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GLI SMERALDI E LO ZAFFIRO - FF completa

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Cerchi di Fuoco
icon12  view post Posted on 12/4/2013, 13:40 by: Cerchi di Fuoco     +28   +1   -1
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Gli smeraldi e lo zaffiro


copertinan



Premessa



Questa è la mia speranza di Final Story.
Questa storia è il frutto di un mio bisogno di dare voce alle emozioni che questi personaggi e le loro vicende in tutti questi anni mi hanno ininterrottamente fatto provare, accompagnando la mia trasformazione da bimba in donna, e che si è nutrita di recente della condivisione con tutte le altre appassionate sognatrici, per la cui amicizia ringrazio ogni giorno la mia buona sorte.
Si è rafforzata con la lettura delle fan fiction di altre folli presuntuose come me, che hanno tentato di esprimere negli anni il loro amore per questi personaggi che hanno un posto speciale nel loro cuore. Dalle mie amiche sui forum, Candyforever, Candy 75, Sciara, Italia, Piricandy, Flow, Piccoletta, Beautifulmind, Arikam, October e tutte le altre di cui spero di leggere presto le pagine scritte con tutta la passione che adesso ben conosco e stimo, alle grandissime Alys Alvalos, Josephine Hymes, Odyssea e alla mia carissima Eleanna, alle quali sono debitrice di molte lacrime versate sull’inchiostro da loro tracciato.
Si è abbeverata alla lettura dei frammenti della Final Story arrivati fino a noi, mentre cercavo di incastrarli, dando loro una forma che lenisse in qualche modo la privazione che sentivo per non avere avuto un seguito di quella storia. Mentre lo facevo, come un segugio, mi sono resa conto che dovevo tornare indietro alle emozioni che Kioko Mizuki aveva ancora una volta saputo trasmettermi con vena straordinariamente poetica. Da questa rivelazione è nata l’idea di questa storia.
Si è concretizzata, infine, nella volontà impellente di riconciliarmi con lo struggente dolore che ancora oggi mi provocano alcuni flash-back dell’anime e del manga, insieme alla grande gioia che tuttora frammenti di questa storia riescono a dare a questa quasi quarantenne che torna regolarmente bambina nel riviverla attraverso dialoghi ormai noti a memoria, eppure ogni volta freschi come se fosse la prima.
Non è un impulso improvviso alla scrittura che mi ha spinto a prendere in mano la penna (anzi, la tastiera), ma una composizione nella mia mente di frasi, immagini, intrecci che avevano già tutti preso vita dentro di me nel corso di questi anni senza che me ne accorgessi, ed ai quali ho solo dovuto dare forma su carta (anzi, monitor), umile scrittrice sotto dettatura.
Non è una Fan fiction, per me, ma la sommatoria di tutto ciò che ho scritto sopra.
Questa, insomma, è la mia Final Story e ciò che il mio cuore mi suggerisce e si alimenta attraverso i quotidiani commenti e riflessioni condivisi con voi tutte.
Per cui, se avrete il piacere di farlo, leggetela sapendo che ho inteso condividere con voi le mie speranze. E non cercatevi l’incastro perfetto degli indizi mizukiani, perché non è che una delle migliaia di possibili scenari alternativi che Kioko ci ha aperto con le sue parole e Igarashi con le sue immagini.
Ma è quella in cui io credo.
Non aspettatevi colpi di scena drammatici e stupefacenti, né vicende frenetiche e capovolgimenti di fronte degni di un romanzo di Dumas (soprattutto, perché io ovviamente non sono all’altezza neanche di avvicinarmi a stringere la mano a Dumas!). Questa è prima di tutto e soprattutto la storia di un lento fluire di sentimenti ed emozioni, che ho cercato umilmente di esplorare con profondo rispetto e amore per le originali caratteristiche dei personaggi. Nelle intenzioni, vuole essere innanzitutto una storia di anime che si cercano, lottando (come la maggior parte di noi che non vive le vite dei “tre moschettieri”) contro nemici che sono quasi sempre dentro di loro piuttosto che all’esterno, in cappa e spada: i nostri pensieri, paure e sentimenti più profondi.
La dedica di questa opera è doverosa, ma molto sentita. Quando ho scritto queste righe non ho avuto né un dubbio né un’esitazione su chi abbia dato il maggiore impulso alla mia fantasia nell’approcciare questa fan fiction.
La dedico con umiltà a Kioko Mizuki, mia amata e odiata autrice, perché non credo di sbagliare dicendo che ha dato vita alla più lunga tra le storie d’amore che hanno accompagnato la mia vita. La ringrazio per la sua poesia e il suo modo delicato ed elegante di dare vita ai sentimenti, che mi piace associare a delle margherite, per il semplice e allegro piacere che mi regalano sempre; ma gliela dedico anche per il dolore e la rabbia feroce e ardente che ha saputo spesso suscitare in me, dandomi la spinta ribelle per scrivere queste pagine.
Per questo motivo lungo la mia storia troverete qua e là delle citazioni delle sue opere originali, sempre doverosamente segnalate, quale tributo a tutte le lacrime ed a tutti i sorrisi che Kioko Mizuki mi ha donato a piene mani negli anni. Così come troverete qua e là anche dei frammenti della storia che tutti noi conosciamo, ma rivisti coi miei occhi e rivissuti col mio cuore.

Ovviamente, non essendo quest’opera destinata alla commercializzazione, ma solo alla condivisione a titolo gratuito nel circuito dei fans, non viene compiuta alcuna violazione dei diritti d’autore con l’utilizzo di personaggi non originali.


Capitolo 1°: Conflitti

1conflitti



New York
11 novembre 1918


Le lancette dell’orologio a pendola dalla pregiata fattura arrancavano faticosamente e, come in tutte le altre notti insonni che avevano preceduto quella che stava così penosamente inerpicandosi verso il miraggio dell’alba, ogni minuto durava un tempo infinito nel buio di un appartamento di New York.
La neve cadeva incessantemente dal pomeriggio precedente, e il movimento di ombre creato dalla lenta traiettoria dei fiocchi attraverso la vetrata affacciata su Manhattan creava un inquietante gioco di chiaroscuri sulla parete di fronte. Le tenebre della stanza erano rotte solo dalle luci sfavillanti dell’inconfondibile skyline oltre la finestra e, all’interno, dalla stilla di rosso che intensificava la sua luce a intervalli regolari, tradendo la presenza nell’angolo più lontano di un’anima in pena, che cercava di espellere un muto tormento insieme al fumo dell’ennesima sigaretta.
Era l’ora più cupa della notte, ma rispetto alle centinaia di altre notti che l’avevano preceduta il silenzio aveva una profondità più spessa, una sensazione ovattata e compatta che solo con la complicità della neve poteva spandersi sulla città che si vantava di non dormire mai.
La persona elegantemente adagiata sulla poltrona di mogano e velluto scuro art-noveau si lasciò sfuggire un sorriso amaro a quel pensiero: anche a lui sembrava di non trovare pace da sempre. Il conforto del sonno arrivava di solito insieme alle prime luci dell’alba, e gli concedeva solo poche ore di oblio prima di riportarlo alla realtà. Le ore del giorno erano scandite dalle tazze di caffè, e le sue notti dalle sigarette avidamente consumate una dopo l’altra, come se il fondo del pacchetto recasse in premio l’agognato riposo.
Eppure, quella notte era stata diversa dalle altre. Ai noti demoni: senso di colpa, privazione, nostalgia e rabbia, compagni immancabili delle sue veglie, si era affiancata un’ansia nuova e ancora indefinibile.
Con un gesto fluido ed elegante, spense la sigaretta nel posacenere poggiato sul tavolino di fianco alla poltrona e si alzò, lasciando così scivolare al suolo il libro che teneva in grembo, e che cadendo si aprì come di sua volontà a una pagina che doveva essere stata letta e riletta più volte, fino a creare tale automatismo. Si avvicinò a passi lenti alla imponente vetrata fissando le luci della città, tra le quali spiccavano quelle del più alto edificio di New York: il nuovo e sorprendente Woolworth Building, dal quale si poteva godere della sensazione di dominare tutta la città, e quindi tutto il mondo. Rimase lì immobile per parecchi minuti, osservando la sua immagine riflessa che si sovrapponeva e confondeva con la vista esterna, finché all’improvviso si sentì soffocare dalle tre pareti rivestite da librerie a tutt’altezza, traboccanti di volumi rilegati in pelle, e dalla quarta, dominata da un grande pianoforte a coda. Sentì l’urgenza, come spesso nelle sue notti eterne ed eternamente uguali a sé stesse, di uscire nella notte e di lasciarsi alle spalle quella stanza che conosceva talmente bene i suoi pensieri e i suoi ricordi, ai quali si concedeva ormai di abbandonarsi solo al chiuso del suo familiare calore, inaccessibile a chiunque altro. Il suo ultimo rifugio. Tutto ciò che di caro gli era rimasto, quasi tutte memorie di un tempo passato e perduto per sempre, era racchiuso tra quelle mura.
Raccolse un’armonica argentata dal tavolino accanto alla poltrona e, dopo averle lanciato una lunga occhiata intensa, la ripose delicatamente nella tasca interna della giacca. Quindi attraversò a passo veloce la stanza fino all’ingresso del piccolo appartamento. Coprì con un morbido cappello di feltro i capelli color mogano, che gli sfioravano le spalle in ciocche ribelli, indossò un cappotto di lana grigio e si avvolse in una morbida sciarpa bianca che coprì completamente il suo volto, eccezion fatta per due strabilianti occhi che avevano la luce degli zaffiri e il riflesso dei fiordalisi bagnati dalla rugiada, cerchiati da occhiaie di stanchezza le quali, lungi dall’ombreggiarne il fuoco, ne esaltavano piuttosto le mille diverse sfumature di blu. Prima di aprire l’uscio lanciò un’ultima occhiata alla stanza che aveva appena lasciato, ed al libro che ancora giaceva aperto sul pavimento accanto alla poltrona. Tutto era silenzio fuori e dentro di sé e quindi, con un ultimo sospiro, uscì richiudendosi lievemente la porta alle spalle.
Le pagine rimasero abbandonate nel buio.

Egli ha un solo consigliere,
e non so quanto legittimo
nella sua pena: se stesso.
E in se stesso si tiene così schivo,
così alieno dal lasciarsi scandagliare e scoprire,
chiuso quanto un bocciolo
divorato dentro da un insidioso verme,
prima ancora di aver disciolto all’aria i suoi soavi petali
a offrirsi al sole in tutta la sua magnificenza.
Ah, potessimo almeno immaginare
la fonte di questo suo tormento:
ché vorremmo non soltanto conoscerlo, ma guarirlo.*




A Terence Graham Granchester piaceva camminare per le strade di New York quando il resto della città dormiva: in quei pochi momenti la sua solitudine acquisiva un senso di normalità, poteva fingersi uno qualsiasi dei milioni di abitanti di quella metropoli in giro per le sue vie, costeggiate dai nuovi imponenti edifici che sorgevano ogni giorno, sfidando la legge di gravità per elevarsi al cielo in una sfida contro i limiti umani. New York era una città in fermento che, quasi senza accorgersene, sotto la pura spinta dei milioni di uomini e donne che la popolavano, armati solo dei propri sogni e della propria energia generatrice, stava letteralmente prendendo il volo.
Terence uscì dal portone del suo appartamento sulla West Third Street e si avviò, affondando le mani nelle tasche del cappotto per proteggersi dal freddo intenso, mentre la neve continuava a danzare lentamente ma fittamente attorno a lui. Superò Washington Square girando attorno al suo inconfondibile arco e rivivendo con un brivido l’esaltazione che aveva provato la prima volta che vi era passato attraverso, appena giunto a New York. Quel passaggio gli aveva dato la sensazione di ricevere una sorta di “benvenuto” da parte di quella abbagliante città. Proprio a lui, diciassettenne già ferito e provato dalla vita, ma allora pieno di speranza per il futuro, che immaginava come un libro dalle pagine bianche ancora interamente da riempire. Ma la trama che allora aveva in mente era molto diversa da quella che sarebbe poi stata scritta per lui dalla mano del destino.
Il ragazzo raggiunse Broadway e si fermò incerto, assimilando l’assenza della consueta frenesia di una delle strade normalmente più vibranti della città, in quel momento congelata dall’ora antelucana e dalla neve: si sarebbe diretto a sinistra verso la Great White Way, la via dei teatri e delle familiari insegne luminose che avrebbe potuto declamare una per una senza neanche alzare lo sguardo? O a destra, verso Downtown ed il nucleo storico attorno al quale si era sviluppata la più straordinaria e cosmopolita delle metropoli, verso i suoi ponti ed i suoi moli? In realtà non aveva alcun dubbio, e senza esitazione voltò a destra, percorrendo Broadway in direzione sud ed allontanandosi dal distretto dei teatri.
Terence era sempre stato una personalità diffidente e incline alla solitudine. Questa attitudine non aveva niente a che vedere con la presunzione, almeno non nel senso in cui di ciò si chiacchierava nel suo ambiente di lavoro, ma era il riflesso di un infanzia sofferta, di un senso di esclusione maturato in seno alla famiglia paterna, prima, e ai lunghi e solitari anni trascorsi in collegio, poi. Purtroppo nessuno tra coloro che si erano avvicendati nel compito di educarlo aveva posseduto la sensibilità necessaria per squarciare il muro di diffidenza eretto negli anni da quel giovane dall’animo tormentato, ed in lui il rifiuto ricevuto da tutti coloro che avrebbero dovuto amarlo e proteggerlo aveva generato un senso di profonda ribellione: contro il mondo indistintamente, e contro il padre particolarmente.
Ovviamente la forte e autoritaria personalità del genitore, che altri non era se non il duca di Granchester, ovvero uno dei più illustri Pari del regno d’Inghilterra, era la più inadatta a gestire quel figlio che, sebbene amatissimo, rappresentava ai suoi occhi la visibile testimonianza dell’unica debolezza a cui si fosse mai abbandonato nella vita: quella che aveva generato Terence era stata per il duca la sola deviazione in un percorso prima e dopo interamente consacrato all’onore e alla rispettabilità. Suo figlio era infatti il frutto della sua bruciante passione per una donna non contemplabile quale candidata a un posto nella galleria dei ritratti di famiglia dei Granchester. Un’attrice americana, per l’amor del cielo!
Terence conosceva a memoria la versione paterna di quella storia. Conosceva ognuna delle giustificazioni che l’augusto genitore si era dato e gli aveva dato negli anni per averlo strappato all’affetto della madre, e costretto ad un’infanzia e un’adolescenza di anaffettività, prima nella nuova rispettabile famiglia e poi tra le mura dell’austera Royal St. Paul School. Di fronte al bivio tra l’affetto e la disciplina, non vi erano spazi di incertezza agli occhi del duca, il quale, a parte il suo rinnegato errore di gioventù, non aveva mai percorso la prima strada, se non nel chiuso del suo cuore.
Nei rari momenti di generosità nei confronti di colui che lo aveva generato, Terence si sentiva addirittura disposto a comprendere (anche se non a perdonare) la gelida indifferenza con cui il padre aveva educato non solo lui, ma anche i tre fratellastri. Si rendeva conto che tale atteggiamento non era altro che il frutto di secoli di patrimonio genetico tramandatosi di freddo Lord in freddo Lord, fin dai tempi di Guglielmo il Conquistatore.
No, a rendere deprecabile il Duca, ed a farne suonare odioso il nome alle orecchie del suo illegittimo primogenito ma legittimo erede, erano ben altre motivazioni.
In un’estate di molti anni addietro, marchiata a fuoco nella sua anima, Terence si era riconciliato con quella madre che in passato si era impegnato lungamente e invano ad odiare, ed aveva tacitato il ruggito del suo cuore verso colei che erroneamente riteneva l’avesse abbandonato. Riavvicinandosi alla donna che gli aveva dato la vita, aveva così potuto constatare quanto le scelte del duca avessero spento in lei ogni anelito di vita e d’amore, se non quello per il figlio adorato.
E così, proprio nella stagione più felice della sua vita, Terence aveva giurato a se stesso che mai, mai avrebbe amato come aveva fatto suo padre. Mai avrebbe usato onore e senso del dovere quali stampelle a sostegno del vuoto di un’esistenza priva di amore!
E invece… Che fine avevano fatto quella determinazione e quella certezza, nel momento in cui avrebbe dovuto convertirle in fatti, quattro anni prima? Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto affermare la sua diversità dal padre tanto vituperato, Terence Graham era stato vinto da quel Terence Granchester di cui si era sbrigativamente illuso di essersi liberato per sempre, semplicemente lasciandosene il nome alle spalle.
Nei suoi momenti di maggiore rabbia, quando il senso della perdita subita e dei torti ricevuti dal destino lo sommergevano fino a soffocarlo, si concedeva persino di provare pietà per quel padre così diverso e così uguale a lui. E per quel patrimonio genetico contro al quale si era ribellato per tutta la vita, solo per deporre arrendevolmente le armi ai suoi piedi in una notte fatale del passato, in un luogo verso il quale i suoi passi adesso lo stavano conducendo inesorabilmente: Ann Street e l’ospedale St Jacob’s. Il luogo in cui il suo destino si era compiuto due volte: la notte in cui aveva permesso che tutto ciò che dava un senso alla sua esistenza lo abbandonasse, voltandogli le spalle su delle scale gelide quanto il suo cuore da allora; e poi la notte di esattamente un anno prima, l’11 novembre del 1917.
La notte in cui Susanna era morta.


* Romeo e Giulietta, Atto I, Scena I

... CONTINUA...

P.S. A tutte le amiche forumelle che saranno così gentili da lasciare una traccia del loro passaggio e voler commentare questa storia, facendo questo viaggio con me, chiedo la cortesia di farlo in un topic a parte per i commenti; la storia è molto lunga e vorrei rendere fluido lo scorrere dei post, nello stesso tempo godendo del piacere immenso di condividerla e commentarla con voi.
Grazie mille!
:giusy:
CdF


Edited by cerchi di fuoco - 15/6/2013, 22:58
 
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