Seawood Mansion,
Miami, Florida
04 settembre 1919
Caro William
Spero questa mia ti trovi bene.
Abbiamo saputo dai giornali del tuo fidanzamento e non posso non ammettere di essere rimasta turbata dal non esserne stata messa a parte direttamente da te.
Non avrei mai immaginato, cugino mio, che i dissapori del passato ti avrebbero spinto a ignorare il valore della famiglia, allontanandoci dalla tua vita fino al punto di non condividere con noi questo lieto evento.
Non è quello che la zia Elroy si sarebbe aspettata dai suoi nipoti.
Per questo motivo, per rispetto alla sua memoria, mi sono decisa a prendere la penna per scriverti, sperando che in questo modo si possa mettere una pietra sopra le incomprensioni del passato e tornare ad essere una famiglia.
Tra due settimane daremo, presso l’ultimo nato nella nostra catena di resort, un ricevimento per festeggiarne l’apertura a Miami Beach, e saremmo molto lieti se tu volessi intervenire, presentando così ufficialmente la tua fidanzata a tutti noi. Sono certa che non appena avrai avuto modo di vedere lo splendore del “Charmant”, desidererai concorrere ai nostri prossimi investimenti nel ramo.
Per l’occasione, ci raggiungerà anche Iriza da New Orleans. Aspetta un bambino ed è sempre più radiosa.
Inoltre, il governatore della Florida, e nostro futuro consuocero, Sidney Johnston Catts, ha espresso il desiderio di conoscerti. Spero che non vorrai deludere le sue aspettative, che sono anche le nostre.
Nonostante la freddezza che hai sempre riservato a questo ramo della famiglia, io rimango sempre
La tua devota cugina
Sarah Legan._______________________
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Miami, Florida,
20 settembre 1919.Un caldo umido appena spezzato da una lieve brezza estiva penetrava dalla grande porta finestra della camera d’albergo, aperta sulla magnificente potenza dell’oceano e sugli ultimi raggi che il sole elargiva prima del tramonto sulla baia di Byscaine.
Terence, già pronto per la serata nel suo impeccabile ed elegantissimo smoking, era comodamente seduto al tavolino di vimini del terrazzo, sorbendo l’aperitivo analcolico che aveva chiesto e respirando con soddisfazione l’aria salsa proveniente dalla spiaggia, stupendosi ancora una volta della molteplicità di climi e paesaggi esibiti dalla vastità infinita degli Stati Uniti. In effetti, faceva molta fatica a credere che quel clima caldo-umido e la temperatura mite della perenne estate che riscaldava quella cittadina, in espansione ma ancora profondamente provinciale, fossero conciliabili con l’immagine che avevano lasciato in un Midwest che già si era addobbato delle sue vesti autunnali, spazzato dalle prime avvisaglie di vento freddo che anticipavano il lungo inverno con il suo carico di neve sconosciuto in Florida, se non grazie a qualche pellicola in bianco e nero in uno dei nuovi cinematografi che sorgevano come funghi in ogni città degli Stati Uniti.
Pensò anche a ciò che li attendeva a New York al loro rientro, di lì a tre giorni. Era iniziata la sua stagione preferita, il malinconico autunno dai riflessi ramati, nel quale aveva sempre scorto un perfetto riflesso della sua stessa tristezza nei lunghi anni che avevano preceduto la sua rinascita. Spezzato l’assedio della canicola estiva che opprimeva come un coperchio rovente la città, e che quell’anno aveva volentieri lasciato agli altri newyorkesi, godendosi invece la fresca e dolce estate dell’Indiana, la grande mela concedeva il meglio di sé, come in primavera, ma con colori completamente diversi e più vicini alla sensibilità inquieta di Terence. Le giornate si accorciavano, e le mille luci della città si riappropriavano sempre più presto del loro ruolo di protagoniste nelle vie principali, e in particolare di Broadway, che riapriva i battenti dopo la pausa estiva, pronta a regalare una nuova stagione di sogni e immaginifiche esistenze da palcoscenico a milioni di sognatori, di appassionati e, purtroppo, anche di ignoranti beoti del
jet set, i quali non avrebbero saputo distinguere la presenza in scena di John Barrymore nei panni di Riccardo III da quella di un qualsiasi gorilla dello zoo del Bronx.
Terence bevve un altro sorso della sua bevanda, accavallando elegantemente le gambe e appoggiandosi rilassato al cuscino rosso sull’ampio schienale di vimini a motivi intrecciati.
Sospirò, appagato. Per quanto avesse goduto di ogni istante dell’estate appena trascorsa a Chicago e alla casa di Pony, dovette ammettere con se stesso che non vedeva l’ora di tornare alla città alla quale apparteneva con intenso amore filiale, e al suo lavoro, che rappresentava la sua seconda vocazione (dopo quella per la moglie).
Da quando era passato sotto l’arco di Washington nel lontano autunno del 1913, in quella sorta di rito iniziatico di benvenuto che aveva costituito anche il simbolo del suo passaggio dalle stanze dell’adolescenza a quelle dell’età adulta, New York era diventata la sua seconda madre, talvolta matrigna, ma sempre legata a lui da un legame inossidabile che gli scorreva sottopelle e respirava allo stesso ritmo del suo respiro.
L’aveva amata, odiata, respinta e ancora cercata, in un’altalenanza che tutto era, tranne che la condiscendente indifferenza di un suo qualsiasi abitante occasionale, come gli altri milioni che ogni giorno sfrecciavano per le sue maestose vie senza neanche alzare lo sguardo ad ammirare la sontuosità che quella passionale città si degnava di condividere con loro.
Romeo lo attendeva al varco sul palcoscenico del teatro Stratford, e questa volta sarebbe stato un personaggio completamente diverso da quello portato in scena per l’ultima volta cinque anni prima. Allora, il carico di sofferenza e dolore recitati tra i corridoi e sulla terrazza del St. Jacob’s Hospital erano corsi paralleli a quelli che avevano scandito l’amore, del giovane Montecchi per la sua anima gemella tra le vie di Verona, veloce e fragile come il battito delle ali di una libellula
Proprio in quel momento la sua Giulietta comparve sul terrazzo, preannunciata dal fruscio del raso lucido di un raffinato abito color cipria, dal taglio scivolato e morbido e dalle cuciture di sbieco sulla gonna lunga fino ai piedi. La scollatura a V lasciava appena intravedere l’attaccatura del seno, e le maniche coprivano appena le spalle. I capelli erano sempre più lunghi e lasciati sciolti, trattenuti solo sulle tempie da due fermagli di onice che scoprivano i due veri gioielli di quella splendida
mise: gli occhi nei quali il marito non si sarebbe mai stancato di perdersi.
- Ti dispiacerebbe chiudermi i bottoncini del vestito? – gli chiese Candy, sollevando con una mano i capelli e voltandosi per mostrargli la schiena, ben sapendo quanto al marito piacesse assolvere a quel compito.
Terence sorrise e si alzò dal suo posto, poggiando sul tavolino il bicchiere vuoto e portandosi alle spalle della moglie, sfiorando col palmo della mano esattamente il centro della sua schiena nuda e godendosi il tremito che la percorse immediatamente al suo tocco, mentre con l’altra mano le accarezzava una spalla.
- Con piacere – mormorò, le labbra che le lambivano la morbida curva tra il collo e il mento, vicino al suo orecchio sinistro.
Candy chiuse gli occhi, godendosi il languore che la percorreva sotto il tocco congiunto delle mani e della bocca del marito.
- Non mi pare che tu mi stia aiutando.. – lo rimproverò, con una voce arrochita che infiammò il marito ancora di più del profumo di rose che aspirava dai suoi capelli, e della setosa consistenza della pelle della sua schiena, che stava adesso percorrendo in una carezza leggera, ma che lasciava una scia infuocata dietro di sé.
- Credevo di sì.. – rispose lui con voce a sua volta incupita dal desiderio, spostandosi lentamente dall’altro lato della nuca e sfiorandole il lobo dell’orecchio con la lingua e il calore del suo respiro, lievemente accelerato.
Candy si abbandonò languidamente contro il torace del marito, che continuò la sua dolce tortura su di lei per qualche secondo, prima di staccarsi riluttante per dirle con voce fintamente contrariata:
- Hai intenzione di provocarmi e di costringermi a restare qui tutta la notte, per dare sfogo al fuoco che accendi consapevolmente in me con la tua finta innocenza, moglie?
- Ho pensato che fosse la mia ultima
chance di evitare questa assurda buffonata alla quale tu, Archie e Albert sembrate così impazienti di partecipare – gli rispose lei, riprendendo il controllo della sua voce e dei suoi sensi mentre il marito cominciava ad abbottonarle l’abito, soffocando la delusione per i tratti della schiena perlacea di Candy che scomparivano a mano a mano che il vestito si chiudeva.
- Invece, dovresti essere contenta che io e quel damerino di tuo cugino abbiamo finalmente trovato un punto di incontro! – ribatté Terence, prendendola per le spalle e facendola voltare verso di lui per posarle un bacio sul naso cosparso dalle lentiggini che il caldo sole estivo aveva trasformato in una pioggia dorata sul suo viso.
- Quando si tratta di andare contro Iriza e Neal, puoi stare certo che avrai sempre il suo appoggio! – rispose Candy, seguendo il suo aristocratico profilo con l’indice della mano destra, fermandosi sulle sue labbra per riceverne il tocco delicato di un bacio sul polpastrello.
- Meglio così! Anche se avrei preferito che in passato avesse espresso con maggiore vigore questa posizione, invece che solo a parole... non mi pare che alla St. Paul School qualcun altro oltre al sottoscritto ti abbia mai difeso dalle angherie di quei due cafoni, rivestiti di finta rispettabilità con una mano di vernice talmente leggera da lasciar trapelare con evidenza tutto il marcio che ricopre... – gli occhi di Terence si infiammarono di rabbia, rievocando l’immagine di Neal e dei suoi amici che si contendevano Candy con violenza, in un sabba orribile i cui possibili esiti ancora gli facevano ribollire il sangue nelle vene e montare dentro una furia incontrollabile.
Candy gli strinse il braccio per calmarlo, percependo la sua ira e cercando di trasmettergli il suo calore per rasserenarlo.
- Certo, Terry, era il minimo che potessi fare, visto che io ero l’unica persona in tutta la scuola che ti rivolgesse la parola! – gli disse, cercando di stemperare la tensione.
Come sempre il tocco e la voce di Candy ebbero il proprio effetto taumaturgico sul ragazzo, dalla cui fronte scomparvero le ombre e il nero cupo dei cui occhi tornò alla consueta tonalità blu zaffiro.
- Non solo la parola, se ben ricordo, Tuttelentiggini! Ogni occasione era buona per gettarti su di me, fingendo di inciamparmi addosso...
- Smettila Terry, non fai altro che rievocare quella stupida faccenda. Non l’ho fatto apposta, e lo sai benissimo!
-
Terry... è stata la prima volta che mi hai chiamato così – mormorò Terence con voce colma di tenerezza, prima di aggiungere con un ghigno, di nuovo allegro – eri già innamorata cotta di me, ammettilo, Candy!
La ragazza nascose il sorriso che le era salito spontaneamente alle labbra per rispondergli:
- Ero esasperata dalla tua presenza e dalle tue provocazioni, tanto che per farti tacere fui costretta a regalarti un’armonica, per fornirti un’alternativa d’uso per quella tua boccaccia!
- Beh, se era solo per quello, avresti potuto trovare altre di alternative d’uso per la mia bocca, Tuttelentiggini! – le rispose lui, dandole pronta dimostrazione di quanto intendeva.
Staccandosi da lei, dopo diversi minuti in cui l’unico rumore sulla terrazza fu quello delle onde che si frangevano sulla spiaggia e accompagnava i loro respiri e il suono delle loro labbra che si cercavano, Terence respirò beatamente e disse con voce eccitata, prendendo Candy per la mano:
- Molto bene, mia cara! E adesso smettila di distrarmi e andiamo! Ho un conto da saldare con un verme e una serpe da ben sei anni... e io saldo sempre i miei conti!
Prendendo il suo scialle e la sua borsetta, Candy si avviò verso l’uscio per mano al marito, vagamente preoccupata per l’esito della lunga serata che li attendeva.
Anche nell’uomo, come in certe erbe,
si accampano due contrastanti despoti:
grazia e brutalità.
E dove il peggio prevale,
il cancro della morte si divora la pianta. *
Il pretenzioso salone stuccato d’oro sovrastato da una imponente cupola di vetro istoriato risuonava delle note di un’orchestra jazz, musica in gran voga in quegli anni in particolare negli Stati del sud, che stava risalendo lungo la costa orientale come una febbre dilagante, pronta a conquistare l’America ed il mondo ed a fornire la colonna sonora degli anni ruggenti che ne avrebbero cambiato la fisionomia.
L’aria era carica di eccitazione e l’alcol scorreva a fiumi già da un po’ quando gli Andrew fecero la loro comparsa, accompagnati dalle prime ombre della sera.
Annie ed Archie avevano lasciato i figli con i nonni Brighton, e quella era la prima vacanza che si concedevano da quando i gemelli erano nati. Sembrava che l’effetto fosse stato benefico per entrambi, perché Annie era radiosa e Archie completamente rilassato, molto più che nei panni di dirigente della Andrew Enterprises. L’indomani, insieme a Candy e Terence, sarebbero ripartiti per New York, dove la settimana successiva erano fissate le nozze di Patty e Hal. Quindi, dopo un’orgia di shopping nella Fifth Avenue, sarebbero tornati a Chicago, ai figli ed alla Andrew House, improvvisamente svuotatasi dei suoi tanti abitanti estivi.
Albert e Josephine avevano accantonato i preparativi per le nozze per concedersi quella settimana sulle spiagge della Florida, e il lungo viaggio in treno era stato anche l’occasione per la ragazza di ammirare, con il suo occhio artistico sempre all’erta, gli straordinari e variegati paesaggi che gli Stati Uniti le fecero scorrere davanti, come in un’esibizione del proprio più meraviglioso campionario, in un estremo tentativo di sedurla per impedirle di lasciarli.
Albert non aveva ancora trovato l’occasione per parlare con Candy e dirle che alla fine di ottobre, subito dopo le nozze con Josephine nella Holy Name Cathedral di Chicago, avrebbe lasciato l’America e si sarebbe trasferito a Parigi.
Si riprometteva di farlo prima di lasciare Miami e che la sua piccola Candy si dirigesse verso la sua nuova vita a New York, che di certo l’avrebbe aiutata, insieme all’amore di Terence, ad accettare questo ulteriore cambiamento.
Ma quella sera tutta la sua attenzione era per i Legan, con i quali aveva dei conti aperti che affondavano nel passato, e che aveva intenzione di chiudere definitivamente prima di lasciare l’America.
Sarah gli andò incontro non appena lo vide incorniciato dalla porta d’ingresso del salone, mano nella mano ad una Josephine splendida in seta blu notte, lasciando il marito ad intrattenere il sindaco di Miami con il racconto dei prossimi scenari espansivi per le loro attività edilizie in città.
- William! Che piacere rivederti dopo tanto tempo! Siamo felici che tu abbia accolto il nostro invito. Cosa ne dici del nostro ultimo gioiello? E questa deve essere la deliziosa Josephine, immagino. Che delizioso profilo, così francese, decisamente... ha forse ascendenze nell’aristocrazia del vecchio mondo,
mademoiselle? – li travolse subito Mrs. Legan, curandosi di porre bene l’accento sul nuovo trionfo della famiglia in tema di
resort di lusso e nello stesso tempo di mettere Josephine immediatamente in condizione di affermare le proprie umili origini, delle quali i Legan erano peraltro già a conoscenza, avendo svolto approfondite ricerche sul suo conto. Sembrava incredibile che William fosse la preda preferita di ogni trovatella e morta di fame che si aggirasse nei suoi paraggi!
Josephine non si fece turbare minimamente dalle fintamente cordiali e veramente allusive maniere di Sarah, rispondendole con una disarmante semplicità che nascondeva un piacere malizioso:
- A dire il vero credo proprio di no, madame. Sarebbero caduti veramente in basso questi nobili ascendenti, visto e considerato che mio padre è un semplice impiegato comunale ad Aix-en-Provence. Certo, c’è da dire che durante la Rivoluzione Francese molti aristocratici sono decaduti, potendo già considerarsi fortunati di non essere finiti sulla ghigliottina. Gran cosa la Rivoluzione Francese e la democrazia, non trova, madame?
Di fronte alla arguzia della ragazza Sarah batté rapidamente in ritirata, troppo ottusa per comprenderne l’ironia e troppo snob per degnarla della sua sincera considerazione. L’unico motivo per cui tollerava la sua presenza era il legame con il capofamiglia, per il quale, alla fin fine, si trovava costretta a fare buon viso a cattivo gioco.
Gli affari del marito prosperavano ancora, ma sempre più spesso i suoi partner commerciali ed imprenditoriali cominciavano a chiedere ulteriori garanzie finanziarie. Poter godere dell’appoggio del solido patrimonio Andrew costituiva un
passepartout per tutto il gotha finanziario americano, molto più dell’oscura fortuna del marito di Iriza, Louis De Francois Vouilleres, il quale, tra l’altro, si diceva stesse precipitando velocemente verso la bancarotta a causa di una lunga serie di investimenti sbagliati. Rinsaldare il rapporto con William era fondamentale in quel momento, per il proliferare degli affari dei Legan. Anche il matrimonio di Neal con Clelia Johnston Catts dipendeva dal suo appoggio, visto e considerato che il potente governatore della Florida non aveva mai inteso dare la sua figliola in sposa a niente di meno che ad un rampollo di una delle più influenti famiglie americane, e non al suo ramo collaterale.
- Dunque, William, sono molto contenta di averti qui con noi – riprese Mrs. Legan, riavutasi dalla sorpresa per la reazione inaspettata di Josephine alle sue provocazioni.
- Mi fa piacere. E sono certo che sarete lieti dell’idea che ho avuto di portare con me anche il resto di noi, in modo che si possano accantonare definitivamente i rancori del passato e tornare ad essere una famiglia sola – le rispose Albert con voce eccessivamente melliflua.
Sarah represse un moto di stizza all’idea che quelle due trovatelle con i rispettivi mariti fossero presenti sotto il suo tetto. Quell’erba malefica che era entrata nelle loro vite tanti anni prima era proliferata e si era avvinghiata alle pareti della loro esistenza, resistendo tenacemente ad ogni suo tentativo di debellarla
- Sarò molto franco, con te, Sarah – continuò Albert - dal giorno del funerale della zia Elroy e dal vostro inqualificabile comportamento, che ha stravolto completamente il senso del volere della zia che Lakewood restasse alla famiglia, qualcosa si è spezzato tra noi.
- Noi non abbiamo stravolto alcunché, William. Lakewood è venuta a me ed avevo il diritto di farne ciò che volevo! Non avendo nessuna intenzione di viverci, l’ho ceduta a mia figlia Iriza e, tramite lei, a nostro cognato, che la sta amministrando nel modo più profittevole per i nostri interessi. Credo abbia trovato un ottimo compratore, a dirla tutta. Dovresti essere contento che questo ramo della tua famiglia, nonostante il disprezzo con cui l’hai sempre trattato, dimostri tanto acume per gli affari.
La rabbia per il freddo comportamento di William aveva fatto cadere la prudenza con la quale Sarah aveva inizialmente deciso di approcciare quell’incontro. Il fatto di dovere mantenere un atteggiamento di inferiorità rispetto al capofamiglia che tante volte li aveva pubblicamente umiliati, come in occasione del fidanzamento di Neal con la trovatella, sposato alla durezza del tono con il quale le si stava rivolgendo nonostante tutti i suoi tentativi concilianti, avevano vinto l’ipocrita gentilezza con la quale si era sforzata di aprire quella conversazione.
- E dimmi, Sarah, per quale motivo, dovendo mettere in vendita Lakewood, non hai ritenuto di informarmene? Così che, non avendo avuto la decenza di lasciarla nelle mani nelle quali avrebbe sempre dovuto essere quando ne hai avuto l’opportunità, potessi darmi almeno la possibilità di riacquistarla?
Sarah arrossì per l’imbarazzo. Vendere Lakewood era stata la sua vendetta, la sua rivalsa per tutte le angherie che riteneva di aver subito da Albert. Mai e per nessun motivo aveva avuto intenzione di farla tornare nel patrimonio di famiglia.
- Noi...noi abbiamo ricevuto un’offerta che non era possibile rifiutare, William... sei un uomo d’affari anche tu e capirai! Inoltre, come ti ho già detto, è stato Louis a gestire il tutto...
- Sì, beh, credo che avremo modo di tornare sull’argomento tra poco, Sarah, insieme a Candy ed a suo marito.
- Non ne capisco il motivo, William. E’ una faccenda morta e sepolta. Chiusa. Spero che vorremo andare avanti.
- Io sicuramente sì, Sarah. Voglio decisamente andare avanti e lasciarmi alle spalle i vostri intrighi, le vostre meschinità e tutti questi anni in cui non avete fatto altro che cospirare alle mie spalle, approfittando della mia assenza, prima, e della mia benevolenza, dopo.
Sarah cercò di intervenire, ma Albert la interruppe, riprendendo con tono tagliente, sotto lo sguardo colmo di ammirazione di Josephine:
- Lasciami essere chiaro, Sarah. So perfettamente il motivo per cui mi hai invitato qui, e non ha niente a che vedere con il piacere di fare la conoscenza con la mia fidanzata, alla quale ti invito a non riservare ancora un tono di voce condiscendente come quello col quale ti sei rivolta a lei prima, se non vorrai pentirtene amaramente – Sarah sgranò gli occhi, sorpresa e preoccupata da quell’Albert così combattivo e minaccioso, così diverso dal solito - So che, sebbene gli affari di tuo marito prosperino in questo momento, non potete certo contare sulla forza del nome degli Andrew, senza il mio appoggio. E quell’appoggio vi serve eccome, mia cara, lo sappiamo entrambi. Quindi, direi che possiamo smetterla con i convenevoli e arrivare subito al punto della faccenda. Vi consentirò di rientrare in seno alla famiglia e di riprendere a gravitare nell’orbita degli Andrew, cosa che peraltro ritengo sia fondamentale agli occhi del padre della futura moglie di Neal per portare a buon fine il loro fidanzamento. Ma bassezze, macchinazioni, viscidi tranelli e doppi giochi devono finire. Adesso. E se avrò modo di dubitare della lealtà per il futuro tua, di quella del degno sangue del tuo sangue e dei loro consorti, per non parlare di quell’uomo sprovvisto di spina dorsale che ha avuto la sventura di sposarti, ve ne farò pentire. A-MA-RA-MEN-TE. Sono stato sufficientemente chiaro, Sarah?
Gli occhi di Albert erano due lame d’acciaio e la sua voce di un ghiaccio che derivava da anni di frustrazione e inutile pazienza verso quello sventurato ramo degli Andrew il cui frutto, come spesso accadeva in ogni famiglia, era caduto tanto lontano dall’albero.
La zia Elroy aveva avuto dalla sua parte almeno l’attenuante dell’età e della difficoltà per una donna della sua generazione di comprendere i cambiamenti epocali che avevano attraversato la sua vita, iniziata in un ottocento puritano per terminare nel bel mezzo delle rivoluzioni culturali del XX secolo. Inoltre, aveva una natura poco votata all’affettuosità che difficilmente avrebbe potuto comprendere l’indole solare e generosamente espansiva di Candy.
Ma Sarah e i suoi figli non avevano alcuna attenuante per aver odiato fin dal primo sguardo una bambina di dodici anni ed averla angariata, umiliata, terrorizzata oltre ogni umana capacità di sopportazione. Non avevano giustificazioni per aver trascorso tutta la propria vita in una fallace idea di ciò che derivasse da una posizione di privilegio, facendone conseguire la convinzione che tutto ciò che stava più in basso andasse schiacciato senza pietà. Era giunto il momento di porre fine a tutto ciò.
Mrs. Legan capì subito che non c’era nulla da replicare; non era una stupida e sapeva riconoscere una sconfitta.
William era ancora il capofamiglia e sarebbe bastato un suo cenno per decretare la fine degli affari del marito, di quelli del genero e per mandare completamente a monte l’ottimo matrimonio di Neal con la figlia del governatore. Era il momento di piegarsi.
- Molto bene, William. Credo di aver capito ciò che intendi. Ritengo di poterti rassicurare che le tue parole non sono cadute nel vuoto – gli rispose a capo chino ed a denti stretti.
Josephine avrebbe voluto lanciare un grido di gioia o gettare le braccia al collo del fidanzato, il quale aveva messo a tacere quella squallida parvenza di donna che rappresentava tutto ciò che le faceva più ribrezzo, ma non ritenne che fosse il momento opportuno. Si ripromise di manifestargli adeguatamente la propria stima quella notte, sgusciando nella sua stanza di soppiatto.
Albert però non mutò espressione né tono di voce nel ricevere la resa della cugina. C’era ancora una cosa che andava fatta:
- Molto bene, Sarah. Vedo che ci siamo compresi a dovere. Credo quindi che non ci sia altro da fare che iniziare questo nuovo corso tra noi; e quale miglior modo che cominciare con il porgere le tue scuse a Candy per tutto ciò che tu ed i tuoi figli carenti d’educazione le avete fatto passare in questi anni?
Sarah sgranò gli occhi inorridita da quella prospettiva, ma l’espressione di Albert non lasciava adito a dubbi o a margini di trattativa.
Ancora una volta, per il futuro dei suoi figli e di quell’inetto marito che lasciava a lei il peso di ogni responsabilità, sembrando essere geneticamente sprovvisto della capacità di gestirle, piegò il capo e si accinse a pagare il dazio (dopo aver goduto per tanti anni solo dei relativi privilegi) di essere una Andrew, tra i quali la parola del capofamiglia aveva ancora la stessa autorità inappellabile con cui il loro trisavolo aveva chiamato a raccolta il clan contro gli inglesi nella battaglia di Stirling.
Candy, al colmo dell’eccitazione a fianco di un divertito Terence, stava raccontando ad Annie ed Archie della gioia appena provata nell’aver ritrovato, sgattaiolando di soppiatto nelle cucine, i suoi amici dei tempi in cui viveva in casa Legan: Mary, Stewart, il sig. Whitman e il cuoco, Dug. Quelle persone speciali nella sua infanzia erano state l’unico suo raggio di sole tra quelle pareti altrimenti costellate solo dei dispetti maligni dei fratelli Legan.
Avevano riso e pianto tutti insieme, rievocato i vecchi tempi e Terence aveva persino scattato a tutti delle foto ricordo. Alla fine Candy aveva chiesto loro di tornare a Lakewood per prendersi cura della tenuta, sotto la supervisione di un commosso Vincent Brown, nei lunghi periodi in cui lei e Terence sarebbero stati a New York. La felicità di tutti per quella inaspettata possibilità di rompere una volta e per tutte i vincoli con la famiglia Legan, e di tornare ai luoghi ai quali anche loro sentivano di appartenere, era stata incontenibile.
- Oh, Candy, sei incredibile: vieni ad una
gran soirée e ti rintani nelle cucine con i tuoi amici per metà del tempo! – sorrise Annie, provocando una smorfia imbarazzata dell’amica, esattamente la stessa che le rivolgeva da bambina quando l’amica la rimproverava per qualche marachella compiuta sotto gli occhi di Miss Pony e Suor Maria.
Stavano ridendo tutti rilassati quando Candy sentì una voce familiare alle sue spalle.
- Candy, posso parlarti un momento? – chiese Sarah Legan, raggiungendo al fianco di Albert e Josephine il quartetto.
- Ma certo, Mrs. Legan. Come sta? – rispose Candy, guardinga ma come sempre incapace di manifestare astio.
- Ehm..bene, grazie. Potremmo parlare in disparte? – chiese la donna, cercando con gli occhi un luogo appartato dove assolvere al suo spiacevole compito.
- Non credo sarà necessario, Sarah. Siamo una famiglia e non c’è
niente che tu debba dire che non possa essere detto in presenza di tutti. Non pensi? – intervenne Albert prontamente, tagliando ogni via di fuga alla donna e costringendola ad una pubblica resa incondizionata.
Sarah digrignò i denti, non avrebbe mai immaginato che quella serata si sarebbe trasformata in un tale incubo.
Candy la guardava perplessa e in attesa. Sarah si sentiva morire: quella maledetta trovatella le aveva rovinato la vita.
- Sì, ecco... – riprese Mrs. Legan a fatica. Fece un respiro per darsi coraggio e decise di bere l’amara bevanda in un solo sorso, sperando di attenuarne il sapore venefico – Candy, io...sono molto contenta che tu sia venuta qui questa sera, perché mi dai la possibilità di fare ciò che desideravo fare da tempo...
Sarah fece una pausa e si volse verso Albert che annuì gravemente, come per incoraggiarla, e quindi proseguì:
- In effetti Candy, credo che tra noi siano sorte delle... incomprensioni e dei rancori in questi anni... del tutto involontariamente, certo, ma che tuttavia hanno incrinato i nostri rapporti in maniera significativa...
Candy sgranò gli occhi, basita per le parole che aveva appena sentito. Già ascoltare Mrs. Legan rivolgersi a lei con un tono meno che freddo era un’assoluta novità; ma sentirla quasi balbettare era veramente inconcepibile. Terence accanto a lei, con le mani in tasca e un bagliore cattivo negli occhi fissava la donna con un sorriso per nulla indulgente nel vederla in grande difficoltà, come se stesse assistendo ad un ben allestito ed appagante spettacolo teatrale.
- ...dunque, Candy, quello che volevo dirti è che credo sia giunto il momento di mettere una pietra sopra il passato ed andare avanti... siamo membri della stessa famiglia e questo... distacco... tra noi non ha più senso.
Mrs. Legan aveva la stessa espressione di qualcuno che avesse inghiottito un boccone talmente amaro da provocargli le lacrime, e Candy si sentì travolgere dalla pietà. Stava per interromperla quando Terence le strinse un braccio e la guardò severamente, per farle comprendere di tacere.
- Io... io... ti porgo le mie scuse, Candy se per caso qualche mia parola o gesto del passato può averti in qualche modo causato disagio.
Le parole di Sarah Legan deflagrarono nel salone con la potenza di un’esplosione. Annie e Candy rimasero a bocca aperta per lo stupore, Archie espirò profondamente tutto il disprezzo per la zia covato negli anni e Terence atteggiò le labbra ad un ghigno soddisfatto.
Ma Albert non era ancora soddisfatto:
- Ti riferisci per caso a qualche episodio in particolare, Sarah, per il quale vuoi dare adesso qualche parola di spiegazione?
Sarah si voltò verso Albert, in preda alle vertigini ed alla nausea. Che cos’altro voleva da lei adesso?
- Vuoi forse chiarire una volta per tutte la strana vicenda che vide Candy accusata di furto in casa tua ed in conseguenza di ciò condannata senza appello ad andare in Messico?
- Albert...ti prego... – cercò di intervenire Candy, ma nessuno sembrò curarsi di lei.
Sarah chiuse gli occhi. Quell’incubo sembrava senza fine...
- Ecco, sì.... in effetti William, in quel caso fu fatto un errore. Ci accorgemmo in seguito che il bracciale e la collana erano finiti per errore nelle stalle, tra le cose di Candy.
- Quindi mia moglie non è, e non è mai stata, una ladra. Dico bene, Mrs. Legan? – intervenne Terence, ansioso di dare il colpo di grazia a quella donna che gli faceva ribollire il sangue con la sua sola presenza.
- No, naturalmente no... – concluse lei, fissandolo con odio.
- Molto bene, sono felice che questo spiacevole episodio sia stato chiarito una volta per tutte – rispose Terence con aria allegra, prima di tornare repentinamente al suo tono più gelido, con la sapienza del grande attore che modulava il suo strumento di lavoro, per dare la stoccata finale – ...ah, Mrs. Legan, le sarei grato se d’ora in poi volesse rivolgersi a me ed a mia moglie con il nostro titolo: marchesi. Sa, noi aristocratici ci teniamo a queste sottigliezze...
Per la prima volta dall’inizio di quella terribile scena, Candy represse a stento una risata dissimulando un colpo di tosse, ben sapendo quanto Terence odiasse il suo titolo e che ci si rivolgesse a lui in quel modo. Ma la sua attenzione fu di nuovo immediatamente attratta da Mrs. Legan che, rossa in viso, sembrava sull’orlo di un colpo apoplettico. Si voltò verso Albert, come supplicandolo silenziosamente di concederle la grazia, e finalmente lui parve muoversi a pietà. Era abbastanza.
- Ti ringrazio Sarah, per questo doveroso chiarimento. Adesso – le disse con un tono di voce leggermente più dolce – credo tu possa tornare ai tuoi ospiti: non vogliamo monopolizzare le tue attenzioni.
- Con permesso... – mormorò la donna, raccogliendo il vestito tra le mani ed allontanandosi di gran carriera, trascinandosi dietro l’inesistente residuo della propria dignità calpestata, con lacrime di rabbia e umiliazione che premevano per sgorgarle dagli occhi.
- Oh amore, sei stato magnifico, eccezionale, incredibile! Non penso di averti mai amato tanto come in questo momento – esclamò Josephine, gettando le braccia al collo di Albert con trasporto e non trattenendosi più dal baciarlo, del tutto incurante della presenza di centinaia di persone nella sala.
Albert ricevette il suo premio con un sorriso compiaciuto e poi si volse a Candy ed Annie, ancora sotto shock per la scena alla quale avevano appena assistito.
- Credo proprio che non vi darà più fastidio per il futuro... e se dovesse succedere, fatemelo sapere.
- Albert, non era necessario... sei certo che l’accaduto non l’abbia inviperita ancora di più? – chiese Candy, vagamente preoccupata.
- Non è più nelle condizioni di nuocere, piccola. La colpa è stata solo mia, ho trascurato per troppo tempo di rimettere le cose al loro posto, e mi dispiace che tu abbia dovuto aspettare tanto. Ma adesso è finita.
- Non del tutto – intervenne Terence seccamente, gli occhi improvvisamente accesisi nel suo sguardo di tigre feroce e puntati fissamente sulle sue prede, Iriza e Neal, che entravano in quel momento nel salone al braccio dei propri accompagnatori.
I muscoli del corpo immediatamente tesi e pronti a scattare, li seguì con lo sguardo dirigersi verso il centro della stanza, dove si fermarono, prendendo dei drink dal vassoio di un cameriere di passaggio e cominciando a sorseggiarli pigramente.
- Volete scusarmi solo per un momento, per favore? – si scusò Terence, senza distogliere lo sguardo dalle sue vittime e muovendosi a passi felini nella loro direzione.
- Terence, per favore, non... – Candy non aveva idea di quali fossero le intenzioni del marito, ma conosceva meglio di chiunque altro quello sguardo, e cominciò a sentirsi invadere da un certo panico.
- Piccola, lascialo andare – intervenne Albert, mettendole una mano sul gomito. Sapeva bene che molto del dolore che lei e il marito avevano affrontato negli anni precedenti era stato dovuto alle macchinazioni di Iriza per farla espellere dal collegio. Era giunto il momento anche per sua nipote di pagarne il prezzo, e direttamente a Terence – anzi, ti prego, vieni con me in terrazza, ho bisogno di parlarti.
Terence ed Albert si scambiarono un cenno d’intesa e il più giovane annuì. L’amico aveva scelto quel momento per confidare a Candy i suoi propositi per il futuro.
Candy si allontanò con Albert, mentre Terence si dirigeva ad onorare un appuntamento preso con i due fratelli Legan sei anni prima, nel lasciare per sempre i viali della St. Paul School.
* Romeo e Giulietta, Atto II, Scena III....CONTINUA...
Edited by cerchi di fuoco - 6/8/2013, 00:46