Candy Candy

GLI SMERALDI E LO ZAFFIRO - FF completa

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view post Posted on 31/5/2013, 18:53     +4   +1   -1
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Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati alla vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra di loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad avere tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.
Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta, suoni, immagini, analogie, ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza, la memoria, la fantasia, l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente per accettare e respingere, collegare, e censurare, costruire e distruggere.
(Gianni Rodari: La Grammatica della Fantasia, Einaudi, 1997)


Capitolo 5°: Onde concentriche


5ondeconcentriche


Londra,
16 aprile 1919


Piccadilly Circus era illuminata da uno splendido sole primaverile, i cui raggi scintillanti creavano sulle pozzanghere lasciate dalla pioggia della notte precedente un insieme di giochi di luce simili a sfavillanti prismi di arcobaleno in miniatura. L’acqua sembrava aver lavato e ripulito completamente Londra, che appariva dunque particolarmente smagliante e a festa, quella mattina.
La piazza proverbialmente frenetica era attraversata da carrozze e da diverse automobili private, anche se la maggior parte dei lavoratori londinesi soleva recarsi al lavoro a piedi, esibendo orgogliosamente al braccio l’emblematico ombrello e in testa la doverosa bombetta, o in metropolitana, emergendo dalla stazione che prendeva il nome proprio dalla famosa piazza circolare. Cominciavano a prendere piede anche molti più tram di quanti Terence ricordasse solo pochi anni prima, quando aveva lasciato la città, e nel complesso il traffico della capitale aveva quei tratti multiformi e pulsanti che si addicevano alla sua grandezza.
Londra era all’apice della sua magnificenza, capitale di una nazione che, pur avendo pagato un prezzo carissimo in termini di giovani vite perdute, era all’apice del suo trionfo al termine della prima guerra mondiale. Era la vera e indiscussa padrona del mondo, del quale da più di due secoli governava l’economia grazie al più grande impero coloniale ed al più totale dominio dei mari che la storia avesse mai conosciuto dai tempi dell’Impero Romano, e che mai più avrebbe conosciuto. Allo stesso tempo, però, gli osservatori più attenti potevano già cogliere i tratti che preannunciavano la fine di quello stesso impero e del predominio inglese sul mondo, a beneficio dell’emergente potenza americana molto più pulsante e dinamica, in piena espansione. La Gran Bretagna appariva un gigante vecchio e stremato dall’aver retto le redini del mondo da troppo tempo. Gli Stati Uniti erano il giovane delfino che scalpitava per ricevere il testimone e la corona da uno stanco re, il quale tuttavia orgogliosamente si teneva ancora aggrappato al proprio scettro.
Erano quelli per l’America gli anni delle risorse sterminate, della grande immigrazione, delle opportunità a buon mercato per chi avesse intraprendenza e coraggio per coglierle. E del sogno americano.
Perfettamente in linea con lo scalpitante fervore di quella nazione da cui proveniva la metà del sangue che gli scorreva nelle vene, quella meno blu ma più caparbia, Terence era in quei giorni in preda ad una eccitazione febbrile ed a un imperioso richiamo all’azione, proprio come l’ipercinetica America. Sembrava di rivedere in lui l’adolescente costantemente inquieto che era stato: da quando aveva preso la decisione di spezzare gli indugi e di correre a lottare per riprendersi il suo grande amore, o almeno a provarci, non aveva avuto un istante di requie. Ogni minuto era durato giorni e ogni giorno un’eternità scandita dal suo desiderio. Avendo sacrificato per tanti anni la propria felicità sull’altare di un castello di carte costruito su onore e dovere, adesso che questo era miserevolmente crollato quegli ultimi giorni che lo separavano dalla resa dei conti col destino, dall’ultimo lancio di dadi che avrebbe decretato il vincitore tra loro, gli sembravano decisamente infiniti. La sua anima era da troppo tempo assetata, e si sentiva come un uomo che, dopo aver attraversato un deserto, trovasse sulla sua strada degli ostacoli ad impedirgli di compiere gli ultimi passi che lo separano dall’anelata sorgente.
Dopo la sconvolgente lettura delle lettere di Candy sottrattegli da Susanna tanto tempo prima, Terence aveva altalenato tra sentimenti di rabbia e tristezza per il passato perduto. Ma più di tutto, una volta deciso di riannodare i fili della sua esistenza prematuramente recisi, aveva cominciato ad essere attanagliato dal terrorizzante dubbio che la sua Candy, l’unico essere al mondo che potesse trarlo fuori da quella finzione troppo a lungo recitata fuori dal palcoscenico per restituirlo alla vita, potesse invece essere andata avanti senza di lui durante quei lunghi anni di separazione.
Non riusciva ad immaginare che qualcuno non avesse cercato di cogliere quel fiore tanto prezioso che lui era stato tanto fortunato da veder sbocciare accanto a sé nella stagione più felice della propria vita. Si sentiva privilegiato per il sentimento che avevano condiviso, per quell’anno tra Londra e la Scozia che aveva cambiato la sua vita, facendogli comprendere veramente, per il tramite dell’amore puro per Candy, che tipo d’uomo desiderava diventare, solo per essere degno di lei. Tutto ciò che aveva fatto nella vita lo doveva a lei. Persino la riconciliazione col padre: era Candy che gli aveva insegnato il valore del perdono, restituendolo così (direttamente o indirettamente) all’affetto di entrambi quei genitori che nel proprio distruttivo autolesionismo e sete di vendetta aveva rischiato di perdere.
Terence conosceva bene il dono posseduto da Candy di spargere attorno a sé un’aura di sereno benessere e di pace. Ma a lui aveva dato qualcosa di più: tramite il suo amore aveva insegnato anche a lui ad amare. E facendolo, aveva incatenato a sé per sempre quel giovane e ribelle Terence, il cui sentimento così da lei acceso ancora vibrava intatto nell’uomo che era diventato.
Ma erano passati cinque lunghissimi, penosi, crudeli anni di lontananza e Terence non poteva credere che non vi fosse stato uomo tanto saggio da innamorarsi perdutamente di quel raro angelo… Il solo pensiero lo faceva bruciare di una sorda e del tutto irrazionale gelosia. Nei momenti in cui essa ottenebrava completamente la sua mente, privandolo di ogni residuo di lucidità, arrivava addirittura a chiedersi se quel damerino senza spina dorsale di Cornwell non avesse potuto approfittare della situazione per prendersi ciò che, ne era certo, non aveva mai smesso di desiderare… Solo dopo un po’ di tempo passato immancabilmente a tormentarsi ferocemente si rendeva conto di quanto fosse assurdo tale pensiero; non perché si fidasse del dandy, ma perché conosceva bene la sua Candy e sapeva che, al di là di ogni altra irrazionale considerazione e assurdo scenario la sua mente potesse concepire, mai lei avrebbe fatto un torto simile alla sua migliore amica, quella timida brunetta… come si chiamava? Annabelle?
Per risollevarsi l’anima così tormentata da infauste visioni di Candy felicemente votata ad un’appagante vita domestica con qualcuno che non fosse lui stesso, Terence allora richiamava alla mente il legame elettivo che li univa, cementato da quel lungo, straziante addio sulle scale del St Jacob’s Hospital, in quei brevi ed infiniti momenti in cui i loro due cuori erano diventati uno solo.
Ma poi ricordava che era stato lui stesso ad imporle un giuramento di felicità.
Terence aveva preso la ferma risoluzione che, qualora avesse scoperto che Candy (al contrario di lui) era riuscita a tenere fede al suo impegno, si sarebbe fatto da parte in silenzio sia pure con l’anima in pezzi, e non avrebbe tentato in nessun modo di rientrare nella sua vita per turbarla ancora. Le aveva già fatto troppo male, prima portando Susanna nella sua vita, e poi lasciandola scivolare via in quella notte fatale sotto la neve.
Quindi, dopo essersi interrogato a lungo sul modo migliore e più delicato di contattarla, optò per una lettera. L’avrebbe spedita non appena messo piede negli Stati Uniti, augurandosi di riuscire a frenare l’istinto che gli urlava invece di correre da lei senza aspettare più un solo minuto, stringerla tra le sue braccia e non lasciarla più andare per nulla al mondo. Desiderava solo risentire il contatto con quella pelle e perdersi nei suoi occhi di smeraldo…
Era un bisogno ancestrale, che aveva un che di animalesco e selvaggio.
Ignorava dove lei vivesse adesso, se ancora a Chicago o in qualche altro luogo. Conoscendo il suo spirito indipendente e anticonvenzionale, poteva trovarsi ovunque al mondo. Ma sapeva anche quali fossero i suoi legami più profondi, e quindi era certo che, ovunque lei fosse, Miss Pony e Suor Maria di certo non ignoravano il suo indirizzo.
E così, tormentato dalla gelosia, da dubbi laceranti e dalla sua bruciante passione, Terence aveva preparato la partenza, facendo letteralmente ammattire i Gouz con la sua irrequietezza, che lo spingeva a girare in tondo come una trottola, aggirandosi per casa come una fiera in gabbia, fumando una sigaretta dietro l’altra e passandosi le mani tra i capelli scarmigliati, gli occhi febbrili per l’impazienza e l’impotenza, senza riuscire a concludere alcunché. I preparativi erano stati rapidi ed efficienti, soprattutto dopo che Mr. Gouz ne aveva preso le redini, estromettendo il tarantolato marchese da ogni poco costruttiva ingerenza.
Il problema era stato, come per il viaggio di andata, trovare un posto su un piroscafo per tornare a New York. Le comunicazioni tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti erano molto meno frequenti di prima della guerra, giacché molte navi civili erano state requisite dalla marina militare per svolgere trasporto truppe. Poiché Terence minacciava di sfidare a duello chiunque osasse solo accennare all’assurda idea di aspettare fino ai primi di maggio per viaggiare con l’Aquitania, informando tutti che avrebbe piuttosto attraversato l’oceano a nuoto, Mr. Gouz alla fine incaricò uno degli avvocati londinesi del duca, tal Mr. Ashton, di fare carte false per ottenere un passaggio su una delle navi mercantili che invece partivano con grande frequenza dal porto di Southampton.
Alla fine, quando tutti gli esasperati abitanti della casa erano ormai decisi a impacchettare Terence in carta da imballaggio e spedirlo negli Stati Uniti per posta celere, Mr. Ashton telefonò finalmente a Granchester Manor per informare il marchese di aver trovato, con incommensurabili sforzi, un posto per lui su una nave mercantile, il Pearl, in partenza dopo pochi giorni, il 16 aprile.
Armatori e capitani non erano mai soddisfatti al pensiero di portare dei passeggeri a bordo delle proprie navi, che non sempre rappresentavano fulgidi esempi di igiene e bon ton tra i marinai. Figurarsi un marchese, figlio di un Pari d’Inghilterra! Ma evidentemente Mr. Ashton aveva trovato il modo di oliare i giusti ingranaggi e, anche grazie a qualche bustarella finanziata dal credito illimitato concessogli da Terence, a patto che riuscisse a fargli lasciare al più presto quell’Inghilterra che cominciava sempre più ad apparirgli una “perfida Albione” che lo teneva prigioniero contro la sua volontà, i suoi sforzi erano stati alla fine coronati dal successo.
E così, tre giorni prima della partenza del Pearl, Terence prese congedo dal padre.

Il duca di Granchester era ormai avviato sulla strada di una lenta ma positiva riabilitazione. Lui e Terence avevano avuto un ultimo colloquio nel corso del quale il ragazzo aveva comunicato al padre che importanti e urgenti questioni richiedevano immediatamente la sua presenza in America. Il duca aveva visto ardere negli occhi del figlio una brace blu che non vi scorgeva più da anni, da prima della loro separazione. Senza chieder nulla aveva riconosciuto in quegli occhi la stessa fiamma d’amore che aveva bruciato nei suoi tanti anni prima. Lo aveva quindi solo invitato a tornare il più in fretta possibile a quegli affari così importanti e a trovare la soluzione migliore per essi, mettendosi a sua disposizione per qualsiasi aiuto potesse dargli.
I rapporti tra padre e figlio in quei mesi di convivenza si erano stretti di un infinitesimale frammento ogni giorno, eppure era stato un cambiamento rivoluzionario. Come il moto della terra, che gira attorno a se stessa tanto rapidamente da apparire immobile, piccoli passi e infinitesimali gesti giorno dopo giorno avevano ridotto, senza bisogno di parlarne, la siderale distanza che in origine li divideva.
All’atto del congedo il duca, ormai in grado di alzarsi e di muoversi con cautela sia pure ancora aiutandosi con un bastone, prima di accomiatarsi definitivamente dal figlio lo condusse nel suo studio, dove trasse da una cassaforte incassata nella parete un cofanetto portagioie di ebano, finemente intagliato e riccamente adorno di zaffiri, rubini, oro e perle, a formare un elaborato fregio di fiordalisi e gigli sul coperchio. Terence stimò che dovesse avere almeno duecento anni, e rimase senza parole a fissare quel meraviglioso oggetto d’antiquariato che ignorava facesse parte del tesoro dei gioielli di famiglia.
- Figliolo, vorrei tu facessi qualcosa per me, una volta tornato in America.
- Ditemi, padre.
Il duca aprì il piccolo cofanetto, foderato di velluto blu e argento, e ne trasse un semplice filo di platino dal quale pendeva un ciondolo composto da un diamante da almeno dieci carati, tagliato in modo da concentrare su di sé tutta la luce del mondo e rifletterla in migliaia di riflessi cangianti, con un effetto straordinario.
- Terry, questo ciondolo appartiene a tua madre. Lo comprai pochi giorni dopo la tua nascita per fargliene dono. Purtroppo sai… tutti noi sappiamo… come andarono le cose. Non riuscii mai a darglielo. Ma in tutti questi anni non ho mai voluto né liberarmene, né darlo alla duchessa. Il suo significato è molto intimo e mi lega indissolubilmente alla donna che mi ha donato quanto di più prezioso io abbia al mondo.
Terence fissava il padre, commosso da quella indiretta dichiarazione di affetto nei suoi confronti; affetto al quale non aveva ancora fatto l’abitudine, né tantomeno imparato ad abbandonarsi completamente.
Per cui rimase in silenzio, una luce negli occhi che parlava per lui, ad aspettare il seguito di quella storia che lo toccava così da vicino.
- Per tutti i motivi di stima e rispetto, nonché di considerazione per lei, che ti ho già esposto, vorrei che tua madre avesse alfine questa collana. Non vuole essere un pegno, né un risarcimento per le sofferenze che lei ha patito in questi anni, poiché reputo impossibile ripararvi e riterrei oltraggioso provarci con un bene materiale come questo. Si tratta di qualcosa che è sempre stato suo, in un certo senso, ma che io ho custodito fino ad oggi. Questa collana è legata a voi due, e per questo vorrei che l’avesse tua madre. Non ho ritenuto di fargliela avere con un anonimo corriere negli anni dell’astio e del rancore, ma oggi forse è possibile. La affido a te perché gliela consegni. Ma se capirai che questo dono potrebbe offenderla o rievocare tristi ricordi del passato, ti prego di non insistere e di tenerlo con te, per darlo un giorno ad una donna che riterrai degna e piena di onore come tua madre.
Terence prese la collana tra le dita. Era un gioiello talmente bello e unico che da solo parlava del grande amore che doveva aver legato i suoi genitori. All’improvviso sentì un’ondata di rabbia invaderlo al pensiero di cosa sarebbe potuto essere e non era stato. Ma gli ultimi mesi non erano passati invano. Terence aveva lasciato dietro di sé i rancori del passato e aveva intrapreso il difficile cammino del perdono, che scalzò la rabbia, lasciando però al suo passaggio nel posto lasciato vacante una pari dose di malinconia.
- Molto bene, padre. Porterò questa collana a mia madre. Sono certo che con le premesse e le spiegazioni che mi avete dato ne comprenderà il senso, e non credo che potrà rifiutarlo.
- Grazie Terry. Il cofanetto, invece, appartiene alla nostra famiglia da parecchie generazioni. Quindi vorrei che lo tenessi tu quale primogenito ed erede, per continuare a tramandarlo quando sarà il momento.
Il duca scrutò il figlio con uno sguardo tra il malizioso e l’indagatorio, ma Terence, facendo ricorso a tutto il suo consumato talento recitativo, mantenne un’assoluta maschera di impassibilità nel rispondergli:
- Certamente, padre, quando sarà il momento… - dando però volutamente alle sue parole una sfumatura del pungente sarcasmo della sua giovinezza.
Un erede….
Per cominciare, il primo passo era andare subito a riprendersi la donna della sua vita e, sperava ardentemente, futura madre dei suoi figli.

In quella sfavillante mattina d’Aprile, Terence emerse dunque dall’ingresso principale sull’inconfondibile facciata neo-classica dell’hotel Ritz di Londra, immergendosi nell’atmosfera caotica di Piccadilly Circus e chiedendosi come avrebbe fatto a far scorrere via il più velocemente possibile le ore che lo separavano dall’imbarco sul piccolo piroscafo Pearl quella sera.
Come una falena attratta inevitabilmente dalla luce, si avviò lungo Shafetsbury Street, la via dei teatri, desideroso di respirare l’aria del suo mondo che sentiva essergli mancata più di quanto avesse ammesso con se stesso fino a quel momento. La recitazione per lui era una vocazione, non un lavoro; era un bisogno primario di lasciar volare i propri sentimenti e la propria passione che trovava sublimazione sul palco, ogni singola volta che il sipario si levava e lui annullava la sua persona per concedersi completamente al personaggio in quel momento in scena al suo posto. Terence non si limitava semplicemente a interpretare: lui faceva vivere Orsino, Riccardo III, Amleto… e quelle vite cominciavano a mancargli. Al suo rientro sulle scene lo attendeva la sfida più difficile, quel Romeo a cui non si era più concesso dal 1914.
Passeggiando assorto per il West End ed osservando le numerose locandine di opere shakespeariane in cartellone, fu però irresistibilmente attratto dal teatro Her Majesty’s, dove in quei giorni si rappresentava con grande successo il Pigmalione che aveva tra i protagonisti uno dei suoi attori-icona: Sir Herbert Beerbohm Tree, il fondatore della Royal Academy of Dramatic Art.
Terence era straordinariamente interessato al mondo della Commedia, che George Bernard Shaw aveva elevato ai suoi massimi livelli; e pur restando un fedele e monogamo interprete delle opere del Bardo, da vero appassionato di teatro desiderava conoscerne tutte le multiformi espressioni. Ovviamente aveva letto l’opera, ma non aveva ancora avuto il piacere di assistervi a teatro, e si dispiacque di non avere il tempo per poterlo fare quella sera.
Sorrise: se Mrs. Gouz avesse potuto leggergli nel pensiero in quel momento, lo avrebbe inseguito col suo mattarello per tutta Soho, considerando quanto aveva esasperato la povera donna con le manifestazioni della sua impazienza e con l’odio evidente che aveva palesato per ogni singola ora in più passata sul suolo britannico negli ultimi giorni.
Si ripromise di assistere al Pigmalione alla prima occasione utile. Mentre osservava la locandina, si ritrovò a pensare a quanto Candy avrebbe apprezzato quello spettacolo. La protagonista, Eliza Dolittle, aveva in comune con lei la purezza di una semplicità che abbatteva ogni barriera sociale con la semplice forza dirompente del sorriso, nonché la caparbia volontà nel raggiungere i propri obiettivi.
La sua deliziosa ragazza! *
Immerso nei propri pensieri Terence si era nel frattempo addentrato nelle intricate e affascinanti vie di Soho, godendone l’atmosfera Dickensiana. Si era fatta quasi ora di pranzo e così per ingannare il tempo decise di entrare in uno dei più antichi e caratteristici pub di quella parte della città, il Dog and Duck, che recava tra le sue pareti molte memorie del suo scapestrato passato di ribelle, dedito a bere troppo ed a provocare risse.
Prima di Candy. Prima della vita vera.
Era stato al Dog and Duck che aveva conosciuto Albert, la sera in cui lui lo aveva salvato da una situazione particolarmente pericolosa nella quale si era cacciato chissà come e chissà perché... a quei tempi non faceva fatica a trovare ogni sera un motivo valido per dare libero sfogo ai suoi peggiori istinti autodistruttivi.
Chissà dov’era Albert e cosa stava facendo? Era ripartito per una delle sue mete esotiche o viveva ancora con Candy? La consueta fitta di gelosia si impadronì di lui, al pensiero che l’uomo avesse avuto il privilegio, a lui sempre negato, di condividere l’intimità quotidiana con la sua ragazza.
Terence entrò nel pub e si lasciò avvolgere dall’atmosfera vittoriana che vi regnava. Il pavimento di marmo a grandi riquadri neri e crema creava un avvincente contrasto con la tappezzeria pesante a disegni rossi e oro.

dogandduck


Sedette al banco dove un pingue barista dagli enormi e indisciplinati baffi grigi, che probabilmente si trovava in quel luogo fin dai tempi dell’incoronazione della regina Vittoria, stava asciugando un bicchiere con uno straccio bianco. Terence sogghignò, chiedendosi se per caso gli osti non attendessero l’ingresso dei clienti per farsi appositamente trovare intenti in quella caratteristica occupazione.
- Buongiorno, sir! – salutò il baffuto barista, sollevando lo sguardo a osservare il distinto giovane vestito con un semplice ma raffinatissimo bespoke blu, chiaramente cucito su misura per lui da un sarto di Savile Row, in un interessante contrasto con la lucente capigliatura color mogano, più lunga di quanto non dettassero la moda e il bon ton tra i gentiluomini londinesi, e anticonformisticamente sguarnita di cappello.
- Buongiorno! – ricambiò il saluto Terence.
- Come posso servirla, Sir?
Terence sorrise, ricordando che quando era solito frequentare quel pub, negli anni della sua adolescenza, gli veniva riservata ben altra accoglienza. Soprattutto, doveva ammettere, perché si premurava sempre di arrivare già ubriaco in quella zona della città. Si sentì attraversare dall’ombra di un fremito di vergogna per quella parte della sua vita, e per la sua amplificazione autodistruttiva che aveva toccato il culmine a Rocktown, prima di tornare con uno sforzo a dedicare tutta la propria attenzione all’uomo dietro il bancone di mogano.
- Vorrei una pinta di birra, grazie – gli chiese con gentilezza - e qualcosa da mangiare. Cosa mi consiglia?
- Oggi abbiamo un’ottima shepherd’s pie, Sir! La consiglierei a mio padre, che Dio l’abbia in gloria.
- Bene, non posso tirarmi indietro, dunque! Me ne dia una porzione abbondante, buon uomo. E gradirei anche quell’ottima sherry trifle tanto decantata dalla lavagnetta alle sue spalle!
- Ottima scelta, Sir, se mi è consentito. La servo subito!
L’oste si allontanò per spillare la birra e ordinare il pasticcio di carne in cucina, e Terence ne approfittò per guardarsi attorno e godere della calda familiarità di quel luogo. In fondo, sebbene avesse abbandonato da tempo il “Granchester” in coda al suo secondo nome, non poteva negare che la sua anima inglese era solo sopita dentro di lui, ma a quanto pareva sempre pronta a balzar fuori per godere di un momento così autenticamente British nella sua città d’origine.
Il giovane, con un rilassato sorriso, fece dunque vagare lo sguardo lungo le pareti dello stretto e lungo pub, ricoperte di quadri raffiguranti scene di caccia e di bucolica vita campestre inglese, nella più consolidata tradizione di quei locali.
All’improvviso, il suo sguardo fu catturato da uno dei dipinti, anonimamente appeso tra tutti gli altri, che calamitò immediatamente il suo istinto prima ancora che la sua attenzione.
Quella panoramica dall’alto di una verde campagna, spezzata da alti pini e costellata di arbusti di sicomoro e ginepro in fiore, tra i quali cresceva, quasi inopinatamente, una maestosa e centenaria quercia… Sebbene avesse visto quel panorama solo una volta e totalmente imbiancato da una fitta tormenta di neve, la forma di quel declivio era impressa a fuoco nella sua mente e non avrebbe potuto sbagliarsi neanche se la forma inconfondibile della Casa di Pony non si fosse stagliata al centro del dipinto, attirandolo verso la tela con la forza di un potente magnete.
Terence sfiorò il quadro e la dozzinale cornice in cui era incassato con una reverenza quasi sacrale. Il destino non era mai stato prodigo di chiari segnali del proprio volere con lui, preferendo piuttosto acquattarsi nell’ombra per coglierlo di sorpresa come un esperto borseggiatore di Harlem. Quindi, cosa poteva significare il fatto che si fosse imbattuto proprio in quel momento in quel paesaggio che parlava di Candy con ogni goccia di colore pennellata sulla tela, da mani evidentemente appartenenti a qualcuno che conosceva perfettamente quel luogo?
Abbassò lo sguardo a leggere la firma posta in basso a destra sul dipinto:
Slim”.
- La sua birra è servita, Sir! – lo richiamò l’oste, distogliendolo dalle sue meditazioni.
Senza voltarsi verso di lui Terence continuò a scrutare il dipinto, come a volerne memorizzare ogni dettaglio. Era travolto dalla stessa ondata di forti emozioni che aveva vissuto di persona su quella collina ove si era recato in pellegrinaggio tanto tempo prima, appena sbarcato in America da Londra, quando cercava di stringere un legame col passato della ragazza tanto amata, e che aveva dovuto lasciare suo malgrado dietro di sé.
- Ditemi, sapete chi ha dipinto questo quadro?
L’oste si produsse in uno sguardo sbalordito per l’interesse suscitato in quel fine personaggio da un quadro di tanto bassa fattura.
- No signore, mi dispiace… l’ho comprato al mercato delle pulci qui a Soho qualche mese fa, a dire il vero. Era in una bottega da rigattiere, mescolato a molti altri quadri senza gran valore come questo. Se devo dirla tutta, l’ho comprato solo perché l’edificio che raffigura mi ha ricordato la chiesa del paese di campagna nel quale sono cresciuto…
- Capisco – Terence fece una pausa, sempre fissando ipnotizzato il quadro. Animandosi all’improvviso, si volse verso il pingue oste che lo guardava incuriosito appoggiato al bancone alle sue spalle – e sarebbe disposto a vendermelo, buon uomo?
- Venderglielo, Sir? Ma come le ho detto non vale molto…
- Per me ha un valore inestimabile – gli rispose il ragazzo, con gli occhi che lanciavano lame ardenti di decisione e di qualche altra forte emozione che l’uomo non riuscì ad identificare.
- In questo caso, Sir, sarò lieto di rivenderglielo al prezzo al quale io stesso l’ho acquistato… e le assicuro che non è una cifra esorbitante.
- Ci tengo a pagarle un giusto prezzo, insisto!
- Assolutamente no, Sir. Ma se proprio vuole sdebitarsi le chiederei la gentilezza, quando avrà finito il suo pasticcio di carne, di complimentare un po’ la mia signora che l’ha cucinato… Oggi è il suo compleanno e qualche ossequio extra le allieterà la giornata – il simpatico omone era arrossito nel formulare quella richiesta così personale – Sempre che le piaccia davvero lo shepherd’s pye, s’intende, Sir! Ma non ho dubbi in proposito: la mia Harriett è la cuoca migliore di Londra, garantito!
Terence sorrise. Era emozionante vedere le infinite forme che l’amore poteva assumere, una delle quali si era imprevedibilmente materializzata sotto i suoi occhi, lì tra le pareti del Dog & Duck, nelle rubiconde gote di un oste londinese diventate ancora più paonazze al solo nominare la moglie palesemente adorata.
- Qual è il suo nome, buon uomo?
- Ned Pickwick, Sir!
- Bene, Ned. Sarò onorato di gustarmi tale prelibatezza, e di rendere il giusto onore alla sua consorte se, come sono certo, sarà all’altezza delle lodi da lei decantate!
Dopo aver gustato una doppia porzione dell’effettivamente prelibato pasticcio di carne di Mrs. Pickwick, Terence aveva reso indimenticabile la giornata della cuoca, recandosi personalmente nelle cucine per palesarle tutta la propria ammirazione e complimentarsi per lo strepitoso piatto. Quando si era accomiatato da lei con un impeccabile baciamano, la donna, già duramente messa alla prova dal paio di occhi più straordinari mai visti in vita sua e da quel fisico slanciato e muscoloso perfettamente rivestito da un abito su misura che ne esaltava la naturale eleganza, temette di svenire. Terence si accomiatò dalla simpatica coppia con una piacevole sensazione di benessere, portando con sé sotto il braccio il quadro di Slim.
Fischiettando allegramente tornò verso il Ritz, da dove avrebbe raccolto il suo bagaglio per dirigersi finalmente al porto di Southampton e lasciare l’Inghilterra, alla volta di quel futuro di cui il dipinto che portava sotto il braccio rappresentava un auspicio… si sarebbe occupato in seguito di capire se positivo o negativo.
Per il momento, voleva limitarsi a godere di quel frammento di impagabile ottimismo che le ultime due ore gli avevano donato.

*Gioco di parole con “My Fair Lady”, il musical tratto dal Pigmalione di G.B. Shaw e messo in scena a Broadway per la prima volta nel 1956.

_____________________



...CONTINUA...

Questa parte della mia Storia è, per forza di cose, dedicata alla mia amica Candinafor, poichè tratta del "suo" indizio...

Edited by cerchi di fuoco - 21/6/2013, 23:24
 
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view post Posted on 3/6/2013, 20:03     +7   +1   -1
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New York,
21 aprile 1919


Terence sbarcò a New York in una radiosa mattina di primavera in cui il sole si rifletteva nelle acque dell’Upper New York Bay, creando un effetto simile ad un pavé di scintillanti diamanti ai piedi dell’inconfondibile skyline, sempre più vicino e maestoso a mano a mano che la nave faceva il suo lento ingresso nel porto. Il rimorchiatore trainava la nave verso il suo attracco, scortata dal gioioso e chiassoso volo dei gabbiani che compivano le proprie evoluzioni di benvenuto al nuovo gigantesco arrivato.
Affacciato al parapetto del ponte con i capelli lucenti scarmigliati dal vento ad accarezzargli il viso, Terence respirò a pieni polmoni l’aria salmastra del porto, godendo della sensazione di essere di nuovo a casa, e nello stesso tempo vivendo emozioni totalmente nuove rispetto a quando era partito. Sfilando dinanzi alla maestosa Statua della Libertà quella mattina gli sembrava di essere in perfetta sintonia con i milioni di uomini e donne pieni di speranza in un futuro migliore che erano sbarcati e sbarcavano ogni giorno a Ellis Island, prima tappa dei loro viaggi verso le destinazioni e i destini più diversi. Sentiva di avere in comune con loro quel fremito di entusiasta curiosità alla scoperta di cosa avesse in serbo per loro quella nuova vita per la quale avevano abbandonato ogni certezza del passato, e nello stesso tempo i dubbi e la paura che dovevano attanagliarli al pensiero di avere scommesso tutto su un unico giro di roulette che aveva molte più probabilità di risultare perdente che vincente.
Rouge ou Noir! Rien ne va plus...

Durante i cinque giorni della traversata, Terence aveva condotto vita molto ritirata e socializzato poco con i marinai del Pearl e il loro capitano Crawford. Consumava i pasti in orari e locali differenti da quelli degli uomini dell’equipaggio che, sempre intenti nelle proprie occupazioni, si limitavano ad osservarlo da lontano. Erano tutti incuriositi e affascinati da quel giovane taciturno e riservato dagli occhi seri e profondi dello stesso colore del loro elemento naturale, l’oceano, misteriosamente ombreggiati dal ribelle ciuffo castano che scendeva a coprirli, impedendo a chiunque di leggervi dentro. Nel complesso l’aura di mistero che emanava la sua figura li intimidiva non poco.
Le voci sul suo conto a bordo crescevano di giorno in giorno e se già la sua fama quale figlio di un duca ed erede di una delle maggiori fortune d’Inghilterra aveva preceduto la sua salita a bordo, Steve Red Pumpkin Stevens, così soprannominato per via di una folta zazzera rossa orgogliosamente esibita, da appassionato delle arti figurative e grande esperto di teatro (titolo che si era doverosamente guadagnato per aver allestito una versione del “Canto di Natale” di Dickens nella sua parrocchia a Liverpool l’inverno precedente, durante una pausa dai suoi viaggi per mare) aveva addirittura buttato sul tavolo tra gli “ooooh” e gli “aaaah” di stupore dei compagni la sorprendente novità che il marchese fosse uno dei più acclamati attori del momento!
La notizia aveva suscitato il dovuto scalpore tra l’equipaggio, e sarebbe stato difficile dire se il timore reverenziale che da quel momento aveva accompagnato ogni passaggio del giovane taciturno sul ponte fosse dovuto più al titolo nobiliare o alla sua fulgida stella teatrale.
Terence aveva però ignorato deliberatamente le curiosità sul suo conto, scambiando solo dei cortesi cenni di saluto con chiunque incontrasse tra i corridoi o sul ponte della nave, sul quale era solito trascorrere gran parte della giornata, godendosi il sole primaverile e la dolce brezza che saliva dal mare. Avendo però colto gli echi dei molteplici interrogativi e leggende sul suo conto che, fomentate da Red Pumpkin, stavano ormai divampando a bordo, talvolta la sua vena maliziosamente beffarda prendeva il sopravvento e si divertiva a stuzzicare le fantasie dei marinai, lasciandosi osservare mentre, assorto, passeggiava su e giù per il ponte, un libro di tragedie shakespeariane in una mano e l’altra teatralmente sulla fronte come in cerca di un’alta ispirazione. Sapeva che sarebbero bastati pochi minuti di tale pantomima per alimentare chiacchiere sufficienti a riempire lo spazio della cena in cambusa. E infatti puntualmente ogni sera Red Pumpkin, tra una pinta di birra e l’altra, chiedeva ai compagni con aria eccitata se non sarebbe stato fantastico che in occasione della sua prossima intervista per il New York Times quella star di Broadway avesse addirittura accennato al fatto di avere trovato l’ispirazione giusta per la sua più recente interpretazione proprio sul ponte del Pearl…
Ma, a parte il diversivo fornito dai suoi scherzi ai danni dell’inconsapevole equipaggio, la maggior parte del tempo lo spirito di Terence rimaneva soffocato da una malinconia inquieta, e si poteva notarlo osservare il riflesso delle onde con aria assorta, come a cercare dentro di esse una previsione, con la stessa ansiosa aspettativa con cui una veggente avrebbe scrutato la sua sfera di cristallo. A volte le sue meditazioni erano accompagnate dalla struggente melodia dell’armonica che portava sempre con sé.
Ma, soprattutto, aveva scritto.
Aveva scritto tonnellate di carta e fiumi di inchiostro ma producendo ben poco, giacché sembrava assolutamente evidente che non giungesse ad essere mai soddisfatto dei frutti della propria opera, almeno a quanto l’equipaggio poteva arguire dai cumuli di fogli appallottolati, cancellati e strappati rabbiosamente, che ogni sera l’imperscrutabile ospite raccoglieva attorno a sé per gettarli via. Ben presto tra gli uomini dell’equipaggio si era diffusa una boutade secondo la quale in quel viaggio fosse stato risparmiato del tutto il carbone per alimentare le caldaie, poiché al suo posto l’energia necessaria a far girare i motori del Pearl dall’Inghilterra agli Stati Uniti era stata fornita dalla sola carta gettata via dal giovane lunatico marchese dai capelli mori.
Si trattava ovviamente dei ripetuti, ed ai suoi occhi mai soddisfacenti, tentativi di scrivere a Candy la lettera che aspettava di comporre da troppi anni. Talvolta gli sembrava che le sue parole dicessero troppo e subito dopo riteneva di aver fatto virare il tono ad una eccessiva freddezza. Desiderava dar voce sulla carta al tumulto di sentimenti che si agitava in lui per la sua adorata Tuttelentiggini, ma nello stesso tempo ricordava l’impegno assunto con se stesso di non farla più soffrire, qualora fosse stata impegnata con qualcun altro. Ogni pensiero era un foglio appallottolato, ogni ripensamento una cancellatura.
Ormai all’ultimo giorno di traversata, aveva infine faticosamente vergato le righe che lo avevano soddisfatto (o forse si era solamente arreso, stremato dall’impazienza e dal dubbio) per cui aveva firmato e aveva chiuso in una busta candida il foglio il cui contenuto gli aveva provocato tanto patimento, e aggiunto l’indirizzo che non aveva mai dimenticato di La Porte, presso la casa di Pony.
Poi, prima di riporla in tasca, aveva lanciato un’ultima occhiata a quella busta apparentemente innocua, ma che aveva il potere di cambiare la sua vita o di trattenerlo per sempre in quel limbo di frustrazione e rimpianti nel quale si era arenato anni prima, riemergendo dall’abisso di Rocktown.

Sul molo, Terence salutò cordialmente il capitano Crawford e l’equipaggio, ringraziandoli per averlo ospitato a bordo, e fendette la folla pulsante dei lavoratori del porto mercantile di New York, così diversa e tanto più pittoresca e verace rispetto ai raffinati viaggiatori di prima classe dei piroscafi ai quali era abituato. Con il suo abito leggero color crema e una camicia nera dal colletto disinvoltamente sbottonato a mostrare un foulard chiaro casualmente annodato attorno al collo,il nobile portamento che spiccava nella frenesia ipercinetica dei portuali, il giovane attore era decisamente fuori contesto in quella baraonda multicolore e multilingue.
All’ingresso del molo chiamò un taxi e, caricato il bagaglio con particolare attenzione al prezioso quadro di Slim che trovò posto accanto a lui sul sedile, diede al tassista l’indirizzo del suo appartamento in West Third Street. Nonostante non rimpiangesse i mesi trascorsi ad Alberfoyle e la svolta che la sua vita aveva intrapreso in quel luogo tanto caro e pregno di ricordi felici di una lontana estate, si sentiva terribilmente eccitato all’idea di essere tornato a New York e il traffico pulsante di Manhattan, che gli sfrecciava attorno da ogni direzione, i suoni e i profumi della primavera nella grande metropoli, lo fecero fremere.
Sì, era tornato a casa.
Il taxi sfrecciò per Broadway e gli occhi di Terence ebbero un lampo blu di pulsante desiderio. L’indomani si sarebbe recato da Robert per informarlo del suo ritorno e programmare il suo rientro sulle scene. Passando davanti al teatro New Amsterdam lanciò un’occhiata al cartellone de La principessa sbagliata, e la piacevole eccitazione che lo aveva accompagnato dal momento dello sbarco fu però repentinamente scalzata da un’ondata di rabbia, reazione ormai immediata ad ogni pensiero o immagine che riguardasse Susanna Marlowe.
Ricordò la furiosa lite con lei quando lei gli aveva fatto leggere il copione di quell’ultima commedia, opera che nelle speranze della ragazza avrebbe dovuto sancire la sua consacrazione dopo l’esordio letterario, ed alla quale Terence l’aveva vista dedicarsi con fervore quasi maniacale negli ultimi mesi.
Susanna gliel’aveva sottoposta con un sorriso carico di aspettativa, come ogni volta che aspettava di conoscere il suo parere per decidere se il cielo fosse blu o giallo, e lui era rimasto allibito quando aveva letto la trama, riconoscendo la storia delle loro vite: la sua, quella di Candy e quella di Susanna, completamente stravolte e capovolte dietro lo schermo di carta velina della favola per adulti.
Terence aveva fissato senza riuscire a parlare per qualche istante i fogli stretti tra le sue mani tremanti, sperando di aver letto male o che fosse uno scherzo.
Ma di una cosa si poteva essere assolutamente certi: Susanna non scherzava mai.
- Susanna, tu non pubblicherai questa storia! – le aveva sibilato, la voce tagliente come una lama e gli occhi che trapassavano i fogli manoscritti che lei gli aveva porto con l’entusiasmo di una bambina, per arrivare a frustare quelli nocciola di lei.
- Cosa? Terence, ma cosa stai dicendo? Ho già ricevuto l’opzione per i diritti di messa in scena. La compagnia Trewelyan la produrrà il prossimo giugno, lo sai!
- Io non avevo idea di cosa stessi scrivendo. Susanna, ti proibisco di mettere in scena questa storia così privata e dolorosa… e che hai banalizzato e ridicolizzato sotto la veste fiabesca che hai usato come foglia di fico per giustificare questa immonda spazzatura! Per l’amor del cielo, non hai un po’ di rispetto almeno per te stessa, se non per… - un’esitazione – gli altri?
Terence stava alzando pericolosamente la voce, con gli occhi che lanciavano fiamme ardenti all’indirizzo di Susanna la quale, purtroppo per lei, scelse la tattica più sbagliata: rispondere sullo stesso tono. Quell’esitazione nella voce di Terence, e il nome che vi era celato dietro, l’avevano fatta impazzire di rabbia più che le critiche al suo lavoro.
- Foglia di fico? Storia privata? Spazzatura? Terence, tu sei completamente impazzito! Questa è un’opera di fantasia! La mia opera, e andrà in scena esattamente così come l’hai appena letta, capisci?
Susanna tremava e i suoi occhi avevano cominciato a brillare per l’arrivo delle lacrime pronte a sgorgare per dar corpo a tutta la propria rabbia e la propria frustrazione. Aveva lavorato per mesi su quella sceneggiatura e amava ogni pagina e ogni riga: costituiva la sua rivalsa verso tutto ciò che era andato male nella sua vita, il suo modo di rimettere i fili a posto, ogni pedina dove avrebbe dovuto essere fin dall’inizio…
Terence l’aveva fissata, con il sangue che gli ribolliva dentro.
Era impotente. Susanna aveva già un produttore ai blocchi di partenza, ansioso di sfruttare il richiamo mediatico della sua tragedia per realizzare il “tutto esaurito”.
Non aveva nessun potere di fermare quell’infamia, quell’insulto a se stesso e soprattutto al ricordo di Candy. Ma in primo luogo all’immane sacrificio che avevano compiuto per la donna che adesso esprimeva la propria gratitudine rappresentando colei che le aveva salvato la vita in panni tanto lontani dalla realtà.
- Susanna, non pensi che tutti noi abbiamo sofferto abbastanza? Lasciamo per un attimo da parte i nostri sentimenti, ma non credi che un po’ di pace, di silenzio e rispetto siano quanto di più doveroso nei confronti del nostro passato? Di come io esca da questa faccenda, da questa ridicola sceneggiatura, non mi importa nulla. Ma tu stessa non senti il bisogno di voltare pagina?
“Ipocrita! Tu sei il primo ad avere lasciato il cuore tra le stanze di quell’ospedale. Solo che la tua storia racconta una verità diversa da quella che ora Susanna vuole esibire al mondo…” Terence sentì la sua coscienza richiamarlo nell’istante stesso in cui terminava di rivolgere quell’appello al suo carnefice.
Susanna aveva incrociato le braccia e distolto lo sguardo.
- Non so di cosa tu stia parlando, Terence. Ti ripeto che la mia è un’opera di pura fantasia!
A quel punto Terence si era sentito assalire dalla familiare ondata di impotenza e frustrazione che regolarmente si impadroniva di lui dopo ogni discussione al termine della quale Susanna si rifugiava nella negazione: quella sensazione di essere prigioniero di qualcosa di totalmente perverso e ormai incancrenito. Lui e quella donna erano ormai avviluppati in un nodo gordiano, che solo un taglio netto avrebbe potuto recidere.
E così Terence si era rifiutato di accompagnare Susanna alla prima della Principessa sbagliata e di intervenire mai più ad alcuna occasione pubblica correlata allo spettacolo.
Di lì era stato innalzato l’ulteriore muro di indifferenza tra lui e quella fragile donna, ormai totalmente preda delle sue dimensioni parallele. Muro dietro al quale si sarebbe consumato di lì a poco l’ultimo atroce dramma, con il suo tragico epilogo di morte.
Terence riemerse dal suo passato solo per accorgersi che il taxi stava costeggiando Washington Square, ormai in prossimità del suo appartamento.
- Per favore, si fermi un momento! – disse al taxista.
Quando l’auto si accostò al marciapiedi, Terence scese e si diresse a passo lento verso una buca delle lettere, che sembrava essere lì da sempre, in attesa proprio di quel momento, abbagliandolo con il suo abbacinante riflesso scarlatto sotto i raggi del sole.
Trasse la preziosa busta dalla tasca interna a sinistra della giacca, nella quale l’aveva custodita negli ultimi due giorni, quasi a volerle trasmettere il battito del cuore sul quale era stata poggiata, affinché arrivasse insieme alle parole vergate sul foglio a colei che ne era l’unica destinataria.
Avvicinò alla buca la mano tremante che stringeva la lettera. Rimase lì in uno stato di sospensione per qualche istante e poi, con un gesto rapido quasi temesse di non ritrovare più il coraggio, lasciò cadere nella buca rosso fuoco la busta, e insieme ad essa tutte le proprie speranze, affidando l’una e le altre all’efficiente U.S. Postal Service.
La busta non aveva ancora toccato il fondo della cassetta postale, che Terence aveva già cominciato a tenere il conto delle ore e dei giorni del lungo viaggio che avrebbe compiuto attraverso gli Stati Uniti, fino alla sua destinazione in uno sperduto villaggio dell’Indiana, sul lago Michigan.


Messaggeri d’amore dovrebbero essere i pensieri;
volano via dieci volte più veloci dei raggi del sole
quando spoglia le fosche cime dei colli dai loro veli brumosi.
Perciò il carro d’Amore è trainato
da un volo di bianche colombe.
E perciò ha Cupido ali di veloce vento.
*


________________________


New York,
30 aprile 1919


Candy scese dal tram affollato in prossimità del Metropolitan Museum.
Sebbene New York fosse fornita di un’efficiente e già estesa linea metropolitana, lei preferiva muoversi in superficie, per godersi la vista di quella strabiliante città con la quale a poco a poco stava cercando di giungere ad una tregua, provando a lasciarsi alle spalle il burrascoso e conflittuale passato che l’aveva legata ad essa.
L’ultimo colpo, ricevuto al teatro New Amsterdam, l’aveva lasciata stordita e ripiegata su se stessa per diversi giorni, durante i quali Patty le era stata accanto più che mai, con la sua vicinanza discreta e affettuosa, nonostante la presenza in città di Hal. Come sempre Candy alla fine aveva rialzato il capo, rivolto uno sguardo luminoso alla croce della felicità di Miss Pony e alzato i suoi occhi verdi verso il mondo, trovandolo di nuovo bello nonostante le cadute.
Anche Mrs. Roosevelt sembrava particolarmente sensibile all’umore di Candy. In effetti, aveva capito che qualcosa doveva essere successo alla giovane briosa e piena di vita che, pur non facendo mai mancare il suo sostegno e la sua energia nelle attività della fondazione, sembrava fosse stata adombrata da un velo di tristezza e malinconia fin dalla sera della rappresentazione al teatro. Eleanor non le aveva chiesto nulla, ma aveva osservato con discrezione e particolare sollecitudine la ragazza alla quale si era ormai molto affezionata, spiandone l’umore in attesa del momento più opportuno per parlarle.
Pur continuando a rimuginare su quanto aveva scoperto e sulla nuova prospettiva da cui ripensava a tutto il passato che la legava a Susanna Marlowe, ciò che veramente tormentava Candy da quella notte era un rinnovato e lancinante bisogno, necessario come una boccata di ossigeno a chi stesse per annegare, di sapere cosa fosse stato di Terence in tutti quegli anni di lontananza che avevano assunto all’improvviso contorni tanto nuovi e colori tanto diversi nella sua mente. Laddove aveva sempre immaginato il suo amore lontano, sì, ma quanto meno al sicuro da sofferenze e rimorsi, oggi tutto le appariva confuso e incerto.
Da quella sera a teatro la felicità di Terence non era più una certezza e proprio per questo era diventata una necessità, per dare un senso al passato ed al presente.
Tuttavia, Candy non riusciva a vincere la paura di ciò che avrebbe potuto scoprire. Continuava a dirsi che se Terence avesse davvero voluto o solo sentito il bisogno di mettersi in contatto con lei dopo la morte di Susanna, avrebbe avuto ogni modo e tutto il tempo per farlo. Eppure fremeva adesso più che mai dal desiderio di rivederlo, ogni cellula del suo corpo lo invocava: voleva sentire la sua amata e calda voce chiamarla con uno dei suoi insopportabili soprannomi coniati appositamente per lei, e che aveva imparato ad amare. E soprattutto, fremeva dal desiderio di essere ancora una volta sfiorata dal tocco delicato di quelle dita eleganti e affusolate che l’avevano fatta tremare fasciandole il braccio ferito sulla seconda collina di Pony, in un maggio lontano, poco dopo averle marchiato l’anima ed il corpo con il morbido calore delle labbra che avevano preso possesso delle sue.
Candy si era risolta ad accettare e rispettare il suo silenzio, terrorizzata all’idea di portare altro dolore e nuovo rimpianto a colui che amava ancora con la stessa forza di cui aveva tardivamente preso coscienza sul molo di Southampton, con quel grido che aveva consegnato al vento gelido e alla bruma dell’alba.
Sebbene Mrs. Roosevelt le avesse messo a disposizione auto e autista per muoversi come meglio e quando credeva, Candy aveva sempre nutrito una naturale indifferenza verso tali lussi, reputati inutili sfoggi di privilegio che tanto le ricordavano gli sgradevoli atteggiamenti di ostentazione di Iriza che aveva dovuto subire nell’infanzia. Inoltre, le piaceva mescolarsi alla folla delle cinque del pomeriggio: impiegati e impiegate che emergevano dai loro uffici e si riversavano sulle strade come minuscole formichine al cospetto degli svettanti edifici di Manhattan che facevano giusto onore al proprio nome, innalzandosi davvero fino a sfiorare il cielo.
Quel giorno Candy aveva avuto un’impegnativa sessione di colloqui per le candidate al ruolo di infermiere al Roosevelt Children’s Asylum, l’ospedale per bambini fortemente voluto da Mrs. Roosevelt a Brooklyn, ormai praticamente pronto ad aprire i battenti.
Candy aveva insistito particolarmente sulla necessità di selezionare personale non solo fortemente qualificato e titolato da un punto di vista infermieristico, ma soprattutto con il giusto approccio e umanità nei confronti dei piccoli pazienti di cui avrebbero dovuto occuparsi. Sapeva per esperienza personale quanto un sorriso e una carezza sincere potessero risultare la più miracolosa delle medicine per i bambini, soprattutto gli sfortunati che sarebbero stati assistiti al Roosevelt Asylum, bambini che avrebbero dovuto giocare con i coetanei ed andare a scuola e invece lavoravano duramente in condizioni di scarsa o nessuna tutela, spesso rimanendo vittime di incidenti mortali o gravemente inabilitanti.
Flanny Hamilton alla fine era stata scelta per il ruolo di capo-infermiera, e sarebbe arrivata da Chicago entro poche settimane. Candy non l’aveva ancora incontrata, né aveva in programma di farlo, volendo rispettare questa volta la riservatezza della vecchia compagna di camera.
Pensava di aver fatto un buon lavoro quel giorno, e due o tre delle ragazze che aveva colloquiato le erano sembrate molto in gamba. In particolare una giovane infermiera neo-diplomata del Rhode Island, Tiffany Gillenhall, la cui dolcezza le aveva immediatamente rammentato la sua Annie.
Il sole ormai restava alto nel cielo fino a tardi, illuminando con i suoi raggi ogni giorno più caldi e luminosi la primavera newyorkese che si avviava maestosamente e trionfalmente al suo culmine. Nonostante fossero quasi le sei quando Candy arrivò davanti all’ingresso dell’appartamento dei Roosevelt, il tramonto era ancora ben lontano e l’arenaria dell’elegante facciata era accesa da riflessi infuocati.
Entrando in casa, Candy fu accolta dal maggiordomo il quale la informò immediatamente che la signorina Patty e il signor Clement erano usciti per una passeggiata a Central Park, e che se avesse voluto raggiungerli li avrebbe trovati presso la pista di pattinaggio.
Seymour, che avrebbe potuto agevolmente posare come soggetto di qualsiasi dipinto sul perfetto maggiordomo British style, era un’istituzione di casa, al pari di Mrs. Delano Roosevelt. Candy aveva detto a Patty una volta che doveva avere un’età indefinibile tra i cento e i duecento anni, ma ben portati.
- Grazie Seymour, ma credo che andrò a fare un bagno e mi preparerò direttamente per la cena.
- Molto bene, Miss Andrew. Mi consenta di consegnarle la posta che è arrivata oggi per lei.
- Che meraviglia! Grazie Seymour! – Candy prese dalle mani del maggiordomo due spesse buste e gli rivolse uno dei suoi smaglianti sorrisi, che non mancavano mai di sciogliere anche le personalità più spigolose, come quell’austero maggiordomo, al quale quarant’anni di servizio agli ordini di Mrs. Delano Roosevelt avevano implacabilmente piegato gli angoli della bocca di diversi gradi verso il basso.
Seymour non ricordava che casa Roosevelt avesse mai brillato per eccitazione e sorrisi. Persino l’arrivo di Mrs. Eleanor, ai tempi giovane neo-sposa di Mr. Franklin, non aveva portato l’ondata di entusiasmo che ci si sarebbe potuti aspettare da una coppia di sposini. Mrs. Eleanor fin da giovanissima era stata caratterizzata da una personalità piuttosto seria e non era mai stata incline ad esprimere gioia o semplici manifestazioni di affetto. Non che la suocera avesse mai favorito tali atteggiamenti, sospirò Seymour.
Candy diede un’occhiata alle grafie sulle due buste che Seymour le aveva porto, una bianca e una rosa pallido, e senza bisogno di leggere i mittenti riconobbe quelle di Albert e di Miss Pony. Quindi, stringendo al cuore le buste e con un ultimo saluto affettuoso all’anziano maggiordomo, volò su per le scale con il vestitino a fiori di varie tonalità di rosa che volteggiava lievemente dietro di lei ad ogni scalino ed i riccioli biondi che le ondeggiavano morbidamente sulle spalle.
Seymour sospirò: da quando i figli di Mrs. Eleanor e Mr. Franklin erano in collegio, o assegnati alle cure di attente ma fredde tate nella residenza di campagna di Hyde Park on Hudson, quella casa non conosceva gioventù, si permise di pensare prima di tornare alle sue incombenze quotidiane.

*Romeo e Giulietta, Atto II, scena V.

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 6/6/2013, 20:07
 
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Parigi,
10 aprile 1919

Carissima Candy
E’ stato un piacere ricevere la tua lettera, che mi ha fornito anche un ottimo pretesto per distogliermi da una fastidiosissima conversazione nel foyer del Ritz con un attaché della delegazione francese a Versailles, il quale stava cercando di persuadermi a investire una discreta quantità dei profitti della Andrew Enterprises nel caseificio del suocero a Bordeaux…
Per evitare noiosi (e purtroppo non infrequenti) abboccamenti come questo, da circa una settimana mi sono trasferito dal Ritz, peraltro decisamente troppo pretenzioso per i miei gusti, in un piccolo ma deliziosamente continentale appartamento nel quartiere di Montparnasse, in rue Delambre. Devo assolutamente raccontarti della vita notturna e della vivacità di questo quartiere, una vera rivelazione e scoperta per me, dopo settimane di noiosissime conferenze a Versailles, dove siamo ormai alla stretta finale.
Non voglio tediarti con i dettagli, mia piccola femminista rivoluzionaria, ma sappi che quando un giorno la storia racconterà della conferenza di Versailles e dei grandi ideali che vi sono stati discussi, racconterà un mucchio di sciocchezze!
Si tratta invece di un indegno mercato in cui ognuno sta cercando di strappare il prezzo migliore per la propria nazione, e di un orrido banchetto di iene attorno alla carcassa di una belva, feroce per quanto possa essere stata in vita, ma adesso completamente smembrata e dilaniata: la Germania.
Non c’è onore né pietà per i vinti in questo nuovo mondo, mia piccola Candy…
Per riprendermi dall’atmosfera mefitica di quelle sale, nelle quali il presidente Wilson (ci scommetterei) sta riducendo di diversi anni la durata della sua futura vecchiaia, a giudicare dall’espressione sempre più tesa, stanca e disillusa che cala sul suo volto a mano a mano che i negoziati procedono, ho un antidoto però meraviglioso: la più straordinaria città del mondo che, seppure nei miseri ritagli di tempo che mi rimangono, sto cercando di vivere il più possibile.
Non venivo a Parigi da molti anni ed è stata una fortuna decidermi a farmi accompagnare da George. Lui è originario della città, come sai, ed è molto più utile qui a me, per barcamenarmi tra i mille bistrot della città, che non ad Archie che se la sta cavando splendidamente da solo a Chicago.
Montparnasse è piena di artisti giovani e straordinariamente innovativi nelle loro forme espressive; ho la sensazione che questi anni di Parigi rivoluzioneranno anche la Storia dell’Arte, oltre che gli assetti politici del dopo-guerra.
Esattamente a fianco della villetta che ho affittato si trova uno studio artistico condiviso da un fotografo, un pittore e una scultrice, che insieme non mettono insieme tre franchi, e con i quali ho stretto amicizia, giacché li incontro praticamente ogni giorno. In occasione del nostro terzo incontro fortuito Josephine Lisser, la promettente scultrice, mi ha addirittura chiesto di posare per lei. Pare, cara Candy, che il mio naso abbia esattamente le misure fornite dai greci classici come indicative della perfetta armonia del viso; lo avresti mai creduto? Josephine lo ha deliberato senza possibilità di errore, con una semplice occhiata dei suoi attentissimi occhi neri.
Ovviamente i miei nuovi amici non sanno chi sono, credo ritengano io sia un qualche artista americano, squattrinato e talentuoso al loro pari. Stasera, però, dovrò confessare almeno a Josephine di possedere qualche franco, poiché abbiamo in programma di recarci all’Opéra.
Credo che tu e lei andreste molto d’accordo, il suo carattere è affine al tuo: dolce ma decisa, e assolutamente priva di filtri che le impediscano di dire esattamente ciò che le passa per la mente nel momento stesso in cui lo pensa. Per non parlare della rapidità con cui fa seguire le azioni ai propositi. Ti ho già detto che la statua che mi raffigura ha già pronto il calco?
Adesso ti lascio, mia cara. Non prima, però di averti detto quanto io sia orgoglioso di te e di come stai andando avanti, nella direzione che hai scelto. Sai che qualunque passo farai io ti sarò accanto e ti sosterrò. Intanto sono già orgoglioso del coraggio con cui la mia intrepida ragazza sta affrontando le sue paure e i suoi fantasmi.
Un abbraccio con tutto il mio cuore, a presto.

Bert.


Candy non si era accorta di avere schiuso lentamente l’espressione del suo viso a un sorriso, a mano a mano che la lettura della lettera di Albert le andava svelando scorci assolati dei quartieri parigini. Gli era sembrato di vederlo, in un disinvolto abito di lino bianco con tanto di panama di paglia, chiacchierare con la nuova amica davanti a un giardino in fiore, incorniciati da arbusti viola di buganvillee.
Albert aveva sacrificato troppo della sua natura esploratrice sull’altare degli affari degli Andrew e per la prima volta da molto tempo Candy sentiva trasparire dalle sue parole un sincero entusiasmo per la vita, quale non aveva più avuto modo di leggere dai tempi delle sue lettere dall’Africa. E chissà quale ruolo aveva avuto in tutto questo l’intraprendente scultrice di Montparnasse, si chiese Candy con gli occhi brillanti di malizia. Era la prima volta che Albert accennava ad una figura femminile nelle sue lettere o nei suoi racconti, dopo quel rapido e mai più ripetuto riferimento all’infermiera conosciuta in Kenia tanti anni prima, e Candy moriva dalla curiosità di essere informata circa il seguito. Avrebbe risposto immediatamente ad Albert, chiedendogli maggiori dettagli sulla serata all’Opéra, che ormai era stata consumata da giorni, stanti i tempi del servizio postale intercontinentale.
Prima, però, l’attendeva la lettera di Miss Pony.
Se la lettera di Albert le aveva evocato (chissà perché!) il gusto di una zuppa un po’ piccante, le parole di Miss Pony erano sempre come un dolce dal gusto delicato, tenuto in fondo alla cena affinché lasciasse in bocca il sapore di buono.
Comodamente seduta al suo posto preferito, sul cuscino del bovindo davanti alla finestra, Candy strappò i lembi del rettangolo di carta e fece per trarne il contenuto. La ragazza estrasse dalla busta, come di consueto ottenuta ripiegandone un’altra già usata, i due fogli vergati con la fitta e amata grafia di Miss Pony.

Casa di Pony,
La Porte, Indiana
26 aprile 1919

Piccola mia,
Come stai?
Da quando ti sei trasferita a New York, molto colpevolmente io e Suor Maria non ti abbiamo ancora scritto, completamente prese dalla primavera, stagione in cui, come sai, la maggior parte delle famiglie che desiderano adottare un bambino si dedicano a questo importante passo.
La piccola Lottie e Freddie hanno infatti appena trovato la loro nuova famiglia e siamo molto contente di poter dire che si tratta di due coppie veramente splendide e che li riempiranno di tutto l’amore che meritano.
Suor Maria è, come sempre in questa stagione, alle prese con la sua allergia da fieno, ma ciò non le impedisce di dirigere le sue classi con il solito pugno di ferro in guanto di velluto. Di certo la cosa non ti stupisce!
Ma veniamo a noi, cara bambina.
Spero che la vita a New York scorra serena e che le paure e i turbamenti che ( pur senza confessarceli apertamente) devi aver certamente nutrito all’idea di recarti proprio in quello tra tutti i luoghi del mondo, abbiano lasciato il posto ad una riconciliazione con il tuo doloroso passato.
Sono veramente orgogliosa del tuo coraggio, della tua forza e della sfida con te stessa che hai intrapreso.
Mia cara Candy, come ti ho sempre detto, il passato non ci abbandona mai. Non possiamo far nulla per cancellarlo e per liberarci delle ferite e delle cicatrici che ci lascia addosso, per fortuna insieme anche a tanti ricordi felici. Tutto ciò che abbiamo vissuto, nel bene e nel male, ci ha resi ciò che siamo oggi.
E la splendida persona che sei, bambina mia, è proprio il frutto dei momenti belli e brutti che hai vissuto.
Tutto ciò che possiamo fare è sforzarci sempre con tutta la nostra dedizione di fare tesoro di ogni insegnamento che ci riserva la vita, pregare il Signore e aspettare ciò che di nuovo e imprevedibile ha in serbo per noi, più forti anche grazie alle esperienze belle o brutte che abbiamo vissuto.
Ma a volte il passato compie invece degli ampi cerchi, per tornare a saldarsi esattamente con il punto di inizio del nostro viaggio, e la strada percorsa, che pensavamo retta, si rivela invece un’ampia e lunghissima curva che compie la sua traiettoria solo per tornare indietro all’origine di ogni cosa.
E’ quello che ho pensato pochi giorni fa quando è arrivata qui, indirizzata a te, la lettera che ti allego alla presente, e che ha anche materialmente compiuto un viaggio circolare fino al nostro angolo di mondo per tornare al suo luogo di origine: New York.
Ovviamente non è stata aperta e te la trasmetto così come è giunta a noi, con l’assoluta certezza che la mia forte e coraggiosa Candy sia pronta a scoprire quale nuova svolta le presenta il suo cammino, e per percorrerla a testa alta fino a quella che spero e prego essere la chiusura del cerchio della sua felicità.
Quando si ama come tu sai amare, Candy, l’amore ci trova sempre, ovunque noi ci rifugiamo e per quanto cerchiamo di nasconderci ad esso.
Ti abbraccio con tutto il mio infinito affetto di madre.

Pauline Giddings.



Candy aveva gli occhi bagnati delle lacrime che erano scese a inzuppare il foglio che teneva tra le mani durante la lettura. Attraverso lo spazio e il tempo sentiva la forza dell’amore e il senso di protezione di Miss Pony giungere fino a lei da tanto lontano.
Si sentì percorsa da uno intenso brivido di premonizione nel prendere in mano la busta aperta che giaceva sul cuscino al suo fianco, così apparentemente innocua e così potenzialmente pericolosa.
Fluttuando tra la paura e l’anticipazione, con mani tremanti Candy trasse lentamente una busta più piccola e leggera, che era stata custodita in quella giunta dalla casa di Pony e, sospirando per raccogliere tutto il suo coraggio, abbassò gli occhi verso quel piccolo rettangolo bianco.
Non ci fu bisogno di leggere il mittente, riconobbe fin dal primo sguardo la grafia di cui conosceva a memoria ogni tratto aristocratico e regolare, avendo trascorso infinite notti a rileggere fino a impararle a memoria le lettere di colui che, proprio come le aveva scritto Miss Pony, tornava adesso dal suo passato con la forza dirompente del destino. Come se i suoi pensieri e le sue lacrime di quegli ultimi giorni (o forse di quegli ultimi anni) fossero arrivate fino a lui, che così rispondeva al suo silenzioso e disperato richiamo.


“Terence Graham Granchester
47, West Third Street, New York City, New York”



Lo scorrere del tempo perse di consistenza, liquefacendosi al pari di ogni altra cosa che non fossero quelle due righe le cui lettere sembravano brillare di luce propria nella penombra sempre più opaca della stanza. In quel momento quel nome costituiva l’unico frammento di realtà percepibile da tutti i sensi di Candy, interamente concentrati e focalizzati su quella piccola busta che poteva racchiudere il mondo o farlo crollare per sempre.
Il tesoro che teneva tra le mani tremanti era stato solo pochi giorni prima tra quelle di Terence!
Se solo avesse potuto, Candy avrebbe voluto restare per sempre lì, con quella busta tra le mani e Terence di nuovo presenza nella sua vita, anziché immagine evocata solo dalla potente forza dei suoi ricordi. Aveva paura di scoprire quale piega avrebbe preso la sua esistenza, una volta aperto quel vaso di Pandora. Candy sapeva, senza sapere se vi fosse preparata, che dopo aver schiuso quella busta, il suo destino sarebbe cambiato di nuovo, in un modo o nell’altro.
Rouge ou Noir! Rien ne va plus!
Candy aprì lentamente il lembo di carta che chiudeva la busta e il suo prezioso contenuto. Le sembrava che le sue palpebre avessero perduto la capacità di abbassarsi, a giudicare da quanto il suo sguardo era fisso sulla busta, le iridi di un verde così intenso da sembrare riflettere all’esterno la fiamma che vi bruciava dietro, concentrando negli occhi ogni nota del colore che invece era totalmente defluito dal resto del suo viso.
Estrasse l’unica pagina accuratamente ripiegata in quattro che la busta aveva custodito e lentamente, come se ne dipendesse la sua vita (cosa che in effetti era) spiegò il foglio e lesse:

Cara Candy
Come stai?
Forse è solo una mia speranza, ma d’altra parte è possibile che tu sappia che è passato un anno… No, in realtà è passato ben più dell’anno che avevo deciso di aspettare. E’ stato per colpa di alcuni eventi e della mia indecisione se ho lasciato che trascorressero altri sei mesi prima di scriverti.
Ma adesso è arrivato finalmente il momento di rompere gli indugi e spedirti questa lettera.
C’è infatti qualcosa che devi sapere, senza ulteriori rimandi: i miei sentimenti non sono cambiati.
Non so se queste parole ti raggiungeranno mai, ma desidero che tu lo sappia.

Tuo
T.G. *



Candy terminò la lettura e senza dir nulla, stringendo al cuore la preziosa pagina, si appoggiò con movimenti lentissimi e con infinita cura alla parete dietro di lei, le ginocchia raccolte al petto e le palpebre finalmente abbassate, le lunghe ciglia scure ad accarezzarle le guance. In quella posizione lasciò infine che le lacrime facessero erompere dal suo corpo tutta la solitudine e il silenzio, il lungo inverno che vi aveva albergato dal momento lontano nel tempo in cui le braccia di Terence avevano allentato la stretta con la quale l‘avevano tenuta contro il suo petto, per lasciarla andare via, incontro al buio che l’aveva avvolta da allora.
Le sembrò di riudire la calda voce del suo Romeo sussurrare disperatamente al suo orecchio, in quella lontana e feroce notte:
“…Fermiamo il tempo…”.
E in quel preciso istante, in quella stanza dell’Upper East Side avvolta dalle prime ombre del crepuscolo newyorkese, il tempo riprese a scorrere…


“Come sei arrivato sin qui, chi ti ha guidato?”

“Amore mi ha spinto a cercarti,
che poi mi prestò il suo consiglio;
e io a lui prestai i miei occhi.
Io non sono un pilota,
ma fossi tu lontana quanto la più deserta spiaggia
che bagna l’oceano più remoto,
per una merce tanto preziosa, mi ci imbarcherei.” **



* Liberamente da me tradotta -e parzialmente rimaneggiata- da: Kioko Mizuki, Final Story, Volume II pag. 283
** Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II

...CONTINUA...

Edited by cerchi di fuoco - 10/8/2013, 21:58
 
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Eleanor Roosevelt salì le scale diretta in camera di Candy.
Aveva una sorpresa per lei, che sperava avrebbe definitivamente cancellato le ultime tracce di tensione dal suo volto.
Si sentiva molto responsabile per le due fanciulle che aveva accolto sotto la sua ala protettrice. Patty adesso aveva Hal a prendersi cura di lei e accudirla con amore sincero, sentimento che Eleanor approvava di vero cuore. Era convinta che i due ragazzi fossero davvero fatti l’uno per l’altra, nonostante sua suocera storcesse il naso, ritenendo che chiunque vivesse oltre l’area delimitata da Park Avenue e Fifth Avenue non fosse all’altezza del lignaggio dei Roosevelt.
Candy invece le faceva tenerezza: le sembrava una vispa rondine dall’animo lieve, desiderosa del caldo bacio del sole primaverile ma intrappolata contro la sua volontà in un costante inverno, che ne tarpava le ali e ne frenava il volo.
Eleanor bussò alla porta della camera verde e ricevette in risposta un sommesso:
- Avanti!
La donna aprì la porta con la decisione e la consueta sicurezza che muovevano ogni suo gesto, ed entrò.
Fu accolta da una penombra ormai quasi completa, che per un momento le impedì di scorgere la ragazza. Fece scorrere il suo sguardo sorpreso attraverso la stanza dai contorni sfocati a causa dell’oscurità, fino a che non fu attirata dal movimento di un’ombra seduta davanti alla grande finestra, ormai orfana dei raggi del tramonto che dovevano averne acceso i contorni fino a pochi minuti prima con i loro riflessi infuocati. Candy si stava strofinando gli occhi con il dorso di una mano, come una bambina.
Eleanor accese l’abat jour di Tiffany in vetro soffiato elegantemente modellata con un raffinato ma allegro fregio di tulipani, e lasciò che una calda luce filtrasse attraverso il vetro delicatamente istoriato e illuminasse la stanza. Le bastò solo una veloce occhiata al volto di Candy per rendersi conto che la ragazza aveva pianto, e molto. Il viso, frettolosamente strofinato, era ancora più arrossato di quanto i soli singhiozzi avessero causato, gli occhi luccicavano delle lacrime che ancora premevano per fluire all’esterno e lo sguardo con cui Candy la accolse era il più profondamente commosso che avesse mai visto in vita sua.
Eleanor Roosevelt non aveva mai avuto un istinto materno particolarmente sviluppato, forse a causa della rigida e anaffettiva educazione che aveva ricevuto sin da bambina, poi perpetuata dalla suocera dopo le nozze con Franklin D.
Nonostante avesse avuto sei figli, di cui uno morto pochi mesi dopo la nascita, aveva spesso dichiarato come non le fosse mai riuscito naturale entrare in sintonia con i bambini o divertirsi in loro compagnia.
Eppure, rifletté Eleanor, quella dolce ma determinata ragazza così aperta e forte ma capace di profonde fragilità, che tra l’altro possedeva il dono naturale di entrare in sintonia con chiunque incontrasse, l’aveva completamente conquistata. Non era affetto materno, il suo, ma una sincera stima e ammirazione per ciò che quella ragazza rappresentava: come una sorta di suo alter ego leggiadro e solare, laddove lei era sempre stata animata solo da ideali e determinazione feroci.
- Candy cosa ti succede, ragazza mia? Cosa è successo? – le domandò precipitandosi verso la finestra per sedersi accanto a lei e poggiarle le mani sulle spalle, in quello che per lei rappresentava uno dei più grandi gesti d’affetto avesse mai concesso a persona non appartenente alla sua famiglia.
Candy la colse però completamente di sorpresa lasciandosi andare contro di lei e abbracciandola con trasporto, mentre le lacrime ricominciavano a scorrerle sul viso bagnandole il vestito senza che riuscisse a far nulla per frenarle. Singhiozzava apertamente adesso e Mrs. Roosevelt cominciava ad essere veramente preoccupata, non riuscendo a capire quale emozione provocasse quella reazione.
- Candy ti prego aiutami a capire, cosicché io possa aiutarti.
Eleanor le passò una mano sui morbidi riccioli con un gesto affettuoso.
- Mi spiace, Mrs. Roosevelt… io… io non riesco a… - Candy cercava di articolare le parole, ma i singhiozzi spezzavano irrimediabilmente ogni frase.
Dopo qualche minuto, durante i quali Eleanor era rimasta con lei in silenzio, continuando ad accarezzarle i capelli, la frenesia del pianto finalmente cominciò ad attenuarsi e Candy sollevò il viso arrossato e stravolto a guardare Mrs. Roosevelt. Quest’ultima le porse un fazzoletto cifrato di delicata batista bianca, lasciando che si tamponasse gli occhi e il viso e riprendesse un contegno più tranquillo, prima di tornare a domandarle:
- Candy, bambina, da diversi giorni sei molto triste. Da quella sera al teatro New Amsterdam, per l’esattezza. Ma non ti avevo ancora vista in preda a un pianto così violento. Non voglio violare la tua privacy, cara, ma non puoi stupirti se sono molto preoccupata per te. Non vuoi dirmi cosa ti è accaduto?
Candy, per la prima volta dall’ingresso della donna nella stanza, aprì il viso ad un sorriso e le rispose con semplicità disarmante, sorprendendola completamente:
- Non sono triste, Mrs. Roosevelt. Sono felice!
Gli occhi di Eleanor si sgranarono per lo stupore. Quella ragazza decisamente sapeva come stupirla! Da giorni si aggirava come un’anima in pena, l’aveva appena trovata straziata dalle lacrime da sola al buio, e le diceva di essere felice? Eppure, a ben guardare il bagliore adesso splendente nei suoi occhi verde acqua, si sentiva propensa a crederle.
- Ecco... io ho ricevuto questa lettera, Mrs. Roosevelt - spiegò Candy porgendole il prezioso foglio che teneva ancora stretto tra le dita e dal quale, se fosse stato per lei, non si sarebbe più separata.
- Bambina mia, innanzitutto chiamami Eleanor, vuoi? – Candy annuì e la donna proseguì, prendendo il foglio tra le mani – posso leggerla?
Candy osservò la donna. L’ammirazione che aveva nutrito per lei fin dal primo momento si era lentamente evoluta in un affetto sincero e in una fiducia totale. A Candy Eleanor Roosevelt ricordava, per determinazione e forza d’animo, la sua amata suor Maria.
- Sì, Eleanor, la prego. Ho bisogno di confidarmi con lei!
Eleanor lesse rapidamente le stringate ma intense righe che in poche e semplici parole raccontavano una storia. Fu trafitta al cuore dal complesso passato di cui riusciva a intravedere i fili che si annodavano dietro quelle scarne frasi, scritte da qualcuno che era mirabilmente riuscito a trasmettevi amore, desiderio, nostalgia, speranza. Come solo quando si parla col cuore si può osare.
Alzò uno sguardo interrogativo ma dolce verso Candy, aspettando che la ragazza le concedesse di accedere agli altri pezzi di quel mosaico di cui cominciava lentamente ad intravedere il formarsi dell’immagine complessiva.
- Quest’uomo che ti scrive, Candy… è un amore del tuo passato?
- E’ l’unico amore del mio passato, del mio presente e il solo che riesca a immaginare nel mio futuro, Eleanor – rispose Candy con una semplicità disarmante nella sua assolutezza – lo amo da quando è entrato nella mia vita, sei anni fa. Mi ha fatto scoprire cosa sia l’amore, e capire che prima e dopo di lui per me non può esserci altro che la sua attesa, prima, e il suo ricordo, poi.
Eleanor era profondamente colpita dalla profondità dei sentimenti espressi così semplicemente e con voce chiara e sicura da quella dolce ragazza. Si chiese come e perché un sentimento così intenso e totale fosse finito.
- Quando lo conobbi, l’amore che conoscevo era fatto di tenerezza e protezione, come quelle di cui mi hanno sempre circondata Miss Pony e suor Maria. O della dolcezza e delle attenzioni infinite del mio Anthony. Di comprensione e vicinanza, come quelle che mi ha sempre riservato il mio Albert. Terence invece è entrato nella mia vita e ha sconvolto ogni mia certezza, ferendomi con gli aculei con i quali si era sempre protetto dal mondo prima di spogliarsi da loro, uno ad uno, rivelandomi ogni volta quale meraviglioso mondo vi tenesse celato dietro. Terence mi ha privata di tutte le mie difese, nello stesso tempo facendomi sentire al sicuro come non lo ero mai stata prima…
E così, Candy cominciò a raccontare a Eleanor tutta la storia sua e di Terence, da quel fatale incontro nella nebbia del Mauretania ai giorni della St. Paul School. Di come il ribelle e scontroso ragazzo che si muoveva sul filo della misantropia avesse incontrato la ragazza più sopra le righe della scuola, in una terra di nessuno frequentata solo da loro, e di come si fossero miracolosamente incastrati, in modo che le asperità dell’uno coincidessero perfettamente con le convessità dell’altra, in un incrocio perfetto che in un certo senso aveva salvato entrambi.
Raccontò dell’emozione di quel primo bacio che ancora sentiva bruciare sulle labbra, insieme al rimpianto per averlo respinto proprio nel momento in cui lui si dava completamente a lei, ingenua e immatura qual era allora.
La voce le si incrinò quando raccontò della loro prima separazione sul molo di Southampton, ancora una volta nella nebbia, e dei lunghi mesi in cui i loro cuori si erano parlati a distanza.
Quando giunse a narrare dei giorni a New York in quel lontano inverno del 1914 e dell’incidente di Susanna, della sua decisione di allontanarsi dall’uomo che amava per dargli la possibilità di fare l’unica cosa giusta, e salvarlo dai rimorsi che gli avrebbero avvelenato la vita, se avesse abbandonato colei che gliel’aveva salvata, la stanza era ormai satura di un carico di emozioni così forte che entrambe le donne rabbrividirono.
Un silenzio avvolgente e totale seguì lo spezzarsi della voce di Candy dopo che ebbe rievocato il suo cammino fino alla Grand Central Station e il suo rientro a Chicago, col cuore frantumato in più pezzi dei cristalli contenuti in ciascuno dei fiocchi di neve che avevano accompagnato il suo dolente cammino fino al treno.
Eleanor, la donna di ghiaccio mai scalfita dall’ombra di una emozione, aveva ascoltato Candy sempre più rapita dalla forza, dal coraggio, dall’amore di quei due giovani. Due anime gemelle che, dopo essersi trovate nella nebbia, avevano cercato in tutti i modi di ribellarsi al destino che sembrava accanirsi su di loro per separarli ad ogni costo, arrendendosi solo di fronte all’ineluttabile sentenza consegnata loro da Susanna Marlowe su quella terrazza, come ad un appuntamento scritto da tempo al quale nessuno dei tre aveva potuto mancare.
Adesso capiva anche perché Candy fosse rimasta talmente colpita quella sera, nel ritrovare di nuovo le tracce di quella donna e di quel passato nel suo presente, ancora così totalmente pieno di Terence Graham.
Candy riprese il suo racconto spiegando perché vedere La principessa sbagliata l’avesse tanto turbata, e come quel cambio di prospettiva sulla donna nelle cui mani aveva messo il suo tesoro più prezioso l’avesse riempita di panico per la sorte di Terence, che invece aveva sempre ritenuto al sicuro dopo Rocktown e il suo ritorno al successo. Di come il senso di colpa per quella scelta, fatta su quella terrazza per amore, e forse invece portatrice di sofferenza per tutti e tre, la stesse schiacciando e le avesse impedito di dar voce al suo bisogno di correre da lui.
- ...e poi, proprio mentre cercavo di raccogliere le mie forze per cercarlo e chiedere il suo perdono, se non più il suo amore, lui è arrivato fino a me con questa lettera e quest’unica frase: “I miei sentimenti non sono cambiati”.
- Candy, un amore come quello che tu mi hai descritto non può avere altro epilogo che questo, non credi? Se dopo tutti questi anni Terence torna a te per dirti con parole così semplici e chiare che ti ama ancora è perché lui è assolutamente certo che tu sei in grado di leggere il mondo che si nasconde dietro quella semplice frase. E questa certezza è solo di due anime gemelle, che si comprendono anche senza bisogno di parole.
- Io… io sono terrorizzata, Eleanor.
- Cosa ti spaventa, bambina? – Eleanor era disorientata.
Candy sospirò, prima di dar voce alle sue più grandi paure di sempre.
- Ho paura che non saremo capaci di superare la rinuncia che gli ho imposto. Ho paura delle conseguenze, e di come siamo cambiati in questi anni.
Eleanor si sistemò meglio sui cuscini del bovindo e cercò le parole giuste per rispondere.
- Sai, Candy, io e Franklin D. abbiamo avuto una storia molto travagliata. Quando ci siamo innamorati eravamo molto giovani. Sebbene fossimo cugini ci siamo veramente scoperti solo quando io avevo diciotto anni. Mia suocera Sarah Ann, contraria al matrimonio, riuscì a farlo rimandare per sedici mesi; e nel vano tentativo di farmi dimenticare da suo figlio, lo spedì a fare un lungo viaggio con degli amici in giro per il mondo. Sai qual è stato l’unico effetto di questo tentativo, Candy? Che al ritorno dalla separazione che ci era stata così… stupidamente imposta ci siamo sposati immediatamente, senza aspettare più un solo attimo. L’amore esige solo amore, Candy. Tu e Terence avete avuto la vostra più che sufficiente dose di separazioni e prove, bambina. Lui era con te su quella terrazza. Ti ha lasciato decidere per tutti perché è quello che avrebbe deciso lui stesso, se ciò che gli era accaduto non lo avesse completamente stravolto e paralizzato, come sarebbe successo a qualunque diciassettenne nelle stesse circostanze. In effetti, quello che stupisce, qui, è la forza che tu sei riuscita a tirar fuori, in quel momento. Nessuno di voi aveva un’idea di ciò che sarebbe stato il futuro fuori da quell’ospedale, e avete dovuto decidere della vostra vita con i pochi elementi che avevate a disposizione in quel momento. Il principale dei quali era una donna senza una gamba che aveva appena tentato il suicidio sotto i tuoi occhi. Sì, Candy, tu hai deciso per tutti, ma di certo non sarò io a dirti che hai fatto male a decidere. E se Terence, dopo tutti questi anni, e qualunque sia stata la sua vita, ti dice che i suoi sentimenti non sono cambiati è perché lui per primo comprende che la tua decisione non fu sbagliata, allora. Per quanto dolore abbia portato. Non saprai mai, Candy, quanto, e per chi, ne avrebbe generato una diversa. E questo è un fatto. Puoi solo cogliere la seconda preziosa opportunità che la vita e l’amore ti stanno offrendo. Non dimenticando – concluse Eleanor con uno sguardo deciso che perforò Candy come una lama – che se la rifiuti decidi ancora una volta anche per lui! E questa volta non solo tu, ma anche chiunque conosca la vostra storia, e soprattutto Terence, potrà più perdonarti!
Candy fissava Eleanor. Le sembrava che ogni sua parola avesse definitivamente liquefatto ogni suo incubo, e che la mettesse con semplicità di fronte alla verità profonda delle cose. Adesso si sentiva pronta per quel passo.
Terence la stava chiamando, come quella sera su quella scala.
E stavolta non c’era un solo motivo al mondo per cui lei non dovesse voltarsi al suo richiamo.
- Allora… allora… lei pensa che potrei scrivergli una lettera?
Eleanor alzò gli occhi al cielo, con uno sguardo esasperato.
- Per l’amor del cielo, Candy! Quanto tempo ancora vuoi sprecare, dopo tutti questi anni? – Candy spalancò gli occhi, sorpresa dalla veemenza della risposta. Eleanor era sempre stata una donna d’azione e non era solita frapporre inutili e dispersivi indugi al raggiungimento dei propri obiettivi – Vivete nella stessa città, adesso! Potresti uscire di qui in questo momento e raggiungere casa sua nel giro di un quarto d’ora, lo sai bambina?
La ragazza voltò lo sguardo alla finestra, scrutando il buio della dolce sera primaverile, la sua lieve brezza che portava fin lì la fragranza di natura in fiore proveniente da Central Park. Le sembrava che il suo fruscio sussurrasse delicatamente al suo orecchio la parola “rinascita”.
- A…Adesso? – balbettò però, improvvisamente terrorizzata.
Eleanor scoppiò in una risata di cuore, la prima da quando era entrata in quella stanza. O forse la prima che Candy le avesse mai sentito sgorgare dall’anima. Mrs. Roosevelt non sarebbe certo passata alla Storia per la sua simpatia, pensò Candy, ma la Storia non avrebbe mai saputo come le fosse stata vicina quella sera, né come la sua anima camaleontica sapesse assumere la forma più adatta a dare conforto o a spronare con energia. Candy quella sera era una persona bisognosa d’aiuto e, come sempre in tutta la sua vita, Eleanor Roosevelt non era mai insensibile alle invocazioni d’aiuto dei più deboli.
- No, mia cara bambina, meglio di no: la tua faccia è un disastro, con tutte le lacrime che hai versato. Dopo tutti questi anni Terence non avrà di certo voglia di trovarsi dinanzi uno spaventapasseri con due palle verdi al posto degli occhi, non credi?
Candy sbatté le palpebre, perplessa. Non aveva mai visto né udito Eleanor in quelle vesti sardoniche e divertenti. Aveva il sospetto che la stesse addirittura prendendo in giro, ma era troppo stravolta dalle emozioni di quella giornata per approfondire tale sensazione.
- E quindi Eleanor, lei cosa suggerirebbe?
- Suggerisco che tu faccia un bel bagno caldo, mangi qualcosa e poi vada subito a letto per farti un bel “sonno di bellezza”, quello che mia suocera consiglia sempre come unico trucco di beltà per le giovinette – sì, decisamente Eleanor era impazzita, fu la conclusione di Candy ascoltandola imitare Sarah Ann con la voce in falsetto – Domani andremo da Bergdorf Goodman’s in Fifth Avenue a comprare il più strepitoso dei vestiti da sera. Dopo tutti questi anni credo che il nostro divo di Broadway si sia proprio meritato la doverosa attenzione alla confezione nella quale ti presenterai a lui… Sebbene io sia più che convinta che l’unica cosa che conterà per lui sarà la sua dolce ragazza, no?
Eleanor era ormai un fiume in piena.
- E dovrei andare a casa sua vestita da sera? – provò timidamente a domandare Candy, perplessa e sopraffatta da quel profluvio di parole.
- No, Candy, non a casa sua – Mrs. Roosevelt, ormai totalmente posseduta da un’altra donna, le fece l’occhiolino – il mio buon amico Robert Hathaway ci ha fornito inconsapevolmente la cornice per l’incontro perfetto!
Eleanor trasse dalla tasca del vestito grigio, certamente non all’ultima moda ma di sicuro acquistato da Bergdorf Goodman’s, ciò che in origine voleva regalare a Candy quale semplice diversivo per distrarla dalla vena malinconica degli ultimi tempi, e che adesso si rivelava invece quale più provvidenziale degli incastri.
Candy prese in mano quattro biglietti per la rappresentazione al teatro Stratford dell’indomani sera. Si trattava della gran chiusura della stagione, dopo la trionfale tournée in giro per gli USA appena conclusasi.

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- Non occorre che io ti dica chi interpreterà il ruolo di Benedick, immagino! – sorrise Eleanor – E non credo proprio che Robert Hathaway, il regista nonché vecchio compagno ad Harvard di mio marito, avrà nulla in contrario se al termine della rappresentazione gli chiederemo il permesso di recarci dietro le quinte nel camerino del protagonista, per complimentarti con lui! Credi che Terence preferisca ricevere da una sua ammiratrice un mazzo di rose o di tulipani, mia cara?


Per Diana!
Questa festa improvvisata si mette bene.*



*Romeo e Giulietta. Atto I, Scena V

FINE CAPITOLO QUINTO



Edited by cerchi di fuoco - 10/8/2013, 22:07
 
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Questo brano è dedicato alla mia dolce Janisuccia, che da due settimane soffre della sofferenza di Terence.

Capitolo 6°: Stairway to heaven


6stairwaytoheaven


New York,
01 maggio 1919

Ore 09.00 a.m.


Questa pazienza imposta
e la libera esplosione della mia rabbia
scontrandosi dentro di me
mi fanno tremare per tutto il corpo…
*



Uscendo dal suo appartamento, intenzionato a sfogare la propria tensione nervosa in una lunga camminata attraverso Manhattan, e mescolandosi così al caos multicolore e brulicante di vite delle strade di New York, Terence Graham Granchester si ritrovò a pensare che quel giorno avrebbe agevolmente potuto illuminare lui stesso tutte le insegne della Great White Way semplicemente con l’elettricità generata autonomamente dal suo corpo e dalla sua mente, facendo così risparmiare un bel po’ di dollari alla compagnia elettrica newyorkese.
Da quando aveva lasciato cadere la lettera indirizzata alla casa di Pony nella buca delle lettere dieci giorni prima, non aveva avuto più un attimo di requie. Ogni minuto di quei dieci giorni era stato minuziosamente passato al setaccio per accertarsi che fosse trascorso, prima di rassegnarsi ad archiviarlo come un altro minuto in cui non aveva ricevuto alcuna notizia da Candy.
I pensieri di Terence viaggiavano alla velocità della luce e diverse volte aveva coniato nella sua mente febbrile tutta una serie di nuovi epiteti indirizzati al servizio postale americano ed al suo incedere degno di una lumaca, tutti impronunciabili in presenza di orecchie virginali, e diversi dei quali avrebbero destato sconcerto persino in alcuni dei più malfamati bar di Brooklyn. In un paio di occasioni si era anche recato presso il post office di East 14th Street per accertarsi che non vi fosse stato alcun intoppo nel servizio di smistamento della posta, e verificare se per caso una lettera per lui non fosse stata rinvenuta a qualcuno degli altri otto milioni circa di indirizzi che New York vantava oltre al suo.
In quel radioso primo giorno di maggio in cui la città risplendeva come una sposa la mattina delle proprie nozze, e tutti i passanti avvolti dalla sua luce sembravano più sorridenti e immersi in piacevoli pensieri, il giovane bruno disinvoltamente vestito con giacca di tweed leggero e pantaloni spezzati sui toni del beige che incedeva a passo marziale risalendo Broadway, sprizzando impazienza da ogni poro e con gli occhi blu cobalto accesi da un ansia feroce e quasi febbrile, strideva terribilmente con il contesto circostante. Era forse per questo che molti dei passanti con i quali si era scontrato lungo il suo cammino non avevano osato proferire lamentela, dopo avergli lanciato uno sguardo indignato ed averne ricevuto in risposta uno tagliente come una lama blu.
Terence sapeva che Miss Pony e Suor Maria, alle quali aveva indirizzato la lettera di accompagnamento a quella per Candy, avrebbero seguito le sue raccomandazioni di non consegnare la lettera alla ragazza qualora lei avesse ormai contratto un legame con qualcuno. Ma anche così… gli avrebbero pur scritto per farglielo sapere, no?
Ricordava perfettamente il suo primo e unico incontro con le due eccezionali mamme di Candy, in occasione del suo pellegrinaggio alla casa di Pony, appena tornato in America dopo aver lasciato il collegio. Era stato mosso da un’invincibile forza a conoscere i luoghi da cui proveniva il suo angelo, come se sentisse di dover mantenere una promessa tacitamente fattale prima di lasciare la St. Paul School. Sentiva fortissimo il bisogno di entrare in contatto con quel pezzo della vita di Candy di cui lui non aveva fatto parte, avvertendone quasi con dolore un senso di esclusione. Quel passato che ancora viveva tanto in lei: nell’entusiasmo con cui si arrampicava sugli alberi volando di ramo in ramo, nella fiducia (ai suoi occhi esasperante) che concedeva indistintamente ad ogni essere umano, nella sua capacità di perdonare sempre. La sua fede, il suo coraggio, il suo sorriso, le sue lacrime…. tutto aveva avuto origine su quei pendii dell’Indiana per poi condurla fino a lui, a Londra, su una fedele riproduzione di quella collina che dava lustro alla profonda provincia americana, ricoperta però di narcisi anziché di ginepro come l’originale.
Era tutto ciò che aveva fatto di lei la ragazza di cui si era innamorato con tutto se stesso e che però rappresentava per Terence una pagina bianca, come un ultimo tassello da inserire tra le altre tessere per completare un meraviglioso mosaico.
Miss Pony e suor Maria erano esattamente come Candy gliele aveva descritte nei suoi ricordi commossi. Avendole conosciute, poteva comprendere bene da quale delle due fosse derivata a Candy quella inossidabile forza d’animo che la muoveva in ogni passo che faceva, e da chi invece la fede profonda nel futuro e nel prossimo. Si era sentito immediatamente a suo agio in compagnia di quelle due donne straordinarie, come non gli capitava mai con degli estranei… come gli era successo solo con Candy. E aveva capito che era come se lei fosse stata in quella stanza con loro quel giorno, a generare quella corrente d’affetto che aveva immediatamente legato le tre persone che l’amavano più di chiunque altro al mondo. Avevano parlato per gran parte del pomeriggio, sorseggiando tè e sgranocchiando biscotti mentre candidi fiocchi di neve cadevano incessantemente davanti alla finestra contribuendo, insieme al fuoco che ardeva scoppiettante nel camino, a creare un’atmosfera familiare che Terence non aveva mai assaporato prima in vita sua. Eccezion fatta per quel pomeriggio sospeso nel tempo durante il temporale a Granchester Manor… In quel momento aveva compreso perfettamente perché allora a Candy quell’atmosfera intima avesse immediatamente evocato la casa di Pony.
Nonostante l’ansia dominante, le sue labbra quasi involontariamente si atteggiarono a un dolce sorriso, come ogni volta che l’immagine di Candy minuscola e dolcissima, sperduta tra le morbide pieghe della vestaglia di seta di Eleanor e con la pelle illuminata dai caldi riflessi del fuoco, si presentava alla sua mente. Sentì ancora una volta la forza dirompente dell’amore per quello scricciolo biondo e quel riflesso verde smeraldo che a lui era sembrato fagocitare ogni altra fonte di luce nella stanza, compreso il riverbero ardente delle fiamme nel camino. E che aveva attirato il suo cuore a quello di lei con la forza irresistibile di una calamita a cui non aveva potuto, né voluto, opporre alcuna resistenza.
Dannazione! Perché ancora nessuna notizia dalla casa di Pony? Forse avrebbe fatto meglio a ripassare dal post office nel pomeriggio, prima di andare a teatro: probabilmente l’indirizzo sulla busta era sbagliato e…
Ma chi voleva prendere in giro?
A questo punto era evidente che Candy non aveva risposto alla sua lettera. Se la cosa non gli avesse provocato quella indicibile fitta di dolore proprio al di sotto dello sterno, si sarebbe certamente dato dell’idiota e accusato del fatto che era tutta colpa sua. Ma ormai aveva esaurito persino le energie per dare sfogo alla rabbia nei confronti di se stesso.
Attraversò la Fifth Avenue all’altezza della 57th Street talmente immerso in questi lugubri pensieri che per poco non si fece investire da una Isotta Fraschini Tipo 8 nera fiammante incedente sulla corsia opposta alla sua. Riuscì appena in tempo a fare un balzo in avanti e ad evitare il paraurti anteriore dell’auto.
Quell’incidente sfiorato servì a fargli riacquistare un barlume di lucidità e, scrollando il capo, Terence raggiunse la sicurezza del marciapiedi di fronte a lui prima di lanciare un’occhiata all’auto, il cui autista non si era verosimilmente accorto di nulla e procedeva tranquillamente in direzione opposta lungo Fifth Avenue, allontanandosi. Gli sembrò che sul sedile posteriore tre figure femminili fossero immerse in fitta conversazione.
Ora basta! Doveva recuperare la concentrazione necessaria per calarsi nella parte di Benedick, anche se quella sera avrebbe preferito di gran lunga un Amleto o, meglio ancora, un Otello che gli consentisse almeno di dar libero sfogo alla frustrazione ed alla gelosia verso l’ignoto marito di Candy che si permetteva di tenerla lontana da lui.
Strinse i pugni e chiuse gli occhi, facendo un profondo respiro per tornare in sé. Quando li riaprì, fu attratto irresistibilmente da un bagliore di quello stesso tono di verde che un tempo aveva illuminato lo studio del castello avito in Scozia, e che tuttora gli sembrava continuasse a guidarlo come un faro nella nebbia.
Si avvicinò alla vetrina di Tiffany per ammirare il meraviglioso paio di orecchini in vetrina, che lo avevano richiamato con la forza della loro luce e dei suoi ricordi: erano due stupendi e raffinati pendenti, costituiti ciascuno da una montatura in platino a forma di goccia, che racchiudeva incastonati al suo interno centinaia di minuscoli frammenti di smeraldo misti ad altrettanti brillanti, i cui riflessi trasparenti si mescolavano a quelli delle verdi pietre preziose. Quei monili semplici e raffinati spiccavano sul velluto color crema della vetrina, dominando trionfalmente la scena con la propria semplice maestosità rilucente e cangiante.
A Terence si spezzò il respiro mentre li ammirava in silenzio. Quella luce verde lo ipnotizzava e lo riportava indietro nel tempo. Allo stesso tempo, ebbe un effetto benefico sui suoi nervi scossi dall’attesa e dall’impazienza.
Senza riflettere e facendosi guidare solo dall’istinto, varcò l’elegante porta girevole di legno istoriato ed entrò da Tiffany.

_______________________


Ore 11.30 a.m.

bergdorftiffany



Candy viveva dalla sera prima in una sorta di limbo. La lunga chiacchierata con Eleanor Roosevelt e la consapevolezza che entro poche ore avrebbe rivisto Terence avevano ovviamente fatto venir meno qualsiasi possibilità che lei chiudesse occhio, quella notte. Mrs. Delano Roosevelt sarebbe di certo stata molto scontenta di lei… Alle sei del mattino non era più riuscita ad aspettare oltre e si era recata in camera di Patty, invece completamente immersa nel suo “sonno di bellezza”.
Quando, con gli occhi ancora semi-chiusi, aveva ascoltato cosa era successo e Candy le aveva porto la lettera di Terence, Patty si era però all’improvviso sentita sveglissima. Si era lanciata sull’amica, seduta sul bordo del letto accanto a lei a fissarla con occhi pieni di attesa per la sua reazione, e l’aveva abbracciata con tale impeto che entrambe erano finite riverse sul letto, allacciate l’una all’altra come ai tempi dei loro slanci di affetto alla St. Paul School.
- Oh Candy, lo sapevo, lo sapevo! Terence ti ama ancora, non poteva essere altrimenti! Chiunque vi avesse visti insieme a Londra non avrebbe potuto nutrire il minimo dubbio! – le disse eccitata, non appena si furono risollevate tra le risate.
- Patty, a voler essere precise, in nessun punto di questa lettera si parla di “amore”. Anzi, a dirla tutta, io quelle parole me le sono ripetute nella mia mente mille volte, ogni singola volta in cui il suo volto si è presentato alla mia mente, stanca di ricordarlo anziché di vederlo… ma mai sono state pronunciate. L’unica cosa che ho sempre sentito urlare tra noi è la loro assenza – Candy aveva un tono di nuovo incerto e bisognoso di conferme, adesso.
La lunga notte insonne e la tremillesima lettura di quel foglio, di cui conosceva ormai ogni dettaglio della trama filigranata, avevano alla fine, complice la stanchezza delle veglia, rinfocolato le sue paure e le sue ansie.
Patty non ci vide più:
- Sì? E dimmi, Candy: quando avrebbe dovuto presumibilmente Terence dirti che era innamorato di te? Dopo che lo hai schiaffeggiato per averti baciato? O magari avrebbe potuto ritenere che il momento più appropriato potesse essere urlartelo dal predellino del treno quando vi siete incrociati per pochi secondi, mentre lui ripartiva da Chicago, avendo passato tutta la notte davanti all’ospedale per aspettarti? Magari se tu, testarda come sei, non ti fossi incaponita a girare per tutti gli alberghi di Chicago, lo avresti trovato lì e avresti potuto sentirtelo dire! Oh, no, aspetta! Forse avrebbe potuto aggiungere una postilla al biglietto di sola andata per New York che ti mandò, se solo lo avesse sfiorato il pensiero che potessi essere così miope da non leggerlo da sola tra le righe, in quel messaggio così chiaro. Oppure, Candy, perdonami la franchezza nel rievocare quel momento così doloroso, avrebbe potuto dirtelo quando vi siete visti qui a New York e il suo cuore era colmo di ansia, dubbi e angoscia per quello che gli era successo e che avrebbe distrutto chiunque? In quale di questi momenti esattamente avrebbe dovuto dirtelo Candy? Ah, e scusa se te lo chiedo, perché mi sfugge: ma tu perché non glielo hai mai detto in nessuna di queste interessanti circostanze?
Gli occhi di Patty fiammeggiavano adesso. Non c’era nemmeno più l’ombra della timida ragazza terrorizzata da tutto e tutti che Candy aveva conosciuto adolescente, scacciata da una donna consapevole e piena di personalità, in quel momento infiammata dalla tendenza di Candy a cadere nell’autolesionismo e nei dubbi figli del senso di colpa, ogni volta che pensava alla sua travagliata storia con Terence.
Candy la fissava con la bocca atteggiata ad un ovale perfetto e sconcertato. I suoi occhi erano pieni di sorpresa per le frasi dolorose come schiaffi che Patty le aveva appena scagliato addosso. Le labbra cominciarono a tremarle e Patty temette di avere esagerato. Dispiaciutissima per averla spinta alle lacrime, volendo invece solo scuoterla, stava per chiederle scusa per essersi spinta troppo oltre, quando fu interrotta da uno dei cristallini scrosci di risa che solo Candy sapeva produrre. La sua amica cominciò a ridere irrefrenabilmente, con il corpo squassato da singulti d’ilarità che non riusciva a trattenere. Rovesciò la testa indietro ridendo a più non posso, prima di ributtarla avanti per nascondere il viso tra le mani, continuando a ridere sonoramente, il suono soffocato dalle mani sulla bocca.
Patty la osservava basita, chiedendosi se la lettera di Terence non fosse stata un po’ troppo per i nervi già scossi di Candy. Di tutte le possibili reazioni, di sicuro quella era la più imprevedibile e scioccante. Ma durò poco. Come sempre, la risata di Candy ebbe la meravigliosa capacità di contagiare chiunque la ascoltasse e quindi anche Patty cominciò ad essere scossa, prima da piccoli singulti ancora controllabili e poi completamente travolta dallo stesso empito di risate squassanti delle quali l’amica era già preda.
Per diversi minuti rimasero entrambe lì, sedute sul letto a ridere… ridere senza riuscire a fermarsi e quasi senza riuscire a respirare, le lacrime che scorrevano a fiumi sui loro visi. Ma per una volta non erano lacrime di disperazione. Erano lacrime che davano sfogo a ore, anzi ad anni, di tensione e tristezza, in quella complice vicinanza che solo ridere di cuore accanto ai veri amici sa dare.
- Oh… Patty…oh, mio Dio! – provò finalmente ad articolare Candy quando le risate cominciarono ad attenuarsi e il respiro tentava di regolarizzarsi dopo i cinque minuti di follia che le avevano colpite.
- Candy, io..
- Non dire niente, Patty, ti prego – disse Candy, dopo essersi asciugata le lacrime con il dorso della mano e la manica della vestaglia e prendendole le mani tra le sue, ormai quasi calma – E’ stato meraviglioso, amica mia. Perché nessuno mi ha mai fatto vedere le cose in questo modo? Cielo, lo sai che hai proprio ragione?
- Candy, non ti avrei mai detto quello che ti ho detto se tu non avessi in mano quella lettera con quel richiamo. Avete sofferto tanto, avete avuto tante occasioni mancate. Adesso c’è un’occasione da cogliere invece, per dirvi finalmente quelle parole che il destino ha sempre voluto mettere a tacere.
Candy sospirò, finalmente tranquilla.
- Hai ragione Patty. Sai una cosa? Cascasse il mondo, io quelle parole le pronuncerò prima di domani! E vedremo cosa avrà da replicare il signor Terence Granchester, il destino, o chiunque altro, al riguardo!

E così era cominciata quella frenetica giornata che le aveva viste caricate in macchina da Eleanor Roosevelt e condotte lungo Fifth Avenue fin nelle sale affrescate di Bergdorf Goodman’s.
Abituata alle botteghe senza troppe pretese di La Porte o, al massimo, ad una piccola boutique di Chicago a conduzione familiare nella quale si era sempre servita, mal sopportando l’opulenza dei saloni di haute couture presso i quali Annie non desisteva dai suoi tentativi di farla vestire, Candy rimase letteralmente abbagliata entrando nell’imponente atrio di uno dei più chic negozi di abbigliamento di New York, famoso in tutto il mondo per le grandi firme che esponevano e vendevano i propri capi unici solo tra quelle pareti in tutti gli Stati Uniti.
Era tutta una magnificenza di oro, stucchi raffiguranti foglie di acanto, enormi specchi sfavillanti e lampadari di cristallo. Tavolini di mogano lucido esponevano accessori e gioielli unici, alternandoli a giganteschi mazzi di fiori esposti con il più raffinato buon gusto in vasi di Tiffany. Ciò che più colpì Candy entrando in quel luogo fu la luce, che sembrava moltiplicarsi da ogni goccia di cristallo dei lampadari o da ogni riverbero delle ampie vetrate dalle quali filtrava la luce del mattino ormai inoltrato.
Candy e Patty erano affascinate e intimidite da tanta raffinata opulenza. Gli occhi sgranati per lo stupore e l’ammirazione, si guardavano attorno abbagliate. Eleanor Roosevelt, con il suo semplice e un po’ demodee tailleur blu e il cappellino classico era la più lontana delle tre dalle atmosfere a-la-page di quei saloni, ma nello stesso la più completamente a suo agio. D’altra parte, fin da bambina era stata abituata a frequentare i più esclusivi salotti e santuari della privilegiata aristocrazia newyorkese e, pur avendo maturato una personalità individualista e anticonformista, non c’era niente nell’affettato sfarzo di Bergdorf Goodman’s che potesse metterla a disagio.
- Non posso credere che questa sia una boutique. Sembra una residenza reale… – mormorò Patty, intimidita.
- E’ quello l’intento, mia cara, non farti abbagliare. E’ fumo negli occhi. Ma, d’altra parte, ho avuto più volte prova di quanto un abito di Chanel possa conferire credibilità a qualsiasi oratrice che perori la causa della riduzione dell’orario di lavoro per i bambini, agli occhi una platea di finanziatori alto-borghesi – rispose Mrs. Roosevelt con tono pratico.
Avevano appena avuto il tempo di guardarsi intorno, quando furono raggiunte da una donna che sembrava uscita dalla copertina di Vogue, tanto era il concentrato di glamour che trasudava da ogni dettaglio della sua figura.
Indossava un morbido abito color crema dalla linea sciolta e raccolta sotto la vita da una invisibile cintura, i cui lembi formavano due morbide e seriche code sinuosamente ondeggianti ad ogni movimento. I capelli di un artificiale ma raffinato biondo platino erano tagliati all’ultima moda sotto le orecchie, acconciati in onde scolpite una per una, sulle quali era adagiato con presunta semplicità, in realtà frutto di accurati studi dinanzi allo specchio, una cloche di morbido tessuto operato, dell’identico colore dell’abito, abbellita da un fermaglio di agata. Una lunga e sottile catena dorata scendeva dal collo fino alla vita, terminando in un ciondolo ovale dall’effetto molto drammatico e dello stesso colore del fermaglio. Sul viso, truccato alla perfezione, la tonalità eburnea dell’incarnato estremizzava il contrasto con la macchia nera costituita dall’ombretto e dalla matita scura attorno agli occhi, nonché con il tocco scarlatto delle labbra.
Tanto effetto scenico non poteva che essere completato da una pronuncia affettata e straordinariamente ammaliante, con una erre perfettamente arrotata che nascondeva abilmente tra le sue cadenze un tocco servile, pur senza renderlo volgarmente troppo evidente:
- Benvenuta Madame Roosevelt, sono lieta di rivederla. Come sempre è un vero piacere averla nostra ospite.
- Buongiorno Celia, grazie. La trovo bene.
- Se mi avesse fatto sapere che sarebbe venuta a omaggiarci della sua presenza, avrei organizzato per farle già trovare tutto pronto, Madame. Ma faremo in modo di soddisfarla comunque al meglio.
- Ne sono certa Celia. In realtà non sono qui per me stessa: il guardaroba che abbiamo rifatto l’anno scorso va benissimo. E d’altra parte solo ieri sera è sorta l’esigenza di questa nostra improvvisata. Oggi vengo in veste di accompagnatrice di queste due fanciulle, che sono certa sarà per lei più piacevole vestire di quanto non potrei essere io con i miei gusti noiosi e ripetitivi.
Miss Hungtinton, che vista da vicino appesantiva la sua età di almeno dieci anni, dimostrandosi forse più vicina per età a Mrs. Roosevelt, anziché la fresca ventenne che a Candy era sembrata mentre si avvicinava loro, si volse verso lei e Patty non smarrendo neanche un frammento della sua espressione deliziata.
- Oh, queste due Cherie Mademoiselles sono vostre parenti, madame? Sarà un vero piacere trovare qualcosa per loro. Abbiamo dei meravigliosi nuovi arrivi da Parigi che mi sembrano veramente perfetti! – cinguettò Miss Huntington, con la erre più arrotata che mai
- La signorina Patrizia O’Brien è la fidanzata di mio nipote, mentre la signorina Candice Andrew è una mia cara amica, Celia.
- Ooooh! Forse gli Andrew di Chicago, Mademoiselle Candice? – chiese una estasiata Miss Hungtinton, la quale per lavoro si teneva aggiornatissima sulle vicende di tutti i più importanti clan degli Stati Uniti.
- Ehm… sì, in effetti, Miss Celia. Sono molto felice di fare la sua conoscenza - rispose Candy, sempre imbarazzata nel riconoscere la propria appartenenza a quell’importante lignaggio, cosa a cui ancora non aveva fatto l’abitudine dopo tutti quegli anni.
- Che meraviglia! Sarà un vero piacere per me dedicarmi a voi, Mademoiselle! – esclamò Celia Hungtinton, la quale veniva pagata a commissione.
- Questa serata sarà un’occasione speciale, e la nostra Candy ha bisogno dello più straordinario abito da sera che lei possa scovare per noi, cara Celia – spiegò Eleanor.
- Se posso dirlo, Madame, siete proprio nel posto giusto! Andiamo al piano superiore, prego, Madame et Mademoiselles. Sono certa che sapremo trovare l’abito giusto.

Dopo circa un’ora di prove, Mrs. Roosevelt e Patty, che aveva già scelto un delizioso e semplice abito verde acqua a balze sovrapposte morbide e leggere impalpabili come seta, erano sprofondate su un morbido divano di velluto bianco, intente ad ammirare Candy che a intervalli regolari usciva dal camerino, sfoggiando di volta in volta una delle creazioni di Schiapparelli o delle firme francesi più cool del momento, che Celia Hungtinton le presentava in successione.
Era una profusione di tendenze dell’ultima moda, di tessuti lussuosi, scollature vertiginose, tagli a sbieco, rossi fuoco e verdi intensi, grigi perla e neri provocanti, che stava causando a Candy una ubriacatura di alta moda, senza però che fosse riuscita a sentirsi a suo agio in nessuno di quei capolavori di alta sartoria. Le scollature profonde che cominciavano a dettare le tendenze nell’ultimo anno la imbarazzavano, e non riusciva a immaginare di potersi presentare al cospetto di Terence (né di chiunque altro, se per quello) seminuda; gli eccessi di sbuffi e morbide gale la facevano sentire a disagio e addobbata come un albero di Natale. Cercò di fare comprendere ad una Celia Hungtinton ancora completamente padrona della situazione, nonostante la sonora bocciatura subita da due dei suoi abiti preferiti, uno Chanel e un Lanvin, cosa desiderasse:
- Non mi interessa che sia all’ultima moda, Miss Hungtinton… desidero qualcosa di semplice e confortevole. Un abito nel quale sentirmi a mio agio e che… ecco, che rispecchi la mia personalità.
Alla parola “personalità” Miss Hungtinton sembrò illuminarsi. Squadrò Candy, in sottoveste e calze color crema, reduce dall’ennesima prova. Guardò i suoi capelli biondi che le sfioravano le spalle, scendendo da un lato del viso ad accarezzarle la fronte, naturalmente mossi da morbide onde, per riprodurre le quali lei stessa avrebbe dovuto passare diverse ore davanti allo specchio armeggiando con il ferro arricciacapelli. Gli occhi di un chiarissimo e indescrivibile verde smeraldo, sembravano illuminare il piccolo camerino tappezzato di raso color avena. La silhouette esile ma aggraziata, ingentilita dalla morbida curva del piccolo seno e dei fianchi stretti, che il suo occhio esperto intuiva nascosti dalla sottoveste.
Sì, quella era una moderna ragazza d’altri tempi. Non era nelle nuove tendenze flapper dell’ultima moda che doveva ricercare l’abito per lei, ma nella rivisitazione in chiave moderna della raffinatezza del passato. Improvvisamente seppe qual era l’outfit perfetto per lei...
Quando Candy uscì dal camerino per farsi ammirare da Patty e Mrs. Roosevelt immerse in conversazione, sapeva già che non avrebbe fatto altre prove. Le due donne alzarono lo sguardo e sorrisero apertamente. Candy era veramente bellissima, splendente e… lei. Quello era il suo abito da sera, senza bisogno di vertiginose scollatura e tagli della gonna a mostrare le gambe.
Mrs. Huntigton aveva tirato fuori dal cilindro un abito di due raffinatissimi sarti francesi di nicchia, meno sulla cresta delle rivoluzionarie e visionarie Coco Chanel ed Elsa Schiapparelli, ma dotato di un gusto e di una cura del dettaglio impeccabili e raffinatissimi: Martial & Armand.

martialarmand



L’effetto strabiliante dell’abito era tutto giocato sulla sovrapposizione di differenti tessuti e tonalità di colore: dal delicato e caldo grigio perla della gonna in due consistenze di seta e raso, al raffinato antracite del trasparente merletto a impalpabili ricami floreali, che faceva capolino dal ginocchio in giù a coprire l’orlo della gonna, arrivando a sfiorare il pavimento. Anche la scollatura riproponeva la stessa sovrapposizione di tessuti, con un taglio retto del corpetto di seta chiara sul seno, ricoperto dalle morbide pieghe di chiffon ricamato più scure. Le trasparenze dello chiffon continuavano poi nelle maniche morbide e velate fino al gomito. A completare il tutto, una fascia alta di seta annodata lateralmente esaltava il vitino di vespa di Candy, facendo da immaginario trait d’union tra i diversi tessuti e tagli del modello.
Patty aveva le lacrime agli occhi e Mrs. Roosevelt un sorriso soddisfatto mentre commentava:
- Tesoro, qualunque impedimento lo abbia trattenuto, credo proprio che, dopo averti vista stasera, il nostro Terence si morderà le mani per non averti scritto prima quella lettera. Celia, mia cara, che ne direbbe di mostrarci anche gli accessori più adatti?


*Romeo e Giulietta, Atto I, scena V.

...CONTINUA...