci si accesero insieme accecandolo e istintivamente lui si portò una mano a coprire gli occhi.
-Happy Birthday to you, happy birthday to you, happy birthday mister Terence, happy birthday to you! Un’esplosione di voci scoppiò chiassosamente nella sala e prima che lui potesse fare qualcosa per realizzare quanto stava accadendo, le braccia di Susanna gli cingevano il collo, mentre il corpo di lei gli si abbandonava contro, lasciando cadere a terra le stampelle.
Per una frazione di secondo lui pensò di essere nel bel mezzo di un incubo. Quando abbassò le mani, si trovò faccia a faccia con Susanna, la bocca di lei appena un centimetro distante dalla sua, in mezzo al salone circondati da una moltitudine di conoscenti e perfetti sconosciuti che li guardavano compiaciuti e battevano le mani.
-Che cosa è questa pagliacciata Susanna? - il tono della voce era basso, grave, un sussurro a denti stretti, lo sguardo gelido, impassibile, le sopraciglia arcuate in una espressione sprezzante. Con fermezza e cautela, la staccò da sé, raccolse le stampelle mentre la reggeva con un braccio e la rimetteva in piedi.
Un silenzio imbarazzate cadde nella sala, mentre decine e decine di occhi li fissavano con il fiato sospeso, in attesa di vedere la reazione dello sposo alla sorpresa della moglie.
-Buon compleanno amore mio. Anche se a te non importa festeggiarlo, importa a me e non voglio privarmi del piacere di trascorrere questa giornata che per me è speciale come merita, insieme ai nostri amici - rispose lei guardandolo negli occhi con aria di sfida. Non c’era traccia di tenerezza in quel momento negli occhi celesti di Susanna.
-Nostri amici ?! - chiese lui, con falsa aria interrogativa e un lampo di ironia negli occhi blu. Ma prima che lei potesse aggiungere qualcos’altro, proseguì con tono pacato, mentre guardava ognuno dei presenti diritto negli occhi - Signori, sono felice che la mia casa sia considerata da voi un luogo di incontro in cui imbastire i vostri frivoli passatempi. La mia consorte è maestra in questo genere di intrattenimenti e sono sicuro che non avrete niente in contrario se continuerete a trascorrere il resto della serata in mia assenza. Sono sicuro che non sentirete la mia mancanza, come io di sicuro non sentirò la vostra. Ora, vogliate scusarmi ma vado a ritirarmi nelle mie stanze, domani mi attende una giornata particolarmente impegnativa. Buonanotte Susanna - concluse, senza neppure guardarla in faccia, mentre faceva un lieve inchino ai presenti e si voltava per prendere le sue cose.
-Dove vai Terence? Dobbiamo parlare, io e te - disse Susanna con voce stridula rotta dal pianto, mentre afferrava con forza le stampelle e lo seguiva - Signori, vi prego, continuate pure, vi raggiungerò presto - disse ai presenti, voltandosi un attimo con aria mortificata.
Lui continuò a camminare con passo tranquillo e deciso, senza neppure voltarsi. Quando arrivò davanti alla porta delle sue stanze, lei lo aveva quasi raggiunto - Terence, ti supplico, perché fai così, aspetta, ti prego parliamo - ora la voce era supplichevole, ma a lui sembrava più lagnosa del solito.
- Hai ragione, è vero, dobbiamo parlare io e te, entra - le rispose sbrigativamente mentre apriva la porta. Un volta dentro, accese diversi candelabri e buttò distrattamente soprabito e giacca su una delle poltrone del salotto di fronte al camino. Mentre poi lui si serviva dell’whisky scozzese in uno dei bicchieri di cristallo poggiati sulla imponente madia di noce intarsiato, Susanna varcò la soglia della camera.
-Accomodati- le disse lui con tono neutro, facendole un cenno per sedersi, mentre rimaneva in piedi a guardarla, una mano in tasca e l’altra a reggere il bicchiere.
Lei rimase in piedi, lo sguardo ferito, un leggero tremore nelle braccia che sostenevano le stampelle e nella voce- Terence, siamo sposati da due anni, non possiamo andare avanti così, senza dialogo, senza calore, senza…
-Non è un problema mio Susanna - la interruppe subito lui, sempre con il suo snervante tono neutro - io posso andare avanti così per l’eternità.
-Terence, è un problema nostro invece, siamo marito e moglie, perché ti ostini a trattarmi come un’estranea? -scoppiò a piangere lei alla fine, accasciandosi su una delle poltrone e coprendosi il volto con le mani.
Lui rimase impassibile. Forse era giunto davvero il momento di parlare, di chiarire, una volta per tutte. Facendo uno sforzo, decise che era meglio sedersi, di fronte a lei. Dopotutto lei rimaneva comunque degna di un colloquio civile.
-Susanna, ascoltami bene - iniziò una volta seduto sulla poltrona di fronte, il busto portato in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia mentre entrambe le mani sostenevano il bicchiere.- Diversi anni fa io ho commesso un grave errore. Ma ci sono errori che si pagano per il resto della vita. Ti ho promesso che mi sarei preso cura di te e finora credo di averlo fatto. Hai un tetto sicuro, un conto in banca che, per tua fortuna, non si prosciugherà mai, nonostante i tuoi salassi, cure mediche da parte dei migliori specialisti sulla piazza, un nome rispettabile che puoi esibire come fai con i tuoi abiti firmati, insomma conduci un’esistenza da vera signora.
-Ma mi manchi tu Terence, ti rendi conto che non mi hai mai sfiorato con un dito. Ti faccio schifo perché … - piagnucolò lei, interrompendolo, e indicando le stampelle e il bacino con un gesto veloce della mano.
-Questo è un insulto alla mia intelligenza e alla tua dignità, ammesso che tu ne abbia ancora - rispose lui con una smorfia di insofferenza sul viso. - Non prendiamoci in giro Susanna, non sei una bambina a cui dover sempre addolcire la pillola. Ho promesso a me stesso che avrei fatto le cose per bene, questo si, ma a te non ho mai promesso amore eterno. Sapevi perfettamente quali fossero i miei sentimenti quattro anni fa e se hai nutrito la presunzione di cambiarli, allora non sono il solo ad aver commesso un errore. Non riuscirò mai a fare l’amore con chicchessia per obbligo morale e non sarà certo un contratto matrimoniale a riempirmi di desiderio per te! - concluse ora con tono alterato. La sua voce profonda echeggiava in tutta la stanza.
-Non è colpa tua Susanna - aggiunse poi con un tono meno duro - sono io che avrei dovuto rendermi conto dell’errore che stavo commettendo, ma, anche se non è una giustificazione, ero troppo giovane per accorgermi che fare le cose per bene non implica amare nel senso in cui io intendo l’amore. Ci sono cose che non cambiano, di fronte alle quali siamo impotenti, e anche se lo volessi, io non riuscirei proprio a provare per te niente più che…compassione - concluse. Avrebbe voluto dire disprezzo, ma gli sembrava di essere troppo crudele. In fondo Susanna era un’infelice, forse addirittura più infelice di lui.
-Non posso credere che tu stia ancora pensando a lei - disse Susanna in un sussurro. Non avevano mai più parlato di Candy in tutti quegli anni, anche se il fantasma dei ricordi vagava per quella casa come un’anima in pena.
Terence per un attimo sobbalzò e spalancò i suoi grandi occhi blu. Ma fu una frazione di secondo perché riacquistò immediatamente la sua solita compostezza. Dopo qualche secondo di silenzio proseguì - Lei non c’entra. Anche se non fosse mai esistita io non avrei mai potuto amare per debito di riconoscenza. L’amore non è una moneta di scambio che si può barattare con la gratitudine o il dovere. Se quattro anni fa ho pensato di poterti dare qualcosa di più della riconoscenza, ora sono certo di non doverti più nemmeno quella - concluse mentre si alzava dalla poltrona, incapace di fingere una comprensione verso Susanna che non provava più da molto. Forse aveva esagerato. Come al solito, lui non conosceva mezze misure e frenare gli impulsi per tutto quel tempo lo aveva esasperato. Le sarebbe stato sempre riconoscente in realtà, ma la linea di demarcazione tra la gratitudine e lo slancio d’amore era ora ben definita.
-Allora provi solo commiserazione per me? - aggiunse lei seguendolo con lo sguardo mentre lui si avvicinava alla grande finestra che si affacciava sul parco.
-Susanna, non ti amo e non ti ho mai amato, né ti ho mai desiderato, anche prima dell’incidente e questo tu lo sapevi. Così come sapevi di Candy. Non sarai mai la mia donna, la mia amante, e mi costringi ora a sbattertelo brutalmente in faccia, nonostante io sia sicuro che tu questo l’abbia già capito da molto tempo - rispose lui, mentre guardava fuori dalla finestra portandosi il bicchiere alla bocca e mandando giù tutto il contenuto in un unico sorso.
-Vuoi il divorzio vero? domandò ancora lei, con il viso rosso fuoco, gli occhi questa volta che lanciavano fuoco e fiamme, il tono di voce astioso - sappi che non te lo concederò mai! - concluse mentre con un colpo di reni si sollevava dalla poltrona, facendo leva sulle stampelle.
-Non avevo alcun dubbio - rispose lui scandendo le parole e voltandosi lentamente a guardarla, gli occhi una fessura, la pupilla sottile, come quella di un gatto pronto a graffiare per difendersi.
-Sappi anche che ti inseguirò in capo al mondo, sono tua moglie e lo sarò per sempre- gli urlò contro lei, sempre più alterata, umiliata da quel rifiuto che oramai le era ben chiaro senza più alcuna ombra di dubbio.
-Perfetto -sibilò lui tra i denti con voce tagliente - allora inizia a preparare le valigie perché domani si parte per Londra.
-Che cosa? Londra? Ma, è devastata dalla guerra, che ci andiamo a fare a Londra proprio ora?. E poi, pare che ci sia difficoltà a reperire anche i beni di prima necessità, figuriamoci il resto! A volte scarseggia anche l’acqua e poi, anche i nobili della città hanno difficoltà a condurre la vita di sempre e …
-Susanna piantala!- la interruppe Terence, questa volta spazientito, dirigendosi verso la madia per poggiare il bicchiere vuoto e avvicinandosi a lei con fare minaccioso - non sei obbligata a seguirmi se non lo vuoi. Puoi continuare a fare la signora- …esitò… -Granchester anche qui a New York, stai tranquilla.
-Per poi consentirti di spassartela in mia assenza con quelle donnine che frequentano gli squallidi ritrovi degli artisti nullafacenti...
-Ti ricordo che anche tu eri un’artista e che ne hai voluto sposare uno nullafacente cara, anche se per tua fortuna non puoi definirlo nullatenente. Comunque, fai quello che vuoi Susanna, la nave parte domattina alle otto. E adesso, avrei molto sonno e poco tempo per prepararmi - concluse, ora con tono stanco, ma sempre con quello sguardo carico di disprezzo.
Lei non rispose. Girò sulle stampelle e diresse verso la porta. Ma prima di uscire, si voltò appena e aggiunse con tono falsamente calmo - forse non è una cattiva idea prendere le distanze dalla tua ossessione. L’aria di Londra ti farà bene.
Quella notte Terence non chiuse occhio. Sdraiato sopra la trapunta del suo letto matrimoniale, con la giacca del pigiama aperta a lasciare scoperto un torace perfetto, le braccia dietro la nuca e lo sguardo perso sul soffitto, ripassava mentalmente gli episodi più significativi della sua vita. E tutti avevano Candy per protagonista. Dal quel primo giorno sul Mauritania all’ultimo a New York, arrivando alla conclusione che non l’avrebbe mai dimenticata. Quattro anni è un tempo lunghissimo. Tanto più passato accanto a Susanna. Anni che tuttavia non avevano sbiadito i momenti intensissimi trascorsi insieme a Candy. Momenti che sembravano appartenere al giorno prima. Il suono della sua voce era sempre nitido, il modo in cui lei lo chiamava, le volte in cui si arrabbiava quando lui la chiamava tuttelentiggini e quelle in cui lei si era presa cura di lui quando si era rifugiato nella sua stanza alla St Paul School. Sorrise e socchiuse gli occhi. Sempre uguale era lo sconvolgimento emotivo che il solo pensiero di lei gli procurava. Uno scombussolamento di anima e corpo. Un pugno alla bocca dello stomaco, come una mano che gli strappava le budella. Anche a distanza di tanti anni. Non avrebbe potuto dimenticarla, neanche se lo avesse voluto. Lei avrebbe occupato sempre un posto speciale nel suo cuore. Era il potere dell’amore per lei quello che lo aveva aiutato a risollevarsi, a tirare fuori il meglio di sé, a diventare il brillante attore e insieme l’uomo determinato che era diventato. I sentimenti negativi che gli avevano serrato l’anima quando si era dovuto separare da lei erano spariti completamente. L’amore per lei, eterno, immortale era prevalso alla fine sul senso di colpa. Ma non sul rammarico di non poter più tornare indietro.
continua
(a)tratto dall’articolo di Paolo Dedotto, pubblicato in
www.cronologia.leonardo.it)
(b)le fossette le ho prese in prestito da Alys, non ho resistito…
(c) Repertory Movement è un movimento teatrale inglese emerso nei primi del Novecento in reazione al teatro commerciale, all'egemonia londinese e alla priorità del profitto sulla sperimentazione.
Perdonami Tenente Greason
Capitolo 3, invariato
Il Mauritania ancorato al molo 5 del porto di New York aveva già lanciato la sirena dell’ultimo richiamo ai passeggeri ritardatari. In mezzo alla nebbia che avvolgeva la città, la macchina di Albert sgommava a tutta birra, nel tentativo disperato di arrivare in tempo, prima che la nave levasse le ancore. Al suo fianco Candy lo incitava a correre di più, mentre Flanny, seduta nel sedile posteriore, si teneva saldamente agganciando con le mani il tessuto del sedile, per non essere sballottata come un pacco postale.
Non vedeva l’ora di arrivare al porto Flanny, per sottrarsi a quello sguardo azzurro cielo che per tutto il viaggio l’aveva fissata dallo specchietto retrovisore. Non le era mai capitato di sentirsi così vulnerabile come in quel lungo viaggio da New York a Chicago, né mai un uomo l’aveva guardata così, o forse semplicemente lei non ci aveva mai fatto caso. Cosa aveva il sig. William da guardarla? Perché continuava a fissarla con quel sorriso negli occhi così dolce? Anzi, come osava metterla a disagio in quel modo? Flanny non aveva aperto bocca per tutto il viaggio mentre Candy parlava a rotta di collo e Albert le rispondeva divertito.
Candy e Albert. Si erano abbracciati a lungo prima di caricare le valigie in macchina e passare a prelevare Flanny. Lei si era accucciata nel petto di quel gigante dai capelli biondi e gli occhi dolci, forte e possente, che per lei sarebbe stato sempre un porto sicuro.
-Sapevo che prima o poi saresti cresciuta, ma non pensavo che lo avresti fatto così in fretta - le aveva detto lui, mentre le scompigliava i capelli raccolti in una coda di cavallo, ma già arruffati nonostante tutti i suoi sforzi di tenerli in ordine. - Ho sempre saputo anche che prima o poi avresti seguito la tua strada Candy, e la tua strada è lontana da casa Andrew, per tua fortuna - aggiunse lui dandole un buffetto sul naso.
-Perché dici questo Albert, la mia fortuna sei stata tu, e io ti vorrò sempre bene, tu sarai sempre la mia famiglia e molto presto ci rivedremo - le disse lei con le lacrime che iniziavano a inumidirle gli occhi verdi, guardandolo dal basso verso l’alto - Vero che ci rivedremo? - chiese lei, incerta di fronte al silenzio dell’uomo.
-Ma certo Candy. Prima o poi ci rivedremo, io ci sarò sempre per te - le rispose lui diventando improvvisamente più serio e abbracciandola di nuovo, questa volta ancora più forte, quasi soffocandola fra le sue braccia.
-Anche io ci sarò sempre per te Albert, non lo dimenticare mai - bofonchiò lei affondata tra le sue braccia, consapevole tuttavia che sarebbe passato molto tempo prima di rivederlo. Se lo avrebbe rivisto.
-Ti sto lasciando partire perché la guerra è finita, altrimenti non ti saresti mossa da Chicago - le disse lui, puntandole un dito indice sulla fronte.
-Sarei partita lo stesso, se lo avessi voluto, lo sai. Nessuno ha il potere di trattenermi - rispose lei subito pronta a scherzare, mettendosi le mani ai fianchi.
-Lo so testona - le rispose lui - non ti ferma nemmeno un carro armato. Andiamo ora se no faremo tardi.
Erano passati a prendere Flanny e avevano raggiunto la stazione. Albert le aveva accompagnate in treno fino a New York. Qui avevano passato la giornata presso la residenza degli Andrew in città. Albert ne aveva approfittato per sbrigare alcune faccende di lavoro e Flanny e Candy avevano trascorso le ultime ore per i negozi ad acquistare le ultime cose indispensabili per il viaggio.
Una volta presa la decisione di partire, Candy non era più tornata sui pensieri tristi che l’avevano assalita quando Flanny le aveva proposto di partire. Presa la decisione, era inutile tornare sopra i se e i ma. Non l’aveva fatto mai neppure in passato, neppure quando l’aveva lasciato andare. Aveva sempre considerato una perdita di tempo fare dietrologia, bisognava guardare avanti.
Avevano cenato tutti e tre insieme la sera prima di partire. Albert era strano quella sera. Sembrava assorto, alle volte distratto mentre Candy non faceva altro che parlare. Anche Flanny era strana. Non era strano il fatto che quasi non avesse proferito parola, visto che non era mai stata una chiacchierona, quanto il fatto che non avesse praticamente toccato cibo, lasciando quasi tutto nel piatto, lei che detestava gli sprechi e si indignava davanti agli schizzinosi.
Candy percepiva una strana corrente. Tutte le volte che sollevava il viso dal piatto per rivolgersi ad Albert, lo sorprendeva a fissare Flanny, che, al contrario, teneva gli occhi fissi sul piatto come se volesse tuffarcisi dentro.
Candy non era più una bambina oramai, ma nonostante non avesse alcuna esperienza di questioni di cuore, non le ci volle molto per capire che lo sguardo di Albert celava un interesse che andava al di là della semplice ammirazione.
-Albert mi ascolti? - gli chiese Candy all’ennesimo tentativo di attirare la sua attenzione.
-Mmm..si, dimmi Candy - le rispose lui, questa volta vagamente imbarazzato, mentre si voltava a guardare Candy, come se fosse stato colto in fallo. Candy gli sorrise.
-Stavo dicendo che quando saremo a Londra dovremo fare in modo di scriverci tutti i giorni, per sentirci meno lontani e appena ci saremo sistemate ti farò sapere e tu verrai a trovarci, non è così Flanny? - disse Candy con il suo solito entusiasmo.
-Eh…si…ma certo Candy. Il signor William sarà sempre il benvenuto nella casa in cui vivremo-rispose Flanny prendendo coraggio e sollevando lo sguardo per guardare prima Candy e poi Albert, ma proprio mentre si voltava verso quest’ultimo cercando di apparire più indifferente possibile i loro occhi si incontrarono di nuovo.
-Albert. Flanny, io mi chiamo Albert, dimentica per un attimo il signor William- le disse Albert con un sorriso aperto. Quegli occhi azzurro cielo intensi e colmi di interesse.
-Va bene, signor… Albert - disse Flanny, insolitamente intimidita, ipnotizzata dallo sguardo di Albert.
Ma che diavolo stava succedendo? pensava Candy guardandoli entrambi sempre più divertita. A pensarci bene, non si era mai chiesta se Albert nella sua vita avesse mai riservato un posto speciale ad un’altra donna che non fosse lei. Lui non le aveva mai parlato della sua vita privata. Era mai possibile che Albert avesse avuto una fidanzata da qualche parte? Era verosimile che non si fosse mai innamorato? Che cosa pensava Albert dell’amore? A dire il vero, ora che ci pensava, di Albert Candy sapeva davvero poco. Lei lo aveva sempre visto come il suo protettore, la stella cometa che aveva sempre guidato il suo cammino nei momenti di difficoltà. Non aveva mai pensato al fatto che fosse un uomo, che prima o poi si sarebbe innamorato, sposato e messo su famiglia, ma di fatto lui era proprio quello, un uomo.
E Flanny, anche di lei in fondo non sapeva un granché. Le aveva mai parlato del suo cuore? Certo, Candy sapeva quanto bastava per instaurare con lei un rapporto che andava al di là della mera professionalità. Senz’altro poteva considerarla una vera amica, ma, le aveva mai parlato di qualcuno che avesse un posto speciale nella sua vita? Ad ogni modo non era da Flanny affrontare un tal genere di argomenti. Gli uomini non facevano parte del suo universo se non erano distesi su un lettino pronti per essere sezionati.
-Scusatemi, vado a prendere il dolce - disse Candy con un sorriso malizioso sulle labbra, mentre si alzava dal tavolo. Flanny la guardò con espressione supplichevole scuotendo lievemente il capo, in segno di diniego, come se non volesse che Candy la lasciasse sola. Albert continuava ad osservarla.
Rimasti soli, Flanny chinò di nuovo il capo non sapendo cosa dire. Perché si sentiva così a disagio, lei che sapeva tenere in pugno qualunque situazione, che non abbassava mai lo sguardo con nessuno, che sapeva far rigare diritto tutti i medici dell’ospedale in cui lavorava.
-Sei emozionata di partire Flanny? chiese Albert con il suo solito tono tranquillo, distendendo le gambe sotto il tavolo.
-Io si, no, cioè sono un po’ in tensione per il viaggio, perché… soffro il mal di mare, ma la nuova avventura non mi spaventa -– rispose lei prendendo coraggio e guardandolo negli occhi.
-Oh, non ne dubito Flanny, tu sei una donna tutta d’un pezzo. Non sarà certo la traversata a piegarti - aggiunse Albert con un sorriso lievemente ironico, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale della sedia.
-Mi prende in giro signor William? domandò Flanny sulla difensiva.
-Albert, Flanny. Mi chiamo…Albert - le disse scandendo le consonanti e le vocali. “È una donna interessante”, pensava lui, mentre, portandosi alla bocca un bicchiere d’acqua, continuava ad osservarla insistentemente. Candy le aveva parlato tanto di lei e del loro controverso rapporto, quanto meno all’inizio, e lui se l’era immaginata sempre come un cerbero pronto a mordere. Tuttavia, dopo averla conosciuta la prima volta in ospedale, quando ancora navigava nell’oblio, aveva subito intuito che sotto l’iceberg si celasse una donna di temperamento. Quel suo modo di gestire le situazioni delicate, quelle che si presentavano quando arrivava un’urgenza in corsia, la sua determinazione nel dare le disposizioni del caso, il suo tono deciso mentre impartiva le indicazioni, tutto era così terribilmente affascinante in lei. Eppure ora le sembrava così timida e fragile, quasi imbarazzata a dire la verità. Quel contrasto fra le due Flanny lo intrigava maledettamente. Lo incuriosiva quella donna che non faceva niente per apparire diversa da ciò che era, che non ricorreva a moine o pose studiate per attirare la sua attenzione, lui che era abituato a schivare gli assalti delle giovani in età da marito che la sua importante famiglia lo costringeva a volte ad incontrare, noiosissime figlie dell’alta società di Chicago in cui lui non trovava niente di interessante.
Flanny abbassò nuovamente lo sguardo. Cosa erano quelle farfalle che svolazzavano nello stomaco, accidenti! Era la prima volta che non riusciva a rispondere a tono ad un uomo, soprattutto quando era così impertinente. Eppure erano gli uomini ad abbassare lo sguardo di fronte alla sua determinazione, guadagnandosi tutto il suo disprezzo. Ma lui non era impertinente, era dolcissimo, con quello sguardo trasparente come l’acqua. E aveva anche un bel sorriso, e una bella bocca e una bella voce, accidenti a lui! Ma lui era il signor William, uno degli uomini più potenti degli Stati uniti, appartenente ad una delle famiglie più blasonate del momento. Chi era William Albert Andrew, cosa ci faceva lì, a perder tempo con una semplice e proletaria infermiera, tra l’altro neppure particolarmente bella, in procinto di partire per l’Europa? Non avevano niente in comune loro due!. Dio mio, perché stava pensando a loro due?
In quel momento, Candy tornò con una torta di pan di spagna e panna e una bottiglia di liquore dolce tra le mani. Il sorrisetto compiaciuto non era scomparso dal suo volto, mentre si accingeva a tagliare la torta.
-Albert, coraggio stappa questa bella bottiglia, per favore - gli disse Candy, guardandolo divertita. Albert le rispose con un sorriso appena accennato, afferrò la bottiglia, la stappò con cura, ne versò il contenuto in tre calici, con movimenti misurati e precisi, mentre Flanny seguiva con gli occhi quelle grandi mani come ipnotizzata, sotto lo sguardo sempre più divertito di Candy.
-Alla vostra ragazze - esclamò Albert sollevando il suo calice in aria e facendolo tintinnare prima con quello di Candy e poi con quello di Flanny. Lo sguardo un lago azzurro in cui si tuffarono gli occhi di Flanny.
-Alla nostra, vorrai dire Albert - rispose Candy, sentendosi lievemente a disagio in mezzo a quel muto dialogo fra i due suoi amici.
Quel brindisi suggellò l’amicizia fra tre anime profonde. Ognuna augurava all’altra il meglio dalla vita, nella consapevolezza che il loro legame non avrebbe subito scossoni. Nessuno di loro immaginava in quel momento che le loro vite si sarebbero incrociate oltreoceano.
Al molo 5, gli ultimi ritardatari, si affrettavano a raggiungere la scaletta che li avrebbe portati all’interno del transatlantico. Candy e Flanny correvano avanti, mentre Albert le seguiva, trasportando quelle due pesanti valige come se fossero piume.
Arrivati davanti all’ingresso della scaletta, Albert consegnò le valige all’addetto al ritiro e si voltò a salutare le due donne. Candy lo guardò, lo sguardo velato di lacrime e si precipitò fra le sue braccia, appoggiando la guancia sul suo petto. Albert la strinse a sé e chiuse gli occhi. La bambina della Casa di Pony era diventata una donna e lui doveva accettarlo. Non poteva trattenerla, ma neppure avrebbe voluto farlo. Ammirava il suo coraggio, lei rifletteva il desiderio di lui, mai sopito, di essere se stesso, di rompere gli indugi e trovare il coraggio di sfidare tutto e tutti per le proprie idee. Candy aveva ripagato abbondantemente quella che tutti definivano una buona azione. Quell’orfanella dagli occhi di cerbiatto gli aveva regalato anni di autentica genuinità. E soprattutto, con il suo esempio, gli aveva contagiato la giusta dose di coraggio per dare una svolta alla sua vita.
Nel frattempo, Flanny era rimasta in disparte, impaziente di salire sulla scaletta. Ancora con gli occhi bassi, che proprio non riusciva a sollevare davanti ad Albert, aspettava in silenzio che Candy si liberasse dall’abbraccio. All’ennesimo richiamo della sirena, quest’ultima si divincolò e senza dire una parola, accarezzò la guancia di Albert che le sorrise, per poi iniziare a camminare verso la scaletta.
-A presto - disse solamente. Albert non rispose, ma sempre con il suo bel sorriso stampato sul volto le fece l’occhietto, quasi a voler stemperare la solennità del momento, poi, lentamente, fattosi più serio, si voltò verso Flanny, allungò una mano per prendere la sua, ma Flanny, a testa china, facendo un frettoloso inchino riuscire solo a dire - Addio signor William - . Girò sui tacchi e con passo frettoloso salì i gradini della scaletta a tutta velocità.
Albert rimase con il braccio sospeso per aria e la bocca aperta. Sorrise lievemente, l’espressione intensa. Seguì con lo sguardo le ragazze che sparivano dentro la porticina di acciaio del Mauritania, che si chiuse dietro di loro immediatamente dopo il loro ingresso - Arrivederci Flanny - mormorò, in un sussurro.
Una volta in cabina, Flanny si spogliò velocemente e, senza dire una parola, si infilò nella cuccetta e si coprì fino alla testa. Candy, sempre più stupita di fronte al comportamento indecifrabile dell’infermiera di ferro che tutti temevano decise, tuttavia, di non fare domande e di rispettare il cattivo umore dell’amica.
Seduta sopra la sua cuccetta, rimase a pensare per qualche istante. La nave era uscita lentamente dal molo e si accingeva a prendere il largo. Dall’oblò della cabina poteva vedere la statua della libertà che pian piano diventava sempre più piccola e il suo cuore ebbe un tonfò. Le vennero in mente i ricordi della prima volta che aveva affrontato il mare, prepotenti, laceranti, intensi, come se appartenessero al giorno prima. Improvvisamente, mossa da un impulso irrefrenabile, si alzò, prese lo scialle di lana, si assicurò che Flanny dormisse e, con cautela, in punta di piedi, uscì dalla cabina. Una volta fuori, si avviò direttamente sul ponte della nave. Era deserto. Ripercorse mentalmente e fisicamente il lungo corridoio sotto la tettoia e si fermò lì, proprio dove lo aveva scorto per la prima volta. Rimase impietrita a guardare la balaustra in cui lui si era affacciato allora. L’odore dell’aria salmastra si mescolava al profumo della pelle di lui che le era rimasto impresso nella mente e che non era riuscita a cancellare. Quante volte aveva tenuto premuto quel fazzoletto sul naso, aspirando con ingordigia il profumo di Terence! Le sembrava di sentirlo ancora e si malediceva per aver perso l’unica cosa che conservava di lui.
Sorrise al pensiero di quando l’aveva scambiato per Antony. Come aveva fatto, non potevano essere più diversi, fisicamente e caratterialmente. Antony era stato il suo primo amore, ma lei era ancora una bambina, che ne sapeva allora dell’amore, quello vero, quello che fa fremere, palpitare, ardere di un fuoco inesauribile. Il sentimento per Antony era stato indubbiamente forte, ma unicamente intriso di tenerezza e di dolcezza. Antony era stato senz’altro un ragazzo eccezionale ma non le aveva fatto provare il desiderio irrefrenabile di fondersi con lui, quel desiderio che aveva provato per Terence quasi immediatamente. Per Antony non aveva provato l’impulso di toccare e accarezzare, di baciare e annusare, sensazioni di cui, in un primo momento si era anche vergognata, non riuscendo a dare loro un nome ed un perché. Eppure, già quella prima volta che lo aveva visto sul Mauritania, si era sentita sottosopra. Quel bellissimo ragazzo, dallo sguardo velato di lacrime, dall’espressione tormentata e sfrontata insieme, mentre la prendeva in giro e si rivolgeva a lei con risate sferzanti, le aveva posseduto subito l’anima, l’aveva turbata profondamente, benché lei non ne avesse avuto subito consapevolezza. Per questo aveva chiesto a George di poter rimanere qualche minuto ancora sul ponte, nella speranza di richiamare all’ordine un cuore che aveva preso a fare le capriole.
Si avvicinò alla balaustra e vi si appoggiò, quasi a volersi sovrapporre all’immagine di lui che guardava il mare sette anni prima. Come se, ferma in quella posizione, potesse catturarla e trattenerla solo per sé. Era diretta a Londra e lì avrebbe fatto di tutto per non incontrarlo. Solo l’idea di vederli insieme le chiudeva lo stomaco in una morsa. Avrebbe dovuto fare attenzione, ma in fondo, era sufficiente adottare qualche accorgimento.
Su quella stessa balaustra, un anno prima, il blu del mare aperto si era riflesso in un paio di occhi profondi. La brezza marina aveva scompigliato le ciocche castane e la lunga sciarpa che gli avvolgeva il collo. Terence aveva osservato i piccoli pesci che saltellavano fuori dall’acqua nel tentativo di afferrare le briciole che qualche bambino lanciava. Si era tolto di tasca il fazzoletto che lei aveva perso a teatro a Chicago e se lo aveva portato al naso. Era curioso come, nonostante quel fazzoletto gli fosse appartenuto per molto tempo e fosse ritornato fra le sue mani dopo una breve interruzione, portasse ora l’odore della pelle di lei. Avrebbe voluto mangiarlo, se avesse potuto. Senz’altro era la sua immaginazione ad acutizzargli i sensi. Così come era curioso che a distanza di tanti anni pensare a lei gli accendesse tutti i sensi. O forse era il luogo del loro primo incontro a risvegliargli tutta la passione repressa che lei gli aveva scatenato fin dalla prima volta in cui le aveva messo gli occhi addosso. Quel ponte sul Mauritania era carico di una strana energia, il rumore dei flutti che si infrangevano contro lo scafo, la brezza carica di microscopiche goccioline d’acqua salata che lui inspirava avidamente, il garrito dei gabbiani che si allontanavano verso la terra ferma lo fecero rabbrividire. Si era innamorato di lei proprio lì, quella notte di sei anni prima, senza neppure accorgersene. Lei l’aveva guardato con quei grandi occhi verdi e lui si era sentito improvvisamente a casa. Davanti ad un caminetto acceso. Aveva provato subito qualcosa di diverso per quella ragazza con tante lentiggini. Le loro anime si erano riconosciute ancora prima di voltarsi a guardarla. Una passione violenta e accecante, accompagnata dal desiderio immediato di accorciare subito le distanze tra loro. Una voglia pazza di baciarla e di farci l’amore, di spogliarla e di assaporare ogni centimetro della sua pelle. Una fulminate attrazione fisica prima, un sentimento più profondo poi, man mano che lei era riuscita a farsi strada nel suo cuore conquistandone la fiducia. Una sensazione di appartenenza a lei che gli aveva fatto scoprire per la prima volta che cosa significasse realmente amare. E non aveva più smesso di pensare a lei da allora, neppure ora che aveva frapposto il mare a separarli per sempre.
Continua